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L’antropologia economica bourdieusiana tra capitale umano e Théorie de la régulation

2. Il capitale e l’antropologia economica bourdieusiani alla prova della critica

2.3 L’antropologia economica bourdieusiana tra capitale umano e Théorie de la régulation

Si è già accennato più volte quanto la teorizzazione del concetto di capitale operata da Bourdieu si è misurata esplicitamente e polemicamente con i teorici (quasi coevi) del capitale umano, la cui concettualizzazione, peraltro, è alla base della pur controversa rivoluzione neoliberista56 che si è

55 In questo lavoro non abbiamo modo di soffermarci sul controverso rapporto tra Bourdieu e Boltanski. Esso, d’altronde,

meriterebbe un ampio spazio autonomo di riflessione. Ad ogni modo, ci pare doveroso segnalare un (raro) approfondi- mento che pone l’attenzione sul carattere non così originale sia della critica boltanskiana alla sociologia bourdieusiana sia della sua stessa proposta teorica (effettivamente meno lontana da Bourdieu di quanto si pensi), espresso recentemente in un saggio di Will Atkinson (2019).

56 Nella definizione di neoliberismo, che in letteratura si tende a classificare con qualche forzatura tout court come neo-

liberalismo, tuttavia, a dispetto anche di un diffuso mainstream eterodosso, forse sarebbe più corretto, guardando a ciò che si è effettivamente concretizzato, parlare di «una sorta di paradossale keynesismo “privatizzato”» che ha ben poco di classicamente liberista (Bellofiore, Halevi 2013; Bellofiore, Garibaldo, Mortágua 2019: 15-21). In tal senso, seguendo le convincenti argomentazioni di Riccardo Bellofiore (2012: 24-27), il neoliberismo si distingue per la presenza di una politica economica molto attiva (ad esempio sul lato della re-definizione dei diritti di proprietà e la privatizzazione dei beni comuni), in cui dirigismo e mercato convivono, e si presenta come autenticamente liberista solo sul lato del mercato

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progressivamente affermata a partire degli anni Ottanta in Occidente in seguito alla crisi delle politi- che economiche di matrice keynesiana e all’inesorabile declino dei sistemi del “socialismo reale”. Diversamente, non ci risulta alcuna discussione degli esponenti neoclassici della scuola di Chicago rispetto all’approccio bourdieusiano, sebbene insistendo sul medesimo campo vi sia più di una simi- litudine, seppure con esiti divergenti, tra i concetti di capitale umano e capitale culturale (aspetto attestato anche da una trasmissione televisiva francese che nel 1977 li poneva esplicitamente a raf- fronto tramite le interviste a Bourdieu e a Jean-Claude Eicher57).

Ad ogni modo, se gli esponenti neoclassici sono stati i primi che hanno tentato d’individuare forme di capitale e di valorizzazione in ambiti non economici come il campo culturale e formativo, il loro approccio non è andato oltre l’analisi delle ricadute strettamente economico-monetarie degli in- vestimenti in questi campi. Infatti, la problematica in cui s’inscrivono a partire dalla fine degli anni Cinquanta i lavori di Mincer (1958), Schultz (1961) e (più sistematicamente) Becker (2008) ha come punto di partenza il fatto che «la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi da lavoro e la ricchezza a vario titolo percepita è in genere positivamente correlata alla disuguaglianza nell’istruzione o in altri aspetti nella formazione personale», cioè che «le persone più istruite e qualificate tendono a guadagnare più degli altri» (Ivi: 13).

