pitale politico
4. Critica dei doxosofi, democrazia del pubblico, odio per la democrazia Bourdieu tra cri tica della doxa democratica ed emancipazione
8.2.1 L’opinione pubblica non esiste: sulla critica di una scienza apparente
Bourdieu, coniando il termine «doxosofi» per indicare la rilevanza negativa assunta dai nuovi esperti della politica professionale in mutazione, intendeva, ad un tempo, difendere un approccio scientifico nell’analisi del campo politico e porre in risalto quanto il nuovo gioco politico (Champagne 20012) orientato dai sondaggi riproducesse, sottilmente, le forme di dominazione simbolica (e mate- riale) esercitate dalle classi dominanti. Partendo da una concezione platonica dell’opinare e da una citazione tratta dal Teeteto posta, non a caso, in esergo al suo articolo intitolato les doxosophes (Bour- dieu 1972: 26) – «io dico che opinare significa parlare e che l’opinione consiste in un discorso espli- citamente pronunciato» – il sociologo poneva in risalto quanto la competenza strettamente politica fosse disegualmente distribuita e allo stesso tempo ritagliata e misurata sull’opinione dei competenti e quanto ciò donasse loro «il potere di un’interrogazione così ben fatta per costringere coloro che essi interrogano a disconoscere una competenza che possiedono» (Ibidem) e a porla a beneficio di chi li interroga. Così, che si trattasse dei silenzi delle non risposte o di forme di «discorso estorto» (tramite risposte prefissate, ovvero chiedendo giudizi su opinioni già enunciate) in cui si confessa indiretta- mente un’incompetenza (ad esempio, come ricordava Bourdieu, l’elevato tasso di risposte di chi af- fermava che degli affari di Stato dovevano occuparsene gli specialisti), «la “scienza politica” [Bour- dieu qui utilizza sempre le virgolette] non è mai consistita che in una certa arte di rimandare alla classe dirigente e al suo personale politico», dunque alla sua scienza spontanea della politica rivestita esternamente dalla scienza (Ivi: 27-28). In essa giocano un ruolo essenziale una sorta di parata dell’oggettività, di «neutralità epistemologica» (Ivi: 30), costituita da un’intenzione e una postura che si vuole il più distaccata e oggettiva possibile (a partire dal tono della voce dell’intervistatore, dal vocabolario scelto, dalla distanza da ogni possibile inflessione estremista adottate durante
115
un’inchiesta tramite questionario) intenta a trattare i rispondenti formalmente nello stesso modo, pre- scindendo dalle loro differenze sostanziali. In questo tipo di inchieste, l’accrescersi delle non risposte è strettamente correlato con la posizione «nella gerarchia delle condizioni sociali e del livello scola- stico» (Ivi: 29) ponendo in risalto una prima grande distinzione tra le classi: la capacità di rispondere adottando un discorso semi-astratto – come si richiede in un’inchiesta d’opinione – e la tendenza, particolarmente marcata tra le classi popolari, a rispondere (o a non rispondere) in base alla connes- sione dei temi proposti con la propria vita quotidiana così che chi è interpellato e chi pone la domanda non necessariamente darà lo stesso significato alla domanda medesima. In tal senso, sottolinea Bour- dieu, «una domanda politologica esige implicitamente di essere trattata come un oggetto autonomo» ed implica che le prese di posizione specifiche «siano derivate a partire da un piccolo numero di principi “politici” esplicitamente formulati», i quali sono gli unici capaci di produrre «”opinioni” coerenti e ragionevoli» da parte di cittadini che dovrebbero, pertanto, ignorare «le passioni e le pul- sioni irragionevoli» (Ivi: 31-32).
