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La rappresentanza come forma di espropriazione politica?

pitale politico

3.2 La rappresentanza come forma di espropriazione politica?

L’esistenza di un campo – lo abbiamo detto e sottolineato più volte – implica la produzione di un confine che, per quanto mobile, non può scomparire senza il venir meno del campo stesso. In tal senso, se il campo artistico-culturale e quello scientifico si distinguono per la loro autonomia e, fa- cendo del giudizio dei pari l’elemento valutativo prioritario, essi hanno dimostrato storicamente agli occhi di Bourdieu la possibilità di promuovere una Realpolitik della ragione (Bourdieu [1997] in Boschetti 2003: 130-148). Allo stesso tempo, il campo politico e quello editoriale e mediatico (oggi sicuramente mutati rispetto a quanto analizzato da Bourdieu), fondandosi sul verdetto esterno del voto dei cittadini e del mercato mostrano una forte e problematica eteronomia. Tuttavia, rivendicare, virtuosamente, un’autonomia all’interno dei due campi è quanto meno difficile e rischia più facil- mente di produrre «effetti tutt’altro che virtuosi» (Boschetti 2010: 130), come Bourdieu stesso tende ad evidenziare. In questi termini, se il campo politico è animato da una concorrenza tra attori distinti, ciò innanzitutto è vero in quanto devono avere referenti sociali differenti a cui fanno riferimento, come Bourdieu preciserà meglio in un intervento del 1981 (La reprèsentation politique), successiva- mente rielaborato (Bourdieu 2001a: 213-258), facendo in modo che la posizione degli attori politici «nella struttura del campo politico coincida esattamente con la posizione dei loro clienti nella strut- tura del campo sociale» (Ivi: 229). Infatti, essi «servono gli interessi dei loro clienti nella misura in cui si servono di loro servendoli» (Ibidem). Vi è cioè sempre «una doppia determinazione» nel di- scorso politico, affetto da «una duplicità non intenzionale» in quanto «risultato di una dualità dell’uni- verso di referenze», per cui vi è «la necessità [corsivo mio] di servire ad un tempo i fini esoterici delle lotte interne [al campo politico] e i fini essoterici delle lotte esterne» (Ibidem). In tal senso, la socio- logia politica bourdieusiana, intenta ad evidenziare e smascherare le forme di dominazione specifiche, da un lato, s’inscrive chiaramente sull’onda delle critiche sociologiche classiche della democrazia rappresentativa, come quelle di Weber e Michels, dall’altro, pur non esplicitando una filosofia poli- tica, ma valorizzando le critiche rousseauiane e di matrice anarchica orientate verso una democrazia diretta, risulta ad un tempo promossa da un intento «democratico e libertario» anche se di natura assai più complesso rispetto alle teorie anarchiche che ingenuamente rifuggono da ogni tipo di intermedia- zione, tanto che il tema della rappresentanza è affrontato in modo ambivalente (Corcuff 2003: 24- 25).

Fin dall’articolo del 1981 si tratteggia il campo politico non solo come arena in cui hanno luogo lotte volte a trasformare il rapporto di forze in atto, ma anche come ambito in cui si generano «le forme di percezione e di espressione politicamente legittime che sono offerte ai cittadini ordinari ridotti allo stato di “consumatori”». Essi sono tanto più votati ad una delega incondizionata verso i propri rappresentanti «quanto più sono privati di competenza sociale per la politica e di strumenti di

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produzione propri del discorso o degli atti politici» (Bourdieu 2001a: 213), il che spiega per Bourdieu – non senza ironia – quanto partiti o movimenti promossi da intellettuali «siano votati alla divisione in sette irriducibili» (Ivi: 214). In questo saggio il sociologo francese coglie alcune divisioni di fondo del campo politico lungo l’asse conservazione/trasformazione: i conservatori (dirigenti d’imprese in- dustriali e commerciali), prediligendo partiti di carattere elettoralistico, scarsamente organizzati e dunque inclini a un’idea politica, in tempi normali, di laissez-faire (Bourdieu 2013b: 196), hanno un’immagine tendenzialmente negativa o perlomeno ambivalente dell’universo politico in quanto esso può mettere in discussione l’ordine esistente. Infatti, l’uomo politico dipende da una sanzione esterna – il voto – che lo obbliga ad assumere una dimensione di servizio nell’esercizio della sua attività. Non di meno, per i conservatori la professione politica è sovente vista come non (ri)cercata in prima istanza, una sorta di rimedio rispetto ad una carriera almeno parzialmente mancata in altri ambiti più remunerativi. Ne consegue, secondo Bourdieu, che coloro che hanno meno capitale eco- nomico e culturale non hanno altra scelta che restare in silenzio o rivolgersi a un partito in quanto «organizzazione permanente che deve produrre la rappresentazione permanente dell’esistenza con- tinua in quanto “classe” mobilitata e mobilitabile di coloro che esso pretende di rappresentare e che sono sempre minacciati di ricadere nella discontinuità dell’esistenza atomizzata» (Bourdieu 2001a: 214-215).

