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Il neoliberismo tra ideologia del mercato e rivoluzione (neo)conservatrice

pitale politico

6. L’ultima fase dell’impegno sociologico e politico bourdieusiano: la lotta contro il neoli berismo e la costituzione di un movimento sociale europeo 124

6.3 Il neoliberismo tra ideologia del mercato e rivoluzione (neo)conservatrice

Se il passaggio fondamentale dell’impegno pubblico di Bourdieu nel campo politico è avvenuto con il suo attivo sostegno agli scioperi del 1995, ciò che lo ha spinto a rendere le sue posizioni sempre più visibili nasceva dalla necessità di mettere in evidenza quanto fosse imprescindibile resistere a quella che identificava come una falsa modernizzazione che metteva in discussione conquiste storiche – promosse in primis dalle lotte del movimento dei lavoratori – come il servizio pubblico e la sicu- rezza sociale, che oggi tornano ad essere reclamati sotto forma di economia fondamentale (Collettivo per l’economia fondamentale 2019), le cui lacune e contraddizioni non sarebbero state superate dall’importazione della logica economicistico-aziendalistica nel servizio pubblico o da un processo di vera e propria privatizzazione.

La critica di Bourdieu al pensiero neoliberale, alla «sociodicea» che vi presiedeva (e che a ben vedere continua a presiedervi in forma negativa anche oggi quando si valorizzano pratiche orgoglio- samente anti-intellettuali affianco ad approcci di fatto tecnocratici) in termini di esaltazione della competenza dei dominanti128 era in realtà già leggibile in nuce in un testo scritto con Luc Boltanski nel 1976 come La production de l’idéologie dominante. In esso, pur non facendone il centro di una teorizzazione specifica, trova più di un ancoraggio la successiva lettura del neoliberalismo come ri- voluzione (neo)conservatrice, in quanto tentativo di realizzare attraverso l’impiego prioritario di mezzi politici e simbolici “l’utopia” di un individuo universalmente razionale e calcolatore, ovverosia imprenditore di sé stesso e coronamento della trasformazione dello stesso lavoratore salariato in ca- pitale umano secondo una lettura foucaultiana di Becker (Foucault 2017). In questo denso intervento, su cui a distanza di quarant’anni tornerà a riflettere Boltanski (2008), i due sociologi, che in quel periodo firmarono insieme diversi importanti studi (Bourdieu, Boltanski, Saint Martin 1973; Bour- dieu, Boltanski 1975a, 1975b), pongono in risalto come l’idea di “rottura” e, in qualche modo di “rivoluzione”, stiano cambiando campo – passando da sinistra a destra – in nome di una razionalità economica. Vi si tratteggia, pertanto, una “nuova ideologia” delle élites al potere di cui i progetti di “nuova società” promossi da Jacques Chaban-Delmas e Jacques Delors, da una parte, e di “liberali- smo avanzato” promosso dall’allora presidente della Repubblica francese Valéry Giscard D’Estaing, dall’altra, rappresentano le punte più avanzate di tale inclinazione. Bourdieu e Boltanski in questa

128 Come ha sottolineato Bourdieu: «la forza dell’ideologia neoliberista sta nel suo fondarsi su una sorta di neo-darwini-

smo sociale: sono i migliori e i più brillanti, come si dice ad Harward, che trionfano (Becker, premio Nobel, per l’econo- mia ha sviluppato l’idea secondo cui il darwinismo è il fondamento della predisposizione per il calcolo razionale che egli attribuisce agli agenti economici)» (Bourdieu 1999: 52).

