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Gioventù celebrata, gioventù mostrificata

2. Fantasmi della gioventù, tra inquietudini e anomia sociale

2.2 Gioventù celebrata, gioventù mostrificata

Ma torniamo allo spettro celebrazione/patologizzazione della gioventù. Si tratta, a ben vedere, di una tensione che attraversa le epoche storiche e i contesti sociali e culturali più disparati. Una dinamica trans-culturale, forse, che risiede nella inevitabile difformità tra aspirazioni delle diverse

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generazioni (giovani e adulti) e trasformazioni nella struttura politica di accesso a risorse, opportunità, beni sociali (Bourdieu, 1984)6.

Nel corso del Novecento la prima cornice politico-culturale di mobilitazione della gioventù in Tunisia può essere rintracciata nel movimento nazionalista: nel 1907 a Tunisi apparve il gruppo dei ‘Giovani Tunisini’ che, oltre a richiedere il ritiro dei francesi dalla Tunisia, rivendicava maggiori possibilità di accesso all’istruzione francese e di impiego nell’amministrazione del protettorato e nell’agricoltura (Hourani, 2009).

L’emergenza di una voce distintiva ‘giovanile’ nella scena pubblica politica e culturale nazionalista e in seguito anti-coloniale, all’alba del ventesimo secolo, va legata a un altro movimento, quello del riformismo islamico (o modernismo), la cui fondazione va collocata alla fine del diciottesimo secolo ad opera del teologo egiziano Mohammed Abduh e che si impose con forza nel paesaggio culturale e politico del Maghreb di inizio Novecento. Questo movimento proponeva un’interpretazione letteralista delle scritture religiose e un netto rifiuto del sufismo, le cui figure carismatiche e depositarie della grazia divina (baraka), i maraboutti (murâbiṭ), furono duramente avversati. Secondo Clifford Geertz (2008), il terreno di coltura del nazionalismo è spianato dal purismo scritturalista riformista, al punto che i due movimenti sarebbero talmente intrecciati da risultare indissociabili. La critica al sufismo e ai suoi capi, accusati di aver illegittimamente acquisito posizioni di prestigio, si fondeva con la richiesta di una società innervata sull’applicazione ragionata della

sharî‘ah, a sua volta premessa per la cessazione del dominio degli

occupanti stranieri, gli europei. Tali posizioni riscuotevano, nell’ambiente culturale di inizio secolo, grandi consensi tra le ‘nuove’ masse urbane che in quel periodo si apprestavano a prender parte a grandi trasformazioni sociali, economiche, demografiche.

6 Le cangianti concettualizzazioni di ‘gioventù’ dipendono inoltre dal fatto che ‘giovane’ si riferisce simultaneamente a un gruppo culturale, a una classe d’età a una categoria sociopolitica (Herrera, 2006), continuamente fatta e disfatta nella pratica politica e sociale (Durham, 2004).

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I ‘giovani tunisini’ del periodo miravano alla riforma dell’insegnamento musulmano moderno7. La mobilitazione degli studenti progressisti (élèves

mouderrès) non fu priva di legami con le prime rivolte urbane (a partire

da quella, celebre, del 1911 del Djellaz), in cui lotte intellettuali e politico- sociali si fondevano nella nascente cornice nazionalista.

La mobilitazione nazionalista non costituisce che un polo del trattamento culturale riservato alla categoria sociale della gioventù, cui fa il paio la problematizzazione cui essa venne sottoposta in particolar modo a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, in coincidenza con la dismissione dello Stato-provvidenza, progressivamente crivellato dai colpi del libero mercato e della stagione neoliberale.

L’esplosiva proliferazione contemporanea di una cultura giovanile globale e transnazionale, solo in parte coincidente col consumo di beni e merci specifiche prodotte e distribuite entro il mercato capitalistico (Clarke, Hall, Jefferson, Roberts, 2006), non deve indurci a sottostimare la marginalizzazione e l’esclusione cui la gioventù va incontro – a partire dagli scenari neoliberisti del mercato del lavoro, condivise da entrambe le sponde del Mediterraneo – al punto che i giovani costituiscono una contro- nazione di ‘estranei-stranieri’ in seno agli stessi Stati nazionali (Comaroff, Comaroff, 2000)8.