Ne La Distinction, partendo dalla concezione, che provocherà non poche critiche più o meno circostanziate88, incentrata sulla tesi che tra l’ethos e il logos, cioè tra la padronanza pratica e quella
verbale, «c’è una soluzione di continuità radicale [per cui] non esiste alcun nesso necessario tra la padronanza pratica […] e la padronanza simbolica dell’esperienza» (Bourdieu 20012: 459), Bourdieu
affermerà in modo più articolato che vi sono tre principi di produzione di una risposta politica: l’ethos di classe come formula generatrice di risposte non costituita in quanto tale; «un “partito” politico sistematico, cioè un sistema di principi espliciti, e specificamente politici, che richiedono un controllo logico [corsivo mio] ed un apprendimento riflessivo, cioè una specie di assiomatica politica», l’equi- valente di un “programma”, che consente di produrre determinati giudizi e specifiche azioni politiche; una «scelta di secondo grado» consistente nella capacità di produrre risposte «conformi alla linea definita da un partito politico» (Ivi: 428) inteso come organizzazione. In questi termini, tuttavia, non si misura tanto l’opinione politica quanto «l’attitudine a produrre ciò che s’intende per opinione po- litica» (Bourdieu 1972: 32), e la probabilità stessa di avere un’opinione si trova ad essere tanto più sottostimata quanto si richiede agli intervistati di scegliere tra più risposte già definite, facendo così sparire tutto «il lavoro di enunciazione» e presupponendo, tacitamente, che il rispondente «sarà in grado di produrre (o riprodurre) la proposizione che costituisce l’enunciato della domanda», ma il
88 Sul senso pratico che guida l’azione sociale e, in particolare, sulla scelta del necessario che connoterebbe i dominati
nei termini di adattamento delle aspettative alle obbiettive condizioni sociali, da cui scaturirebbe una forma di meccanica riproduzione e rassegnazione sociale, vedremo in seguito la critica – in gran parte infondata – di Jacques Rancière. Sullo
scarto troppo radicale in Bourdieu tra riflessività e pratica ci sembrano invece utili le critiche di Bernard Lahire (2001,
2004) nei termini in cui sono in grado di rendere più sfumato e complesso l’approccio bourdiuesiano mostrando come la riflessività non sia assente nella logica della pratica né che i dominati siano assillati solo da esigenze dettate dall’imme- diato.
116
semplice “si” o “no” fornito come risposta ad una domanda – rammenta Bourdieu – non è un indice di tale attitudine se non in una frazione molto ridotta dei casi (Ivi: 34).
Ciò porta a non vedere, né tantomeno a prendere nella dovuta considerazione, quella sfasa- tura, se non contrapposizione, tra «la coerenza intenzionale delle pratiche e dei discorsi generati da un principio esplicito ed esplicitamente “politico”» e «la sistematicità oggettiva delle pratiche pro- dotte da un principio implicito» connotate da un carattere «preriflessivo» (Ivi: 36) che la stessa «in- clinazione populista», intenta a “prestare” alle classi popolari una propria politica spontanea e che più o meno tacitamente assume come operativa «una coscienza continuamente vigilante ed univer- salmente competente», tende a rimuovere. Le scelte di queste ultime, secondo Bourdieu, sarebbero guidate da un «habitus di classe», per cui, schematizzando, è «l’inconscio delle classi piuttosto che la coscienza di classe» la matrice delle scelte quotidiane e rimane aperta – e rimane aperta a maggior ragione oggi, ci pare, in tempi di cosiddetta disintermediazione politica dettata dall’affermazione delle nuove tecnologie dell’informazione – la questione dell’effettiva acquisizione dei mezzi di pro- duzione politici che non renda i dominati (in gran parte) subalterni ad un portaparola (Ivi: 36-37). Ciò ha ripercussioni anche nel processo di misconoscimento delle disuguaglianze strutturali, dato che la sola formale «logica democratica del voto e del sondaggio», in contrapposizione alla delega89, riduce l’individuo alle sue sole forze […], relegandolo nell’isolamento» (Bourdieu 20012: 434).
Una formulazione più dettagliata e accessibile delle tesi bourdieusiane sull’opinione pubblica è osservabile nella nota e già citata conferenza presso il centro Noirot di Arras (Bourdieu [1971/1973] in Boschetti 2003). Esse vertevano su tre postulati così formulati:
a) «ogni ricerca d’opinione presuppone che tutti possono avere un’opinione; oppure, in altre parole, che la produzione di un’opinione è alla portata di tutti» (Ivi: 155), secondo uno schema ingenuamente democratico, che non tiene conto dei “mezzi di produzione” e delle condizioni reali di chi si esprime “liberamente”. Con ciò non s’intendeva certo avvallare posizioni elitarie tipiche di un aristocraticismo savant, come pretendevano le accuse più fuori fuoco (Lancelot 1982) nei confronti del sociologo francese, rilanciate anche recentemente (Baoudouin 2012), e sovente interessate a mantenere lo status quo, ma evidenziare i limiti delle democrazie
89 Pur avendo sottolineato il carattere feticistico inscritto nella delega politica, Bourdieu ha acutamente osservato ne La
Distinction, rinviando ad un suo denso studio su Heidegger (Bourdieu 1989c), come «non è un caso che la procura (o
assistenza)» come modalità per accedere ad un’opinione politica «rappresenti uno dei bersagli più o meno intelligente- mente mascherati del pensiero conservatore o “rivoluzionario conservatore”» (Bourdieu 20012: 434). Quanto ciò sia an-
cora più vero oggi lo si può desumere dal costante appello diretto dei nuovi politici conservatori o rivoluzionario-conser-
vatori – che hanno adottato un travestimento neopopulista politicamente efficace – ad un presunto “popolo” privo di differenziazioni al suo interno in quanto sommatoria indifferenziata di singoli individui atomizzati ma appartenenti ad una determinata cultura e residenti in un determinato territorio da contrapporre alle minoranze eretiche che di volta in volta sfuggono all’impossibile uniformazione impressa dal “pensiero di Stato” (concetto bourdieusiano che svilupperà con particolare efficacia Abdelmalek Sayad). In tal senso, la figura del migrante è paradigmatica di quest’impossibile chiusura e della correlativa denegazione che l’accompagna.