Non a caso, Bourdieu, in un corso tenuto al Collège de France negli anni Ottanta e recente- mente pubblicato (Bourdieu 2016), nel rendere conto della propria posizione e riconoscendo come elaborò il concetto di capitale culturale ignorando completamente i lavori dei suddetti economisti, precisa come i due concetti rispondano «a un problema differente e [abbiano], allo stesso tempo, proprietà differenti» (Ivi: 248). La domanda a cui tentano di rispondere i teorici del capitale umano rinvia, come accennato, a «come rendere conto delle ineguaglianze di reddito legate alle inegua- glianze scolastiche» (Ibidem), ponendosi, dunque, «il problema del tasso di profitto assicurato dall’in- vestimento economico sul terreno educativo». In tal modo, «essi hanno provato a misurare il più precisamente possibile l’investimento economico richiesto per acquisire un titolo scolastico, cercando un’equivalenza nel tempo di lavoro in termini di numero di anni di studi [e] valutando in termini monetari [corsivo mio], ad un tempo, l’investimento educativo corrispondente a questi anni di studi e i profitti degli investimenti educativi» (Ivi: 248-249). In altri termini, sintetizza Bourdieu, da tale

del lavoro (inducendone la precarizzazione) e del welfare (contrapponendosi alle ragioni del lavoro e ridimensionando il ruolo attivo delle donne). Invece, esso non è affatto contrario alla costituzione di monopoli, né ai disavanzi di bilancio (i governi Reagan, Bush e Berlusconi ne sono la migliore dimostrazione). Esiste, o meglio, è soprattutto esistita, inoltre, una forma di social-liberismo, incarnata con diverse intensità dalle sinistre socialdemocratiche fino all’esplosione della crisi del 2007/8. Essa era a favore delle liberalizzazioni sui mercati di beni e servizi (considerando su questo fronte la concorrenza una sana forma di regolazione) e dei vari patti di stabilità economico-finanziaria ma con un proposito redi- stributivo (per quanto difficilmente attuabile rispetto ai disavanzi in genere “cattivi” promossi da governi neoliberisti…) e l’intenzione di trasformare la precarietà in flessibilità in un’ottica, teoricamente, universalistica.

57 Il video, intitolato Capital human, capital culturel, è consultabile nella pagina web Pierre Bourdieu un homage al

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prospettiva, in base al numero di anni di studio si può stabilire il guadagno monetario.

La problematica da cui prendeva le mosse il sociologo francese era invece «assai differente». Partendo dalla constatazione che vi era una correlazione tra origine sociale dei bambini e riuscita scolastica e focalizzando l’attenzione su l’élimination scolaire, «i sociologi dell’educazione hanno osservato una correlazione stretta tra professione dei genitori e risultato scolastico» (Ivi: 249). Tale correlazione, ricorda Bourdieu, è stata sovente interpretata in termini strettamente economici. Ov- vero: «per proseguire gli studi oltre una certa soglia occorre avere del denaro» (Ibidem). Tuttavia, già prima dei lavori di Bourdieu (e Passeron) sul sistema educativo francese, era stato abbozzato quanto l’appartenenza ad un determinato ambiente familiare favorisse la trasmissione di cultura, ma non si era andati oltre il livello di ipotizzare politiche di sostegno economico per incentivare un potenzia- mento anche culturale. In tal senso, ricorda Bourdieu, «la nozione di capitale culturale è stata prodotta [proprio] per nominare [corsivo mio] […] la trasmissione oggettivamente (e non intenzionalmente) nascosta del capitale culturale che si opera inevitabilmente, e al di fuori di ogni intenzione pedagogica espressa, attraverso i rapporti sociali all’interno di una famiglia [come] la comunicazione linguistica, il train-train quotidiano» (Ibidem). In questi termini, la nozione di capitale culturale non si limita semplicemente «a rendere conto delle ineguaglianze di reddito monetario associate a un diploma», bensì si propone di «rendere conto delle diverse possibilità di riuscita su un mercato molto particolare, il mercato scolastico, che a sua volta assegna dei titoli che ricevono dei valori ineguali sul mercato economico» (Ivi: 250).