In questi mesi i media riportano senza sosta le immagini delle strade di Algeri invase da masse di giovani in piazza per chiedere – e ottenere – la fine del regime di Bouteflika e un cambio radicale del sistema politico. E cosa dire degli ancor più fragorosi echi sudanesi di giovani – soprattutto giovani donne – capaci di condurre al capolinea un regime dispotico e sanguinario come quello di Omar al Bachir, senza peraltro accontentarsi di un pur straordinario avvicendamento al governo del Paese? Gli esempi andrebbero estesi a Mozambico, Sudafrica, Senegal, Iraq e altri teatri in

7 Tuttavia, a dispetto di quanto si possa immaginare, le istituzionali coloniali avversarono ogni progetto di riforma, ritenendo che la perpetuazione delle strutture sociali e culturali fosse funzionale al mantenimento del giogo coloniale (Ayach, 1995). Va ricordato, a scanso di distorsioni volte a far coincidere l’avvento di una modernità ‘esogena’ con l’innesto della presenza coloniale francese, che in ogni caso già dal 1840 il Politecnico del Bardo prevedeva l’insegnamento multilingue.

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cui atti politici frammentati e dispersi convergono sempre più verso proteste organizzate e strutturate (Honwana, 2013).

‘Sintomo’ delle crescenti diseguaglianze sociali ed economiche, la gioventù incarna un po’ ovunque lo spettro di un corpo sociale esemplificazione vivente della modernità eppure refrattario a ogni disciplinamento, al punto da divenire minaccia all’unità e all’integrità di ogni elaborazione politico-culturale nazionale.

È intorno agli anni Novanta dello scorso secolo che, in Tunisia come in Marocco, i ‘giovani’ cessano di assolvere alla funzione di motore delle politiche sviluppiste intraprese all’indomani dell’indipendenza per iniziare a essere commutati in classi potenzialmente pericolose e perturbatrici dell’ordine sociale (Bennani-Chraïbi, 2007). Infatti, è proprio in quegli anni che la disoccupazione – in specie dei diplomati – e la crescente disconnessione tra sistema educativo e mercato del lavoro iniziano ad assumere proporzioni allarmanti, sancendo così la conclusione storica di quella mobilità sociale che durante le stagioni di Bourguiba e Ben Ali era stata consacrata quale via d’accesso alla modernità.

È in questo contesto che i giovani – in particolar modo quelli dei ceti popolari e medi, traditi dalle promesse infrante della modernizzazione – preoccupano: nelle istituzioni e nella società si fa strada l’idea che inquietudini e precarietà li possano rendere particolarmente recettivi al discorso islamista se non addirittura jihadista9.

Parallelamente, proprio negli anni Novanta inizia ad accentuarsi quel ‘dividendo demografico’ in cui la popolazione attiva supera quella inattiva: questo processo è maggiore in Tunisia che negli altri Paesi maghrebini, ed è previsto che debba mantenersi almeno fino al 2050 (UN- DESA, 2013). Questo dato rientra nel più generale youth bulge con cui ci si riferisce all’aumento esponenziale di popolazione giovanile nella struttura socio-demografica dei Paesi arabi: secondo alcune stime, i giovani tra i 15 e i 29 anni rappresentano il 30% della popolazione complessiva, raggiungendo così la soglia dei 100 milioni (Dhillon, Tarik,

9 Tra i sostenitori di questa posizione, ritroviamo anche il precedente Mufti della repubblica tunisina, Othman Battikh: http://www.mag14.com/actuel/35-societe/1840-othman-battikh-ljihad-legitime-en-palestine-pas-en-syrier.html (consultato il 6-4-2019).

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2007). In Tunisia, i dati dell’istituto nazionale di statistica del 2012 rilevano che la stessa fascia di età costituisce quasi il 43 per cento della popolazione in età attiva.