117
formali, per superarli e non lasciare in balìa di una delega obbligata, dell’espropriazione o avvolti nella spirale del silenzio (Noelle-Neumann2002) i settori sociali più deboli, soprattutto in termini di carenza di capitale culturale, sociale ed economico. Compito principale, quest’ul- timo, di chi assume una posizione critica e al contempo progressista, in altri termini di chi intende universalizzare l’accesso all’universale come dirà, in più occasioni, Bourdieu; b) «tutte le opinioni si equivalgono» (Bourdieu [1971/1973] in Boschetti 2003: 155): ovvero
l’arbitraria accumulazione «delle opinioni che non hanno per nulla la medesima forza reale porta a una distorsione assai marcata», dato che, come osserverà un allievo di Bourdieu come Patrick Champagne, «tutto indica che la capacità d’imporre al campo politico la propria opi- nione è fortemente legata alla forza dei gruppi sociali in grado di mobilitarsi così come allo statuto sociale, al capitale relazionale e alla posizione occupata nella struttura sociale» (Cham- pagne 2005: 125-126);
c) nella scelta di «porre a tutti la stessa domanda è implicita l’ipotesi che esista un consenso sui problemi; in altre parole che esista un accordo sulle domande che meritano di essere poste» (Bourdieu [1971/1973] in Boschetti 2003: 155), nonché un tacito consenso sul significato delle parole e delle proposizioni utilizzate, dunque sulla loro formulazione.
Se, inoltre, non è affatto scontato che tutte le possibili risposte siano contemplate o che abbiano lo stesso trattamento nella somministrazione di un questionario, vi è anche un vincolo economico- politico nella produzione di una rilevazione sugli orientamenti della popolazione che voglia o pre- tenda di essere rappresentativa: l’identificazione, distintiva, di chi è in grado di pagarsi un sondag- gio90. Bourdieu, in tal senso, riprendeva nel suo articolo le analisi che aveva condotto su una vasta ricerca nazionale sull’insegnamento in base alle risposte di un campione spontaneo di cittadini, illu- strando come gli istituti specializzati in sondaggi (tra cui IFOP e SOFRES) che avevano promosso l’indagine nell’articolazione delle domande evidenziassero una forte correlazione con la congiuntura, dunque con certe istanze e richieste sociali. In altri termini, il sociologo francese metteva in luce come «i problemi che vengono posti sono problemi che s’impongono come problemi politici. La questione dell’insegnamento, per esempio, può essere posta da un istituto di opinione pubblica soltanto quando diventa un problema politico». Dunque, se si analizzano le funzioni dei sondaggi, occorre mettere in risalto, in prima istanza, quanto le problematiche siano interessate – come qualsiasi problematica – e, nello specifico, supportate da interessi politici. Bourdieu non poteva che concludere affermando che il sondaggio «è, allo stato attuale, uno strumento di azione politica», dove «la sua funzione più im- portante consiste forse nel creare l’illusione che esista un’opinione pubblica come pura addizione di
90 Oggi tale distinzione risulta tendenzialmente meno rilevante ma, allo stesso tempo, proprio perché fare sondaggi risulta
118
opinioni individuali» che rinviava alla pratica elettoralistica del voto, come vedremo in seguito. In questi termini l’opinione pubblica «è un artificio puro e semplice la cui funzione consiste nel dissi- mulare il fatto che lo stato dell’opinione, in un determinato momento, è un sistema di forze, di tensioni e non vi è nulla di più inadeguato di un calcolo percentuale per rappresentare lo stato dell’opinione» (Ivi: 157-158). In questo contesto il sociologo francese registrava un passaggio quasi epocale nella forma di legittimazione politica sopraggiunta:
per dirla in modo semplice l’uomo politico è colui che dice: “Dio è con noi”. L’equivalente di “Dio è con noi” oggi è la l’opinione pubblica è con noi (Ivi: 158).