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congiuntura sottolineano come l’uso intensivo delle scienze sociali – e soprattutto economiche – di- venti dirimente per incentivare l’avvento di un nuovo modo di dominazione che assuma le vesti del cambiamento e che identifica, pertanto, «la filosofia sociale della frazione dominante della classe dominante» (Bourdieu, Boltanski 1976). Essa, come riassume Laval, non gioca più semplicemente in difesa dello status quo, bensì muove «una critica dello stato esistente delle cose» e proprio questa rivendicazione le consente di «accusare di conservatorismo tutti coloro che resistono al cambia- mento» (Laval 2018: 215). Ne deriva che il potere non sembra temere la critica e che il cambiamento diventa ad un tempo necessario e desiderabile.

La via da percorrere per promuoverlo è però nelle mani degli esperti che sono i soli a cono- scerne la direzione ineluttabile. Il conservatorismo assume allora un carattere nuovo: «esso obbedisce alla “fatalità del probabile”» in quanto dettata dalle leggi economiche. «Bisogna accettare il cambia- mento» perché non ci sono alternative secondo il successivo adagio thatcheriano… Questo è ciò che i due sociologi chiamano «conservatorismo riconvertito», in opposizione al «conservatorismo dichia- rato» (Ibidem) delle frazioni declinanti della classe dominante. Questa nuova doxa, attraverso l’im- piego di «luoghi comuni» prodotti nei luoghi considerati neutri (quelli propri della tecnocrazia mo- derna e pianificatrice francese), che Bourdieu e Boltanski antepongono ed esaminano nel loro saggio (Bourdieu, Boltanski 1976: 9-31), rende la classe dominante portatrice di una nuova ideologia fondata sulla fine delle ideologie, la valorizzazione in sé e per sé del cambiamento orientato verso il mito di una società in cui le differenziazioni sociali e politiche tendevano a sfumare di pari passo con la credenza, che si vorrebbe post-ideologica, in una crescita economica continua ed equilibrata. Non a caso, in questa raccolta di luoghi comuni trova una menzione il termine «(neo)liberalisme» (Ivi: 18) affianco ad una citazione di Giscard D’Estaing in cui lo si descrive come «la forma più sapiente del pensiero economico» nella ricerca della «crescita continua o dell’equilibrio ad un certo livello» che ne fa «una delle teorie più avanzate e nuove» a cui occorreva «dare il nome moderno: neoliberalismo» (Giscard d’Estaing, Armand 1968). Se Bourdieu e Boltanski vedono il mutamento di campo assunto da un lessico che vuole promuovere un cambiamento profondo del modo di governare la società che in qualche modo recupera (e non di rado deforma) alcuni temi libertari esplosi nel corso delle conte- stazioni degli anni Sessanta, senza però assumere come centrale la rottura neoliberale in itinere, si deve a Michel Foucault un inquadramento critico delle correnti neoliberali che stavano diventando sempre più oggetto di dibattito pubblico in un’epoca dominata dalla stagflazione e dai lasciti dello shock petrolifero. Frangente temporale in cui emergevano i limiti del keynesismo – colti in modo originale anche a sinistra129 – o, meglio, di ciò che è stato etichettato in tal modo e con non poche

129 In tal senso si pensi agli interventi di matrice marxista, certamente diversi tra loro, di autori come James O’Connor

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contraddizioni rispetto al pensiero keynesiano. Nondimeno, si trattava di una congiuntura in cui s’ini- ziava a denunciare con forza, in ambito conservatore, l’eccesso di domande democratiche (Crozier, Huntington, Watanuki, 1977) e si sperimentavano i primi inquietanti successi politici neoliberisti (si pensi al sapere degli economisti neoclassici di Chicago al servizio della dittatura cilena pinocheti- sta…).