Ragionare in questi termini significa, pertanto, considerare che «l’investimento educativo non si riduce ad un investimento monetario» così come «il profitto dell’investimento culturale iniziale» non si riduce ad un profitto meramente monetario, come il sociologo francese aveva già osservato negli anni Settanta discutendo criticamente le posizioni dei teorici del capitale umano (Bourdieu 1974a: 36-37). In effetti, appoggiandosi a ricerche empiriche di ampio respiro come Homo academi- cus e La Distinction, Bourdieu mostra come emergano risultati bizzarri, se si ragionasse in termini meramente economicisti, dato che, ad esempio, se si considerano le facoltà di scienze e di medicina si può notare come l’indice del capitale economico tende a crescere quando gli indici del capitale scolastico acquisito prima di entrare nelle facoltà tendono a decrescere, oppure, a livello di classe dirigente, si osserva come «i più ricchi in capitale culturale tendono ad essere i meno ricchi in capitale economico, e viceversa» (Bourdieu 2016: 250). Bourdieu ha inoltre la possibilità di evidenziare quanto il termine profitto, nel suo approccio, vada inteso in senso largo e pensato come qualcosa che «può essere ottenuto senza essere ricercato come tale» e, al di là di ogni riduzionismo cinico proprio di una razionalità strumentale, può mostrare come esistano «mercati nei quali il disinteresse è la con- dizione [oggettiva] per ottenere un profitto» (Ivi: 250-251).

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In definitiva, diversamente da economisti come Becker, per valutare effettivamente il rendi- mento di un investimento educativo diventa essenziale, da un lato, considerare i profitti irriducibili alla forma monetaria, dall’altro «esplicitare la trasmissione nascosta di capitale culturale che avviene in ambito familiare e quanto ciò pesi nella riuscita differenziale dell’investimento educativo di tipo scolastico» Nondimeno, «la naïvete dei teorici del capitale umano», secondo Bourdieu, porta a for- mulare «la questione del rapporto tra attitudine agli studi e investimento negli studi», cioè, se tali teorici considerassero che il capitale culturale è trasmesso tanto dalla famiglia quanto dalla scuola, e che la trasmissione in famiglia è la condizione della riuscita a scuola, essi non potrebbero non porre la questione di questa capacità che, evidentemente, nel loro approccio è considerata naturale – corri- spondente all’idea di dono, precisa Bourdieu. In altri termini, essi vedrebbero che «questo dono che il sistema scolastico consacra come dono è il prodotto stesso dell’investimento di capitale» ed «un’equazione più rigorosa» li costringerebbe a dover tenere conto, ad esempio, del tempo libero della madre di un bambino e del suo capitale culturale, che a sua volta è il prodotto di un’eredità e di un’acquisizione tramite il sistema scolastico.

Un altro aspetto critico, prodotto della «naïvete» dei teorici neoclassici, riguarda la questione, che Bourdieu identifica come «funzionalista», del contributo del capitale umano, in particolare pre- sente nella teoria della crescita di Schultz (1961), alla produttività nazionale. Considerando, dunque, il rendimento degli investimenti in capitale culturale in funzione «di un Tutto» (Bourdieu 2016: (Ivi: 253). Ciò permetterebbe di comparare diversi paesi per stabilire se vi è una correlazione tra «capitale culturale nazionale» e, ad esempio, dice Bourdieu, «sviluppo tecnologico», omettendo, tuttavia, di tematizzare «la questione fondamentale della distribuzione differenziale del capitale culturale in una determinata società e, con essa, la questione del [suo] rendimento differenziale», nascondendo, in tal modo, che il profitto del capitale culturale che si pretende misurare […] «potrebbe attenere per una parte molto importante alla distribuzione ineguale del capitale culturale» (Ivi: 253). Sotto questo pro- filo, inoltre, Bourdieu sottolinea quanto sia bizzarro che dei marginalisti come i teorici del capitale umano non vedano, ad esempio, quanto un tendenziale livellamento dei titoli di studio ne promuova una svalutazione e, pertanto, quanto non siano in grado di «pensare il capitale culturale all’interno delle strutture di relazione in cui funziona», dello specifico campo articolato in base a un rendimento differenziale dei capitali/titoli (dove è premiata la rarità) posseduti dai diversi agenti. Infine, vi è un’ultima forma di «naïvete», che come le altre rinvia ad «un’ignoranza della dimensione sociale dei rapporti economici». Essa consiste nel fatto che i teorici del capitale umano pensano che «la compe- tenza socialmente garantita da un titolo scolastico sia automaticamente una competenza tecnica […] ignorando, così, completamente la differenza tra una capacità socialmente garantita e una capacità reale…» (Ibidem). Evidentemente, questo tipo di capitale considerato dagli economisti neoclassici è