Variabili che hanno portato alcuni autori (Beehner, 2007) e policy makers a intravedere nei giovani una categoria problematica, un fattore destabilizzante potenzialmente capace di scatenare conflitti civili all’interno dei precari tessuti sociali e politici dei Paesi in via di sviluppo. L’incremento di popolazione in età da lavoro, l’inadeguatezza del sistema educativo e la prolungata dipendenza dalla famiglia genererebbero così frustrazione e malcontento giovanili.

Consideriamo, rivolgendoci ancora una volta alla Tunisia, il tasso dei giovani NEET (acronimo con cui si denominano gli individui Neither in

Employment nor in Education or Training – ovvero coloro che non sono

impiegati né in mansioni lavorative né in attività educative o di apprendistato). Esso corrisponde al 18% cento, cui va aggiunto il 31,8 di disoccupati (BIT-ONEQ, 2014)10. Cifre in sé allarmanti, sebbene in riduzione rispetto agli anni precedenti, che tra l’altro testimoniano come la percentuale dei NEET aumenti in rapporto all’età: in poche parole, più si cresce, e più prende corpo la rinuncia alla ricerca del lavoro e la sfiducia nelle possibilità offerte dal sistema educativo.

L’esclusione sociale ed economica e il prolungamento indiscriminato di un’età di transizione che non si risolve più automaticamente nel matrimonio e nell’autonomia economica, i cui tempi anzi tendono a dilatarsi irrimediabilmente, si accompagnano alla proliferazione di identificazioni alternative e sistemi di riferimento. In altri termini, il ‘divenire’ dei giovani in ‘qualcos’altro’ non si poggia più sulle modalità consuetudinarie con cui questa transizione era risolta, divenendo assai più problematico (Simone, 2010).

È come se, dopo il fallimento del nazionalismo pan-arabista, lo Stato – in questo caso, quello tunisino – non possa far altro che articolare blande politiche giovanili, incentrate sulla tenue cooptazione in strutture pubbliche specificatamente dedicate (le Maisons des Jeunes), attraverso

10 Va introdotta una specifica di genere, in quanto le donne sono straordinariamente più toccate degli uomini da questo fenomeno: secondo il citato studio, esse costituiscono l’82,8 % dei NEET.

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le quali lo Stato tenta di circoscrivere, captare e mobilitare – senza riuscirci, peraltro – la gioventù (Boutaleb, 2007).

L’educazione, infatti, pare aver perduto l’efficacia di dispositivo sociale e politico assegnatale dall’immaginario post-indipendentista. Nei decenni successivi all’indipendenza la scolarizzazione di massa è stata perseguita scientemente dalle classi dirigenti intente a ‘modernizzare’ e sviluppare il Paese – generando quel sistema di aspettative e opportunità denominato ‘scuola provvidenza’ (Ayach, 1995).

Secondo Suad Joseph (2013), poche ricerche etnografiche hanno tematizzato in modo specifico i giovani nel contesto nordafricano e mediorientale. Ciò sarebbe dovuto alla pregnanza che la famiglia assume in tali società, inglobando – se non addirittura fagocitando – ruoli, funzioni, attività. Joseph arriva a concludere che una delle ragioni per cui gli antropologi non hanno dedicato a gioventù e infanzia ricerche mirate è che «le società arabe tendono a non distinguere socialmente tra ‘bambini’ e ‘giovani’. Le società arabe non sono stratificate su base anagrafica (Ivi: 117)». È senz’altro vero che la famiglia costituisce una dimensione centrale nella vita sociale, al punto che la stessa autrice – fondatrice del network internazionale di ricerca Arab Families Working

Group – la ritiene l’istituzione più cruciale e problematica delle società

arabe, in bilico tra ‘fissità’ e ‘flessibilità’, e in cui nuovi modelli di relazioni culturali e affettive emergono di pari passo con mutamenti politici e sociali profondi (AFWG, 2008)11. Lo stesso prolungamento dell’incapsulamento dei giovani nell’unità familiare richiede che questo istituto sociale riceva adeguata attenzione da osservatori e studiosi. Tuttavia, si peccherebbe nel sovrastimarne la pregnanza. La Joseph (2013) sostiene che nei Paesi arabi i giovani quasi non vengano distinti in quanto tali, e che quest’assenza di riconoscimento si rifletta nella vita associata. L’esperienza di ricerca in Tunisia mi porta a non concordare con questa tesi. Gruppi di coetanei tendono a frequentarsi assiduamente nella vita quotidiana, soprattutto a livello di quartiere, e sebbene il rapporto