Al filosofo francese, intento a discutere le tesi dell’ordoliberalismo tedesco degli anni Trenta (che mirava alla costituzione di un mercato concorrenziale più tarato sulla piccola impresa e conce- piva la libertà economica come risorsa del benessere su cui si fondava lo Stato, con un rovesciamento dell’approccio classicamente liberale secondo cui si trattava di porre un limite al governo dotato di una sovranità illimitata) e il neoliberismo americano beckeriano (incentrato sul capitale umano come costante acquisizione di competenze ed estensione della ragione economica concorrenziale ad ogni sfera della vita), si deve un’attenzione non banale e meramente liquidatoria della sfida neoliberale. Egli non la vedeva né come semplice sintomo della crisi di accumulazione capitalistica secondo un’ottica marxista ortodossa, né come una sorta di nuovo totalitarismo, bensì come forma in costru- zione di una governamentalità propria di un’epoca connotata dalla biopolitica, ossia dal passaggio da una forma sovrana del potere incentrata sulla paura della morte ad una disciplinare (incentrata sul far vivere e lasciar morire), dunque caratterizzata da una forma di governo meno direttamente e central- mente repressiva (che riadatta il potere sovrano più che farlo scomparire) esercitato tramite l’azione indiretta sul milieu – con una valorizzazione originale del panopticon benthamiano –, ed anonima – con esiti quanto meno distopici –, incentrata sull’auto-sorveglianza degli individui attraverso il cal- colo esatto dei propri interessi.

Un cambiamento che paradossalmente aveva bisogno di più interventi dello Stato (in contrap- posizione alla fobia di Stato fin troppo ingenuamente presente negli ambienti gauchisti dell’epoca come sottolinea Foucault) palesando le contraddizioni tra l’incremento delle domande sociali d’in- clusione e la volontà di plasmare individui capaci di competere e autoregolarsi. Foucault non avrà tempo di vedere come andranno ad articolarsi realmente le politiche neoliberali, e quanto, ad esempio, saranno potenziate le politiche securitarie e carcerarie – tema particolarmente caro al filosofo francese – in un modo che è assai lontano da un’ipotetica «governamentalità soft» esercitata sui poveri (Laval 2018: 123). Rimangono, inoltre, suggerisce Laval, dei silenzi significativi di Foucault sulle disugua- glianze sociali che tali politiche iniziavano a produrre, anche se in forme non eclatanti come quelle odierne, e sul ruolo in controtendenza che la democrazia – non tematizzata da Foucault – poteva

promuovere una risposta socialista in merito, e di Lucio Magri alle prese con i limiti delle politiche di programmazione ispirate a Keynes partendo dalla crisi non solo economica che attanagliava l’Italia negli anni Settanta (Magri 2012: 181- 185).

175 svolgere (Ivi: 125-129).

Rispetto all’affermazione del neoliberalismo, a sua volta, Bourdieu, come ha sottolineato La- val, rimodula la sua strategia critica passando da una lettura disincantata dei campi coinvolti nella produzione dei beni simbolici a una «strategia difensiva» (Ivi: 234) che fa del processo di autono- mizzazione raggiunto da questi ultimi l’equivalente di una conquista di civiltà e conseguentemente della difesa della loro autonomia un compito politico di cui il Post-Scriptum de Les Règles de l’Art – Per un corporativismo dell’universale (Bourdieu 2005b: 425-437) – ne è forse la testimonianza più emblematica. La difesa delle frontiere per entrare nei campi culturali diventa dunque la condizione di efficacia politica delle stesse scienze sociali rispetto all’immediatismo populista ed è l’opposto di una difesa elitista del sapere, bensì «la logica conclusione della critica di un discorso tecnocratico» (Lane 2000: 169), tanto che è valorizzata la critica e la lotta contro le posizioni di rendita interne ai singoli campi e allo stesso tempo rispetto a coloro che dall’interno spingono per promuovere forme di eteronomia a vantaggio del campo economico da cui seguirebbe una complessiva banalizzazione dei primi, non di democratizzazione in termini di universalizzazione dell’accesso all’universale. Quest’ultima, infatti, implicherebbe un incremento delle dotazioni di capitale culturale e mutamenti strutturali della società nel senso opposto di una generale economicizzazione della vita.