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quello che Bourdieu chiama capitale culturale sotto la forma istituzionalizzata, garantito e consacrato dallo Stato, cioè tramite un’operazione di magia sociale58 che, da un lato, occulta lo stato incorporato

del capitale e, dall’altro, dice Bourdieu, consente ai teorici del capitale umano di «prendere le com- petenze sociali al loro valore nominale e passare dal nominale al reale senza problemi» (Ivi: 254).

A questo punto diventa chiaro che il sintagma capitale umano risulti per il sociologo francese alquanto vago, designando dei saperi, dei saper-fare e delle tecniche che la scuola trasmetterebbe partendo da un approccio «assai ottimistico del sistema scolastico» (Ivi: 345), diversamente dal so- ciologo francese. Allo stesso tempo, Bourdieu, sottoponendo a critica la teoria dell’azione in termini di rational choice – quanto di più idealistico vi sia (Grenfell 2014: 148) – vede una convergenza tra «i razionalisti della Scuola di Chicago» (che ne sono propugnatori secondo un approccio ristretto del razionalismo), e gli irrazionalisti (tra cui il sociologo francese cita Heidegger). Entrambi, paradossal- mente, hanno una concezione non ragionevole della razionalità. L’antidoto a tale concezione, af- ferma Bourdieu, è la nozione di habitus quale «fondamento di un razionalismo allargato nel quale un’eruzione di collera, un’azione impulsiva, un’esplosione spontanea, un’attività compiuta confor- memente a una regola, un’attività “istintiva” come l’azione di un giocatore in una pratica sportiva possono essere considerati come ragionevoli [corsivo mio], come aventi – dunque – una ragione im- manente, senza avere per principio la Ragione, questa sorta di facoltà trascendente e universale che si situa all’inizio delle pratiche nella tradizione razionalista» (Bourdieu 2016: 992-993), In definitiva, contro razionalisti ristretti e irrazionalisti

si possono dire “ragionevoli” o anche “razionali” tutte le condotte che sono conformi alle leggi immanenti di un campo senza essere pertanto prodotte da un’intenzione razionale nel senso della tradizione razionalista. [Infatti], fare della deliberazione e del calcolo esplicito la condizione della razionalità, significa dare una definizione talmente impossibile della razionalità che è necessario concludere, come Kant a proposto dell’azione morale, che mai è stata compiuta un’azione razionale (Ibidem).

La teoria dell’azione razionale ha trovato una sua declinazione anche in autori di ascendenza marxista come Jon Elster (1979) – a sua volta critico della sociologia e della teoria dell’azione bour- dieusiana (Elster 1982) – come Bourdieu ha sottolineato nei suoi corsi di antropologia economica recentemente pubblicati (Bourdieu 2017a). Ciò ha sicuramente inciso nella posizione bourdieusiana intenta ad interpretare il marxismo in termini economicistico-riduzionisti. L’approccio di Elster, co- mune, sotto questo profilo, ai teorici del capitale umano, pone «la questione dei fondamenti antropo- logici dell’azione azione umana» in termini che Bourdieu chiama intellettualistici, cioè animati dalla

58 Si tratta di una terminologia (a cui si può aggiungere l’affine mistero del ministero) che ricorre spesso nell’opera bour-

dieusiana indice, si è detto polemicamente ma senza opporvi alcuna costruzione teorica alternativa, del limite di una sociologia che scivola verso la metafisica (Cot, Lautier 1983: 71-85).