Va subito notato – en passant – quanto al di fuori di una robusta ed esterna organizzazione i dominati, secondo Bourdieu, sembra che non esistano realmente da un punto di vista politico e, dun- que, come dirà in un successivo intervento, essi debbano «sempre rischiare l’alienazione politica per sfuggire all’alienazione politica» (Bourdieu 2013b: 196). Su questo aspetto, che ha a che fare in pri- mis con la capacità di dotarsi di un’esplicita opinione politica – come vedremo meglio nel capitolo successivo –, si concentrano diverse critiche, irriducibili ad un’unica posizione (Rancière 1983; 1984: 13-36; Grignon, Passeron 1989), su quella che sembra una sottovalutazione delle culture popolari (e una sovra-valutazione dei processi di dominazione) e delle capacità di resistenza alla cattura e alla violenza simbolica (e materiale) esercitata sui subalterni dalle classi dominanti. Ne deriverebbe, se- condo una logica aporetica all’interno delle scienze sociali (Genestier 1994: 229-250), che occorre- rebbe superare (Poupeau 2014: 226-229), una forma di miserabilismo contrapposto ad un populismo proprio di chi scommetteva sulla spontanea capacità di rivolta dei subalterni e che Bourdieu intrave- deva sotto forma di «populismo scientista» nelle stesse correnti ortodosse marxiste (Bourdieu 2005c: 93-101), ma che in qualche modo non risparmiava gli stessi Marx ed Engels (Bourdieu 20012: 405-

406). Ad ogni modo, procedendo con un tipo d’indagine innanzitutto oggettivante78, per sua natura

78 Si tratta di una postura propria di ogni sapere scientifico e che, com’è stato sottolineato recentemente, innerva l’ambi-

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disincantante e nondimeno sempre esposta all’uso non riflessivo del linguaggio e a vedere traslata in giudizio di valore la costruzione di un oggetto di studio, Bourdieu sottolinea il carattere di «adesione globale e anticipata» che caratterizza i dominati rispetto a partiti permanentemente organizzati attorno ad un «programma di pensiero e di azione» e «orientati alla conquista del potere» (Bourdieu 2001a: 215). Su queste basi, il sociologo francese pone immediatamente in risalto la potenziale alienazione politica intrinseca ad un meccanismo in cui una realtà organizzata, relativamente autonoma in termini di interessi, può appropriarsi del consenso dei suoi aderenti e ancor più dei suoi semplici elettori. Richiamando Bakunin, egli pone in risalto, in tal modo, «l’antinomia del potere rivoluzionario costituito» simile a quello della «Chiesa riformata come è stata descritta da Troeltsch» per cui «la delega globale e totale» dei dominati verso il partito diventa un «credito illimitato» che lascia libero corso ai meccanismi che tendono a spossessarli di ogni controllo sull’apparato. Si verifica, così, «una concentrazione di capitale politico» che non è mai stata tanto grande quanto nei partiti che si danno per compito «la lotta contro la concentrazione del capitale economico» (Ibidem). A sostegno delle sue tesi Bourdieu richiama gli scritti politici di Antonio Gramsci (19692), oscillante tra lo “sponta-

neismo” de l’Ordine Nuovo e il centralismo democratico del Partito comunista. In particolare, valo- rizza le sue analisi dall’interno sull’inclinazione ad un «fideismo millenarista e alla rappresentazione provvidenzialista del partito e dei suoi capi» da parte dei militanti, in confronto a Rosa Luxemburg (1972: 37) che auspicava – Bourdieu parla di «wishful thinking» – un partito limitato nell’esercizio del suo potere «attraverso uno sforzo cosciente e costante dei capi che si destituiscono [in quanto tali] per agire eseguendo la volontà dei loro mandanti» (Bourdieu 2001a: 215-216).