Potremmo già chiederci se su questo fronte è cambiato qualcosa nell’arco di oltre qua- rant’anni, se una qualche consapevolezza è sorta tra gli agenti sociali che popolano il campo politico- mediatico, se, in tempi egemonizzati dalla cosiddetta democrazia del pubblico così com’è stata for- mulata da Bernard Manin (2010) (su cui torneremo nel prossimo paragrafo), la radicalizzazione della logica mediatica dell’audience, inscritta nella televisione e in gran parte importata nella Rete91, in
particolare nell’uso semplificato che si fa dei social-network, ha contribuito a veicolare la tecnologia sondaggio o a indebolirne la logica semplificante e tendenzialmente demagogica. La risposta è ov- viamente scontata e, curiosamente, l’onnipresenza del primato dell’audience, con il carico di bana- lizzazione che la connota, la disponibilità a lasciarsi attraversare dalla semplificazione dei sondaggi, riconoscendovi una fonte di legittimazione, unita alla mobilitazione indotta dal rito della (presunta) opinione personale in diretta – scambiata dai più ingenui (ma non solo) per una forma di democrazia diretta superiore alla democrazia rappresentativa – dimostrano come la logica del marketing politico, cioè la colonizzazione (non solo) semantica e simbolica della politica ad opera del campo economico (della sua declinazione dominante incentrata sul mito dell’atomizzato e universalmente razionale homo oeconomicus) sia stata assunta, più o meno esplicitamente, da tutti i principali attori politici e sociali individuando uno spazio liscio in cui misurare, tra l’altro, anche il gradimento di chi si fa portatore delle principali opinioni, incluse le più critiche.
In altri termini, come ha osservato Patrick Champagne ritornando sulle principali tesi bour- dieusiane inerenti alla produzione dell’”opinione pubblica”, e su quanto non esista «una definizione in sé»92 di tale concetto poiché si tratta di «una nozione proveniente dalla metafisica politica – non
91 Ambito in cui l’utopia della “libera partecipazione”, tutt’altro che universalizzata, ha lasciato progressivamente spazio
alla logica di mercato, senza considerare che il “libero” accesso, pur con le sue indiscutibili potenzialità, non cancella l’habitus che ognuno ha già incorporato, dunque i vincoli strutturali inscritti nell’ordine sociale e, al di là di studi sulla (debole) democrazia di monitoraggio impressa dalla cittadinanza online (Ceccarini 2015), sarebbe interessante approfon- dire quanto i distinti habitus vengano rimodellati piuttosto che messi in discussione.
92 Su questo aspetto, che non riguarda solo il concetto di opinione pubblica, Champagne richiama opportunamente l’in-
novazione bourdieusiana introdotta nelle scienze sociali. Infatti, Bourdieu, riferendosi a temi come l’esistenza delle “classi sociali” o la definizione d’”intellettuale” o di “cultura” pensava che la sociologia non dovesse imporre la propria
119
dalla scienza, ma solo da un gruppo di attori in lotta ciascuno dei quali cerca d’imporre, alla luce dei propri sistemi d’interesse, la propria definizione» (Champagne 2005: 130) –, il sondaggio politico consente di conoscere fin troppo bene ciò che bisogna dire agli elettori per ingannarli (almeno nel breve periodo). Soprattutto, esso permette di «dire loro ciò che vogliono sentire [corsivo mio]». In tal senso, «il sondaggio politico, avendo aperto la strada al marketing, tende ad allineare la logica del campo politico a quella del campo economico» (Ivi: 138) contribuendo, così, all’incremento della sfiducia nel gioco politico come si può constatare fin troppo bene nei sistemi democratici odierni. Ciò è testimoniato, tra gli altri indicatori, dall’incremento dei tassi di astensione elettorale (come mostre- remo concentrandoci sul caso italiano e sulla provincia pesarese nella terza sezione di questo lavoro). Ne deriva che i sondaggi politici, «nella misura in cui non servono per analizzare il funzionamento del campo politico come proponeva Pierre Bourdieu, ma si iscrivono nella sua stessa logica, tendono a non essere altro che un semplice strumento di manipolazione razionale delle campagne elettorali». Di più, essi diventano «lo strumento [corsivo mio] per eccellenza del cinismo politico» indebolendo la stessa logica della rappresentanza che caratterizzava la condizione del regime democratico fondato sulla priorità dei partiti come organizzazioni solide che, pur generando una frattura tra professionisti e profani della politica – ed abbiamo visto nel precedente capitolo quanto ciò fosse sottoposto ad una critica radicale da parte di Bourdieu –, costituiva, nondimeno, «un ostacolo alla demagogia» (Ibidem). Tutto ciò, ovviamente, assume valore se si considera, come afferma Champagne in conclu- sione del suo saggio, che la democrazia non si esaurisca «nella traduzione del senso comune politico, o se si preferisce della doxa democratica» (Ivi: 130) e, pertanto, che
la democrazia presuppone luoghi di dibattito, tempi di riflessione, diffusione di informazioni utili [affinché] i cittadini possano pronunciarsi con cognizione di causa: in breve, un insieme di condizioni che sono demolite dalla pratica del sondaggio in politica (Ivi: 138).