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volontà di porre al principio dell’azione degli agenti sociali delle intenzioni coscienti. Questi ap- procci, particolarmente evidenti in autori come Becker, richiamato paradigmaticamente più volte an- che in questo corso (Ivi: 14, 134, 150, 232), tendono ad estendere all’universo sociale un modello euristico economicistico e, nondimeno, sono utili a Bourdieu per evidenziare la sua antropologia

economica in cui, come più volte detto, non è necessario ontologizzare un’intenzione cosciente ra-

zionale per «rendere conto di condotte percepite come razionali» (Ivi: 15).

Per dare maggiore forza alle sue argomentazioni, Bourdieu si concentra sulla concezione del dono nelle società precapitalistiche, facendo leva, criticamente, sulle letture che ne hanno dato Jac- ques Derrida (1991), Marcel Mauss ([1923-1924] 2002) e Claude Lévi-Strauss (1997). L’intento è di mostrare come queste ultime – polarizzate tra l’impossibilità del dono puro e l’ipocrisia che di fatto prenderebbe il sopravvento (Derrida), la necessità di porlo in relazione con un contro-dono (Mauss) e la concentrazione sulla struttura a-temporale che ne regolerebbe lo scambio (Lévi-Strauss) – pro- muovano, secondo Bourdieu, la de-storicizzazione delle condotte umane e degli universi economici, la svalorizzazione dell’esperienza vissuta dagli agenti sociali, la distruzione del tempo ad opera del ragionamento scientifico e l’affermazione del punto di vista (e dell’errore) scolastico del ricercatore59

senza comprendere davvero la pratica del dono. Di quest’ultimo, diversamente da concezioni incen- trate sull’intenzionalità della coscienza o sulla sua mera negazione, occorre cogliere le «condizioni sociali» che sorreggono la «malafede» in quanto fondamento, oggettivamente e socialmente rimosso, della pratica del dono (Bourdieu 2017a: 20-36) così come, nondimeno, «il misconoscimento collet- tivo [quale] fondamento reale [corsivo mio] delle società» (Ivi: 64). Bourdieu argomenta che la dif-

ferenza di tempo tra dono e contro-dono è un aspetto essenziale per comprenderne sia le dinamiche

economiche profonde trasfigurate in pratiche simboliche, sia le sottili forme di potere che s’instaurano

al di là di un rapporto consapevolmente trasparente tra gli agenti sociali. Allo stesso tempo, lo sco-

raggiamento dello spirito calcolatore proprio delle società precapitalistiche – la sua denegazione – a cui corrispondono pratiche incentrate sulla philia, elemento che persiste tutt’ora, ad esempio, nell’am- bito familiare contemporaneo, come un’isola nell’oceano, è incomprensibile al di fuori della produ- zione di disposizioni economiche, di «habitus simbolici» specifici capaci di promuovere, richiamando uno studio di Weber sugli operai agricoli tedeschi (1986), «atti incantati e strutture mentali» capaci di recepirli.

Risulta dunque centrale la condensazione di una credenza collettiva che prende forma nella

storia, aspetto che per Bourdieu sorregge la stessa egemonia moderna dell’homo oeconomicus (Bour-

dieu 2017a: 61) e che lo porta ad affermare che non esiste un’economia bensì delle economie e che

59 Bourdieu fa riferimento allo scholastic bias di Austin (1962) così come alla tendenza, descritta da Marx, a confondere

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le economie strutturate sullo scambio dei beni simbolici possono ben essere descritte con un lessico preso in prestito dalla scienza economica moderna con l’avvertenza che esso assume «un senso total- mente differente nella logica di queste economie» (Ivi: 75). Diventa dirimente, dunque, pensare le condizioni storiche e le disposizioni sociali che hanno permesso l’affermazione del campo economico come ambito in cui il calcolo diventa esplicito e non più denegato e trasfigurato simbolicamente. Nel quale ciò che era impensabile in un’economia dominata dallo scambio simbolico, in cui la domina- zione si esercitava sotto forma di dipendenza personale60, è diventato lecito pensare dato che il dono – che per Bourdieu non rappresenta una condizione originariamente universale almeno quanto non lo rappresenta l’odierna ragione calcolatrice che i teorici del capitale umano, in particolare, vorrebbero estendere ad ogni aspetto vitale – era già «una base di potere» (Ivi: 85), seppure sorretto da una logica distinta e allo stesso tempo partecipe della logica dello scambio e del potere, tramite la riconversione del capitale simbolico in capitale economico.