Eppure – ci pare necessario sottolinearlo – per quanto minoritari e perdenti nella storia del movimento operaio, gli auspici (non solo) luxemburghiani hanno trovato sedimentazioni storiche non irrilevanti (Ferraris 2011) e forniscono, nella loro in-attualità e con la loro capacità di rinviare a quanto vi è di inesaurito nelle lotte del passato, per usare un’immagine cara a Walter Benjamin (19952; 1997), elementi vitali per (ri)pensare e praticare una trasformazione sociale e politica di ca- rattere neosocialista in netta rottura con i socialismi e i capitalismi reali. Tanto più in tempi come quelli odierni, in cui la malinconia (Traverso 2016) è forse il sentimento egemone tra gli eredi di chi tentò, senza pentirsene e al contempo non chiudendo gli occhi di fronte agli errori e agli orrori, di dare l’assalto al cielo.

Bourdieu, nelle pagine successive del saggio, anticipa gli aspetti che caratterizzano i politica- mente competenti, dunque «il processo di produzione dei professionisti della produzione politica» incentrato sull’autonomizzazione del campo politico con «l’apparizione delle grandi burocrazie poli- tiche di professionisti a tempo pieno» e la nascita – in Francia – di istituzioni come l’Institut de sciences politiques e l’École national d’administration incaricate di «selezionare e formare i

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produttori professionali di schemi di pensiero e di espressione del mondo sociale […] e allo stesso tempo di codificare le regole di funzionamento del campo di produzione politica e il corpo di saperi e saper-fare per conformarsi» (Bourdieu 2001a: 218). Da questa prospettiva, sottolinea Bourdieu, «la scienza politica» insegnata in tali istituzioni rappresenta «una razionalizzazione della competenza che esige il mondo politico» e che i professionisti possiedono già allo stato pratico. Di fatto, tali istitu- zioni mettono a disposizione dei professionisti della politica «tecniche razionali come i sondaggi, le relazioni pubbliche o il marketing politico» che in tal modo assumono «le apparenze della scientifi- cità» (Ivi: 219) e consentono di costruire le questioni politiche come se fossero scientifiche, gene- rando uno scambio di legittimazione tra gruppi specialistici dotati di capitale specifico. Ne consegue che si mette in atto una teoria «elitista dell’opinione» che impregna i sondaggi ed è promossa da opinions makers le cui opinioni tendenzialmente non vengono problematizzate. In tal senso, il socio- logo francese osserva come l’autonomizzazione del campo politico si sia accompagnata con l’innal- zamento del livello di competenza richiesta per accedere al campo medesimo in cui i professionisti competono attraverso prese di posizione, che sono altrettante forme di distinzione (rispetto alle quali, soprattutto nei dibatti televisivi, il profano si riduce allo «statuto di spettatore»), in cui la polarizza- zione tra vecchio/nuovo, arcaismo e modernismo mettono in scena un scontro «tra detentori e preten- denti» sotto forma di conflitto generazionale (Ivi: 219-220).

Da questo punto di vista, «il politico avvertito» è colui che è in grado «di misurare praticamente [corsivo mio] il senso oggettivo e l’effetto sociale delle sue prese di posizione grazie alla padronanza che egli possiede delle prese di posizione reali e soprattutto potenziali» (Ivi: 220). Ed è questo senso pratico delle prese di posizione probabili (e improbabili) che gli «permette di “sce- gliere” le prese di posizioni convenienti, e di evitare [quelle] “compromettenti”, quelle ad esempio che lo farebbero incontrare senza volerlo con gli occupanti delle posizioni opposte nello spazio del campo politico» (Ivi: 221). In questi termini, la lotta che oppone i professionisti della politica è «la forma per eccellenza della lotta simbolica per la conservazione o la trasformazione della visione [cor- sivo mio] e dei principi di divisione [del mondo sociale]», dunque del «potere di far vedere e di far credere», e ciò fa del campo politico uno dei luoghi privilegiati per l’esercizio del potere di rappre- sentazione o di manifestazione che contribuisce a fare esistere pienamente, cioè allo stato oggettivato, direttamente visibile da tutti, pubblico, pubblicato, ufficiale [corsivi miei], ciò che esiste allo stato pratico, tacito e implicito» (Ivi: 224).

Il campo politico è dunque un luogo di teatralizzazione dove ad esempio i nuovi gruppi per accedervi devono mettersi in scena manifestandosi attraverso forme visibili come i cortei e dove le stesse «istituzioni rappresentative (Consigli, Cortes, Stati Generali, Parlamenti, ecc.)» sono servite – ricorda Bourdieu – come base delle

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prime rappresentazioni della nazione […] e della sua struttura [con] i cerimoniali che hanno reso visibili i ranghi e i

numeri [e] la proiezione spaziale che ha realizzato lo schema a due dimensioni [facendo] apparire la gerarchia dei gruppi

rappresentati (espressa dal loro rango alto o basso o da destra a sinistra) e, in alcuni casi, il loro peso numerico, senza dimenticare l’essenziale, cioè il fatto stesso dell’esistenza dei gruppi rappresentati e nominati (Ivi: 225).