Non a caso, Bourdieu, ancora negli anni Novanta in un fortunato e criticatissimo pamphlet intento a mostrare il legame tra ingabbiamento cognitivo e monetizzazione del tempo nel medium televisivo (Piazzesi 2004), analizzando la mediatizzazione del campo giornalistico e il correlato
preliminari del tipo definisco “classe sociale” o “intellettuale” o “cultura”… che distinguono in anticipo [corsivo mio] l’oggetto scientifico»), bensì essa «deve avere come oggetto la lotta sociale [corsivo mio] in cui tali concetti e le funzioni sociali che essi svolgono sono in gioco». Essendo dunque preso in un conflitto sociale, «il contenuto concreto della nozione di opinione pubblica è necessariamente variabile [in quanto] si trova strettamente legato a una data condizione storica del campo politico, e dipende dal rapporto di forza tra gli attori del gioco politico. In altri termini, il sociologo non può fare altro che constatare una definizione sociale di questa nozione, e ha il compito di spiegarla». L’opposto di ciò che vorrebbe restituirci la pretesa scientificità del sondaggio politico che tende ad oscurare «il vero atto di forza simbolico operato dai politologi con il muto assenso di tutta la struttura politica [corsivo mio]: essi sono riusciti a farci credere che una definizione scientifica di questa nozione fosse possibile, o, ciò che alla fine è lo stesso, che il semplice fatto di espri- merla in percentuali permettesse di trasformare una nozione politica incerta [corsivo mio], e quindi contestabile, in un concetto scientifico ormai indiscutibile» (Champagne 2005: 130).
120
riduzionismo democratico in termini di spontaneismo demagogico, sottolineava le carenze dei pen- satori critici e delle organizzazioni che intendevano esprimere gli interessi dei dominati:
si può e si deve lottare contro l’auditel in nome della democrazia. La cosa può sembrare del tutto paradossale perché quanti difendono il regno dell’auditel pretendono che non vi sia nulla di più democratico (è l’argomento preferito dei presentatori e dei pubblicitari più cinici, seguiti da certi sociologi, senza parlare dei commentatori senza idee, che equi- parano la critica dei sondaggi – e dell’auditel – alla critica del suffragio universale), che occorra lasciare alla gente la libertà di giudicare, di scegliere (“sono i vostri pregiudizi di intellettuali elitisti che vi portano a considerare spregevole questo fenomeno”). L’auditel è la sanzione del mercato, dell’economia, cioè di una legalità esterna e puramente commer- ciale, la sottomissione alle esigenze di questo strumento di marketing è l’esatto equivalente, nella sfera culturale, della demagogia orientata dai sondaggi d’opinione, nella sfera politica. La televisione governata dall’auditel contribuisce a far pesare sul consumatore presunto libero e illuminato i vincoli del mercato, che non hanno nulla a che vedere con l’espres- sione democratica di un’opinione collettiva illuminata, razionale, di una ragione pubblica, come vorrebbero farci credere i demagoghi cinici. I pensatori critici e le organizzazioni che hanno il compito di esprimere gli interessi dei dominati sono ancora molto lontani dal pensare chiaramente questo problema. (Bourdieu 1997a: 82-83).
Nell’articolo L’opinione pubblica non esiste, soffermandosi sull’«effetto di consenso» pro- dotto nei sondaggi, il sociologo francese poneva in rilievo come l’impossibilità per tutti di avere opinioni su tutto – e per capire cosa intendere con opinione non a caso Bourdieu riportava, ancora una volta, in esergo all’articolo la citazione di Platone dal Teeteto a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza – implicasse di riservare un’attenzione specifica alle non-risposte. In particolare, alla ten- denza a occultarle dal calcolo dei risultati, compiendo «un’operazione teorica di straordinaria impor- tanza» (Bourdieu [1971/1973] in Boschetti 2003: 159) in termini distorsivi, proprio come avviene in una consultazione elettorale quando vi sono schede bianche o nulle, per tacere di chi non si reca alle