Il neoliberalismo della scuola neoclassica, e in particolar modo le posizioni di Gary Becker, come abbiamo visto, diventano, pertanto, oggetto di un confronto sempre più serrato che porta Bour- dieu a riposizionare il concetto stesso di disinteresse come arma – è stato colto anche da una posizione critica rispetto al sociologo francese (Silber 2011: 240) – contro le illusioni deleterie e l’intenzione politica di promuovere un habitus puramente economico. Se il sociologo aveva mostrato che non esistono condotte assolutamente gratuite (con alcune eccezioni come l’amore e l’amicizia) non per questo le posture connotate da generosità e dichiarato disinteresse erano meramente false o forme d’interesse mascherato riducibile ad azioni intenzionali in vista di un profitto. Esse erano oggettiva- mente portatrici di benefici individuali con un valore maggiore rispetto ad altri dal punto di vista della collettività, sia sul piano etico che su quello politico. Pertanto, come ha ancora opportunamente sot- tolineato Laval, «l’universale non è menzogna, “falsa virtù” o un velo da togliere. Ben al contrario, l’universale e i benefici che comporta costituiscono una necessità antropologica» (Laval 2018: 258) tanto che «un’antropologia comparata consentirebbe, credo – affermava Bourdieu –, di dire che esiste un universale riconoscimento del riconoscimento dell’universale» (Bourdieu 20092: 147). Da ciò se- gue la necessità politica di difendere gli universi nei quali le persone hanno interesse all’universale, ricordando il carattere storico in cui prendono forma la ragione e i profitti di universalizzazione della ragione, dunque le condizioni sociali e culturali specifiche che vi presiedono, che consentono un progresso, pur minimo, della medesima anche quando essi sono perseguiti in forma più o meno

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ipocrita. In effetti, Bourdieu, nel suo progetto di costruire un’economia generale delle pratiche che fosse in grado d’indagare la società come articolazione di campi relativamente autonomi, con poste in gioco, dinamiche di potere e interessi specifici, in cui gli agenti sociali sono segnati da habitus e forme distinte di capitale nello spazio sociale, aveva colto positivamente l’estensione della concet- tualizzazione economica operata da Becker alle sfere cosiddette “pure” delle attività culturali. Al contempo trovava del tutto fuorviante appiattire l’indagine di quei campi – le forme di dominio che li attraversavano, che Bourdieu intendeva disvelare per indebolirle – appiattendo la logica economica su quella economicistica, tanto più su quella incentrata sull’individuo atomizzato degli economisti neoclassici.

Pertanto, nel progetto bourdieusiano, in cui si tendeva ad assumere e piegare il lessico e le scoperte economiche su un versante critico, vi era il rischio dell’analogia (Laval 2018, 179-180). Tut- tavia, le indagini sull’economia dei beni simbolici e sull’économie économique, rilevando l’influenza

dell’aspetto propriamente economico nel primo e simbolico nel secondo caso (entrambi celati nel senso pratico che alimenta l’habitus degli agenti sociali), sono, in Bourdieu, aspetti inscindibili di un pensiero che si proponeva di andare in tutt’altra direzione rispetto al discorso (non solo) economico dominante – al pensiero unico, come si è detto, seppure con troppa approssimazione. Un approccio, quello bour- dieusiano, che trova forti similitudini, ad esempio, con la già richiamata Scuola della regolazione e allo stesso tempo testimonia di almeno due linee teoriche (Laval 2018, 159-168) che interagiscono ed emer- gono, alternativamente, nello stesso impianto teorico, in base alle diverse congiunture. In effetti, le ricerche condotte da Bourdieu negli anni Sessanta e Settanta nei campi dell’educazione e della cultura avevano messo in luce quanto le disuguaglianze fossero irriducibili al capitale economico e quanto giocasse un ruolo dirimente il capitale culturale nella riproduzione sociale. In ciò si evidenziava una dissonanza, come abbiamo già sottolineato, dagli approcci marxisti, a partire dallo stesso uso del concetto di capitale, articolato da Bourdieu in diverse specie che mostrano, da un lato, le diverse forme di dominio inerenti ai vari campi (in cui sono le dinamiche di accumulazione, competizione ed esclusione a risultare dirimenti), dall’altro, il ridimensionamento della centralità del concetto di sfrut- tamento del lavoro ad opera del capitale come teorizzato da Marx, che, non meno delle teorie neo- classiche, ricadeva, secondo il sociologo francese, come abbiamo precedentemente discusso critica- mente, nell’economicismo. Pertanto, se l’analisi bourdieusiana fino agli anni Ottanta aveva princi- palmente messo in rilievo un dominio simbolico incentrato sul culto dello Stato e delle grandi opere culturali ed artistiche che trovava una personificazione nella Noblesse d’État, a sua volta promossa dalle grandes ècoles, nonché la priorità assunta dalla filosofia in quanto ragione scolastica, e dunque un ruolo non (così) egemone del campo economico, la graduale affermazione del neoliberalismo, promuovendo l’habitus economico, come ribadirà in uno dei suoi ultimi scritti (Bourdieu 2003c: 79-