11 Sui mutamenti della famiglia araba, si consulti il materiale della conferenza internazionale “The Arab Family in an Age of Transition”, tenutasi a Doha nel 2015 e organizzata dal Doha International Family Institute, disponibile al seguente sito: https://www.difi.org.qa/events/the-arab-family-in-an-age-of-transition/ (consultato il 3/1/2020).

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intergenerazionale non assuma necessariamente una configurazione psico-culturale di conflittualità – mantenendosi comunque lontano dal modello samoano di Margaret Mead (1980) – non si può dire che i giovani siano continuamente e obbligatoriamente alle prese con parenti (più grandi), inseriti in formazioni sociali costitutivamente intergenerazionali. Le difficoltà del perseguimento di autonomia e indipendenza economica non bastano a certificare l’onnipresenza della famiglia.

Il nodo critico del rapporto tra giovani e famiglia sussume tutta una serie di opposizioni su cui viene imbastito generalmente il discorso politico e anche scientifico sul Maghreb: agentività e struttura, habitus e trasformazione, legami primari e individuazione, tradizione e modernità. Ricerche recenti condotte da studiose e studiosi di nazionalità tunisina assegnano al Paese maghrebino lo statuto di un contesto sociale sospeso tra due mondi, in cui la modernità, perlopiù di matrice esogena, avanza travolgendo sempre più norme e prescrizioni comunque radicate nell’humus culturale tradizionale (Ferjani, 2017). La modernizzazione delle strutture sociali e in particolar modo familiari favorirebbe, secondo questa lettura, processi di emergenza e di autonomizzazione dell’individuo, nonché una nuova ‘semiologia sociale’ imperniata sui valori della realizzazione del sé e di distanziamento da ruoli normativi prescritti. L’essenza stessa delle Rivoluzioni della dignità poggerebbe sull’emergenza di processi di ‘individuazione’, che in Tunisia corrisponderebbe all’aspirazione a un’emancipazione sociale tutta secolare, come sottolinea Farhad Khosrokhavar (2016):

il caso Bouazizi che si è dato fuoco per protestare contro l’ingiustizia sociale è paradigmatico. Non cerca il martirio nel senso islamico del termine battendosi contro il potere con la violenza, si mette a morte mettendo al contempo a disagio gli ulamâ che difficilmente possono trovare una giustificazione al suo “suicidio”, ma mostra così la natura puramente immanente della sua volontà di affermazione di sé. La ricerca di una vita decente in cui il cittadino sarà riconosciuto nella sua propria dignità dal potere primeggia su ogni altra considerazione, religiosa o nazionalista che sia. È l’individuo quasi nudo che si presenta, in cerca di

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riconoscimento come essere sociale che mira a vivere la sua vita, in altro modo che nell’indigenza che è sinonimo di indegnità (pp. 200-201).

Inedite percezioni culturali e pratiche sociali emergenti relative al celibato e al matrimonio sarebbero pertanto esemplificative di società “post- tradizionali” come quella tunisina, sospesa tra avvento della modernità e conservazione della tradizione (Elguedri, 2017).