In effetti, chi donava nelle società precapitalistiche poteva farlo perché si trovava nella posi- zione (dominante) di poterlo fare, configurando, così, il dono come un atto di redistribuzione in cui si riconosce la distribuzione ineguale e la si legittima trasfigurando l’atto e il soggetto della domina- zione stessa. In altri termini, afferma Bourdieu, «il ricco diventa un ricco legittimo» esplicitando, tra l’altro, la base in cui s’innesta «l’accumulazione originaria di capitale politico» e le sue, più che probabili, derive patrimonialiste (Ivi: 112-114). Sulla base della sua indagine inerente alla logica del dono, la sua pratica e il suo carattere storicamente determinato, ciò che interessa a Bourdieu è, per- tanto, mostrare quanto anche la moderna économie economique sia storicamente determinata, così come si dispieghi una resistenza alla sua pervasività condensata nel «mito dell’imperialismo del mer- cato» (Ivi: 124-128), nonché evidenziare come essa continui ad essere attraversata da un’insopprimi- bile dimensione simbolica. Quest’ultimo aspetto lo si può notare, afferma Bourdieu, negli stessi con- tratti di lavoro quando si propongono compensazioni salariali rispetto a condizioni lavorative parti- colarmente nocive, in cui, dunque, la negoziazione deve tenere conto della rappresentazione e della percezione sociale che distingue dominati e dominanti dando una particolare rilevanza agli scambi non economici (improntati sulla dimensione simbolico-valoriale) rispetto a quelli propriamente eco- nomici. Inoltre, la dimensione simbolica delle professioni – aspetto che non è considerato dai teorici neoclassici – gode di una rilevanza di cui l’ammontare della retribuzione «è una parte assai debole» ai fini della «definizione sociale reale» (Ivi: 130). Nondimeno, nel discorso economico neoclassico che postula l’esistenza di un sistema universale di preferenze esogene, tendenzialmente stabili e

60In questa parte dei Cours Bourdieu si appoggia su quanto già scritto precedentemente sui diversi modi di dominio

(Bourdieu 1976b, 1980, 2005a: 189-209) e riprende le stesse posizioni marxiane sulla forma di dominio che caratterizza le società precapitalistiche esercitato sotto forma di dipendenza personale.

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astoriche, oltre all’esistenza d’individui economici autonomi in cui «ogni comportamento è concepito come strumentale» (Ivi: 238), afferma Bourdieu discutendo ancora con Becker (Stiegler, Becker 1977), si assiste alla rimozione dei gusti come elemento centrale nella scelta dei consumi. Né tanto- meno ci si sofferma su quanto i gusti siano il prodotto di condizioni storiche e rapporti di classifica- zione che a loro volta delineano una differenziazione in base alla posizione che si occupa nello spazio sociale determinata non solo dal reddito, bensì anche dal capitale culturale acquisito (Bourdieu 2017a: 134).

In definitiva, per Bourdieu l’economia neoclassica si caratterizza per un deduttivismo carte- siano (esplicitato in una modellizzazione matematica sempre più astratta dalla pratica degli agenti sociali concreti), fondandosi su un approccio astorico, che tende dunque a non rendere conto delle condizioni sociali e storiche all’origine di «una condotta razionale», in cui si postula l’esistenza di soggetti indistinti tutti egualmente coscienti in termini di intenzioni e fini. Bourdieu argomenta, in- vece, quanto le nozioni proprie dell’economia moderna (bisogni, calcolo razionale, preferenze, ecc.) siano un prodotto storicamente determinato e non primordiale e quanto ciò che si chiama razionale

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