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90), e il suo sconfinamento negli altri campi, poneva l’économie économique come nuova ragione scolastica, come vero e proprio nomos (Bourdieu 2016: 608), capace d’imporre una «visione di de- stra» sia del mondo economico che del mondo sociale. In altri termini capace d’imporsi a tutta la società (Laval 2018: 205).

Ne risultava, dunque, il tentativo di rendere pervasiva la logica del mercato ai campi più di- sparati rendendone reversibile l’autonomizzazione (che Bourdieu, sulla scorta di Durkheim, assu- meva come aspetto specifico della modernità e in opposizione all’économie économique). Si veniva a ridefinire, così, lo stesso campo del potere, in cui si misurano e agiscono a distanza le logiche in cui si articolano i vari campi, il principio di visione e di-visione della società. Ridefinizione difficilmente percepibile, data la sua vastità e intensità, che produce nuove strutture cognitive che vengono ad assumere come matrice il dominio del capitale economico. Allo stesso tempo, Bourdieu, in un celebre discorso del 1997 in occasione del conferimento di un premio intitolato a Ernst Bloch, attuando un parallelo singolare con la Germania degli anni Trenta, presentava il neoliberalismo come una forma di rivoluzione conservatrice, richiamando il radicalismo regressivo e totalizzante heideggeriano su cui si era già soffermato criticamente nei decenni precedenti (Bourdieu 1989c) analizzando il campo filosofico. Il neoliberalismo, in tal senso, avrebbe assunto e distorto le parole tipiche della cultura progressista (ragione, scienza, progresso) per sovvertire l’ordine sociale segnato dalle conquiste del movimento operario e restaurare un mondo “originario”, più “puro”, in cui, in questo caso, al posto di una mitizzazione premoderna, era il capitale economico che veniva mitizzato/naturalizzato e che non doveva avere più freni ed espandersi. Un ordine che aveva non di meno come matrice la «rivo- luzione conservatrice» statunitense e in cui la retorica identitaria e razzista (come ha sottolineato Laval) diventava il modo per neutralizzare gli effetti distruttivi delle politiche neoliberali.

Tutto ciò, oggi, in un’ottica che si vorrebbe de-globalizzante e in realtà presa nei processi di riconfigurazione dei poli egemonici del sistema-mondo, senza indebolire il dominio del capitale eco- nomico, bensì usando come schermo la priorità nazionale, diventa forse ancora più esplicito ad esem- pio dopo l’elezione di Trump negli USA (e dopo lo stesso esito del referendum sulla Brexit nel Regno Unito). In definitiva, si trattava di un ordine che beneficiava della restaurazione dei valori tradizionali in cui l’obsequium – riprendendo una categoria della filosofia politica spinoziana – nei confronti del nomos economico si coniugava con l’obbedienza dovuta allo Stato teso a legittimarlo.

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