La ‘reinvenzione’ della donna (Abu-Lughod, 1998) operata dalle illuminate élite post-coloniali tunisine partecipa della costruzione di una nuova comunità di cittadini – e cittadine – in cui gli antichi legami di solidarietà del raggruppamento familiare esteso (el-‘âyla) dovevano essere rimpiazzati dagli ideali borghesi della famiglia nucleare (al‘usra) leale al progetto politico e culturale dello Stato nazionale indipendente (Hasso, 2011; Fortier, Kreil, Maffi, 2018). I processi di costruzione nazionale (nationhood) dei nuovi Stati indipedenti, in Nord Africa e Medio Oriente, hanno riflettuto (e riflettono tutt’oggi) la tensione immanente al bilanciamento tra aspirazioni nazionaliste e difesa di ‘autentiche’ identità culturali. Ciò appare ancor più evidente nell’emergenza della donna nello spazio pubblico nazionale e nella rivendicazione di diritti di cittadinanza politica (Kandiyoti, 1991). L’ipostatizzazione della dicotomia tradizione-modernità non appare, dunque, la chiave interpretativa più adatta a far luce su dinamiche di cambiamento sociale, e la stessa delineazione di una traiettoria unilineare del passaggio dalla famiglia ‘allargata’ alla famiglia ‘ristretta’ o ‘nucleare’ risente di un’interpretazione della famiglia rappresentata come istituto sociale resistente al progresso o, al contrario, inflebito dai contraccolpi della modernizzazione. Come afferma la sociologa Lilia Ben Salem (2009), la famiglia non dovrebbe essere inquadrata come variabile dipendente del cambiamento sociale: il suo valore euristico risiede semmai nell’essere ambito e concrezione di significati a partire dai quali descrivere e interpretare il cambiamento.

Allo stesso modo, è innegabile una certa tendenza alla ‘formattazione’ più o meno globale cui i processi culturali vanno incontro nell’età contemporanea (Roy, 2017). La stessa analisi di pratiche vestamentarie

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come i ‘nuovi veli’, su cui si è brillantemente interrogato Mohamed Kerrou (2010)12, non può esimersi dal rilevare cambiamenti identitari che

tuttavia non tradiscono l’avvicendamento teleologico e unilineare di tradizione e modernità, rivelando piuttosto le contraddizioni e la compresenza di plurimi registri di significato.

Nel presente lavoro, la ‘modernità’ non viene intesa né come un tempo né come un luogo ben definiti. Essa è la cornice – analitica ed empirica – in cui si situano le pratiche di soggetti agenti che ridefiniscono continuamente il loro rapporto col mondo sociale che li circonda. Nessuna pratica e nessun sito culturale di produzione delle pratiche è avulso dalla modernità, nemmeno laddove si assista a un ripiego anacronistico su tempi mitici fondativi, come nel caso delle poetiche islamiste.

Ogni assunto riferibile all’apodittico avvento della modernità così come alla strenue resistenza della tradizione va allora problematizzato.

Ma cosa dire di concetti altrettanto porosi come quello di ‘giovane’ e ‘adulto’, di cui nelle pagine precedenti abbiamo iniziato a intravedere l’artificiosità?

Nel momento in cui la fragilità di tali soglie emerge in tutto il suo potenziale perturbante, siamo chiamati ancora di più a titubare delle categorizzazioni selettive che naturalizzano l’esistenza di un ‘gruppo’ sociale, attribuendo ad esso un’identità, quasi sempre patologizzata sotto la consueta formula di ‘problemi’ identitari (Bennani-Chraïbi, Farag, 2007).

Se la gioventù non corrisponde a un’età anagrafica, tanto più in un’epoca in cui il matrimonio e il distacco dal nucleo familiare d’origine tendono a essere procrastinati indefinitamente (Salehi-Isfahani, Dhillon, 2008)13, a cosa essa rinvia esattamente, tenendo bene a mente che «ciò che viene denominato “giovinezza” si configura in realtà a partire da tipi ideali, in

12 Per Kerrou, l’elemento di novità di forme ed espressioni del ri-velamento perseguite negli ultimi decenni da ampi segmenti di donne risiede nel differenziarsi tanto dai veli ‘tradizionali’ quanto dai veli ‘islamisti’ dell’ultimo quarto del Novecento. In questo senso, i ‘nuovi’ veli esprimono elaborazioni identitarie assai originali, in cui religione e politica si combinano per ridisegnare i confini tra preminenza del sé e matrici discorsive collettive.

13 Secondo “Statistiques Tunisie”, tra i giovani uomini di età compresa tra i 25 e i 29 anni vi sono l’82,8% di celibi (mentre a pari età le donne nubili sono il 50%), percentuale che decresce sensibilmente con l’avanzamento di età (la proporzione di uomini sposati tra i 55 e i 59 anni arriva al 94%).

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stretto rapporto con la “definizione dei valori centrali” di una società in un momento della sua storia (Bennani-Chraïbi, Farag, 2007: 29)»? Della flessibilità della categoria di ‘giovane’ me ne sarei reso conto con estrema nettezza durante un focus group in un caffè di Mohamedia, municipalità a pochi chilometri a sud di Tunisi, i cui abitanti sono soliti attribuirvi il mito di fondazione dell’harqa, la migrazione clandestina verso l’Italia, negli anni Novanta14.

Al focus group, rivolto specificatamente alla popolazione giovanile della zona, partecipava Bechir, migrante di ritorno, emigrato illegalmente in Italia negli anni Novanta e poi, dopo essere stato espulso una prima volta, nel 2001. Bechir è stato nel nord Italia, a Modena, dove ha imparato benissimo la lingua, ma ha fatto anche transito in altre città, in Sicilia in particolare, dove ha lavorato nei circuiti del commercio della droga, secondo lui l’unica possibilità concreta di arricchimento immediato per chi non dispone né di soldi né di documenti. Ha due figli piccoli, e raccontava di vivere in una condizione di estrema povertà. Riporto dal mio diario di campo:

Il caso di Bechir, oggi cinquantenne, è emblematico della flessibilità della categoria di ‘giovane’. Non è l’età, ma la condivisione di una transizione che non passa mai a ‘fare’ la gioventù: anche se Bechir è sposato e ha figli, non termina mai la sua condizione di precarietà. L’asticella per definire e inquadrare i giovani si alza, è relativa, lui stesso partecipa a tutti i dibattiti coi giovani, li capisce, si fa da interprete dei loro sentimenti, non si sente minimamente estraneo. Gioca ed è protagonista di momenti di apparente intimità con loro. Anche un altro suo coetaneo interviene e partecipa, benché marginalmente: anche lui ha fatto l’harqa e dice che la rifarebbe perché altre prospettive – di vita, di realizzazione personale – non ce ne sono (Mohammedia, 29-6-2018).

14 Il focus group è stato organizzato nell’ambito della campagna di sensibilizzazione del progetto PINSEC (Percorsi di Inclusione Sociale ed Economica in Tunisia), cofinanziato dalla Cooperazione italiana allo sviluppo, sul tema della migrazione irregolare dalla Tunisia all’Italia. L’organizzazione di questo momento è stata affidata a giovani del luogo già coinvolti nelle attività del suddetto progetto. La partecipazione al focus group mi è servita per stabilire nuovi contatti e orientarmi in un contesto territoriale che avrei frequentato nei mesi successivi.

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Ovviamente la gioventù è al centro di una costruzione sociale differenziale secondo il genere: i giovani su cui si scrive in questa tesi sono maggioritariamente uomini, benché non sia stato trascurato l’incontro etnografico con giovani donne, perlopiù studentesse. È anche vero però che le pressioni sociali di fronte ai supposti imperativi del matrimonio e della maternità/paternità sono condivise tanto dagli uomini che dalle donne, come convengono Nedra, ventisettenne originaria di Mahdia, ridente città costiera del Sahel tunisino, e Chaima, ventottenne di Ben Arous, entrambe studentesse universitarie presso il dipartimento di Italianistica dell’Università ‘Manouba’.

Nedra: Le madri qui vedono che una ragazza di 24 anni è molto giovane, una fanciulla. Per le donne che hanno 30 anni e non si sposano è una cosa strana... […] Ti dicono che hai 24 anni e non ti sposi, è strano! Da noi anche ci sono trentenni che lavorano, studiano... I ragazzi di quella età non hanno i soldi per sposarsi... Gli uomini si sposano in ritardo rispetto alle ragazze... 34, 40 anni... Un problema di quelle cose tradizionali, perché il