Se dunque l’organizzazione della lotta politico-simbolica si articola secondo una necessaria gerarchizzazione e opposizione, principalmente binaria, che richiama la struttura sociale e il funzio- namento a livello mentale di un principio di visione e divisione del mondo sociale (con particolare riferimento alla divisione in classi), nondimeno, nei parlamenti democratici, la lotta per acquisire il consenso dei cittadini è «anche [corsivo mio] una lotta per mantenere o sovvertire la distribuzione del potere sui poteri pubblici o, se si preferisce, per il monopolio dell’uso legittimo delle risorse politiche oggettivate» come ad esempio il diritto, la polizia o le finanze pubbliche (Ivi: 226). Gli agenti di tale competizione sono ovviamente di natura collettiva, dunque sono partiti organizzati per condurre quella che il sociologo francese chiama una «forma sublimata di guerra civile» in cui si deve mobilitare costantemente «il maggior numero possibile di agenti dotati della stessa visione del mondo sociale e del suo avvenire» (Ibidem). Tuttavia, insiste Bourdieu, i programmi elaborati per produrre idee sul mondo sociale e mobilitare il maggior numero di cittadini sono il risultato di un’ela- borazione ristretta a pochi professionisti in quanto unici effettivamente in grado di promuovere delle idee «capaci di produrre dei gruppi manipolando tali idee in modo di assicurare loro l’adesione di un gruppo» (Ibidem). E qui Bourdieu si sofferma sulla specifica retorica che domina le assemblee di partito, l’insieme di tecniche inerenti all’uso della parola e la capacità di “far passare” determinate mozioni piuttosto che altre. Ma ciò che preme al sociologo francese è mostrare «l’autonomia e l’ef- ficacia specifica di tutto ciò che avviene nel campo politico» che non può essere ridotto, come nelle letture marxiste più ortodosse, ad un epifenomeno delle forze economiche e sociali di cui gli attori politici sarebbero in qualche modo le marionette» (Ivi: 227). Infatti, per Bourdieu, «la relazione tra partito e “classe”», e dunque la lotta tra organizzazioni politiche e la lotta tra le classi, «è una relazione propriamente simbolica tra un significante e in significato o, meglio, tra dei rappresentanti che danno una rappresentazione e degli agenti, delle azioni e delle situazioni rappresentate» (Ibidem).

In tal modo si produce quella sorta di omologia tra campo sociale e campo politico79 e di

doppia, necessaria, determinazione del discorso politico come abbiamo anticipato (Ivi: 228-229). Così, l’autonomizzazione del campo politico lungo un processo di continui scarti e distinzioni che sono propri di chi lo abita ma che in realtà non strutturano il principio di (di)visione dei profani, rinviano costantemente alla formazione di due poli, generalmente articolati tra conservatori e

79 Il principale sviluppo teorico di questo approccio sull’omologia tra campo sociale e campo politico è rinvenibile in un

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progressisti, o destra e sinistra, i cui contenuti possono subire mutamenti e veri e propri scambi (Bour- dieu fa l’esempio di come una certa difesa della scienza sia diventata un aspetto rilevante delle cor- renti conservatrici e invece la natura, sotto forma di sensibilità ecologista, sia diventata cara agli orientamenti di sinistra) che oggi sono diventati anche più palesi e allo stesso più difficili da decifrare. Allo stesso tempo, la distinzione tra correnti in competizione tra loro si riproduce nei singoli partiti e diventa più esplicita nei partiti i cui aderenti sono tendenzialmente meno dotati di capitale culturale.

L’esempio paradigmatico per Bourdieu – che ancora una volta richiama Gramsci in quanto lucido lettore delle dinamiche di apparato, ma non prestando pressoché alcuna attenzione, ci pare, alla riflessione del Gramsci dei Quaderni80 – è il partito bolscevico81. Quest’ultimo, dietro la facciata di un’organizzazione centralizzata era animato – prima della vittoria staliniana – da diverse tendenze, con impostazioni confliggenti, dove la stessa dinamica che alimenta la contrapposizione tra «autori- tari» e «libertari» non sarebbe altro che «la trascrizione nel piano delle lotte ideologiche della con- traddizione fondamentale del movimento rivoluzionario» (Ivi: 234). A sua volta, un movimento d’idee non esisterebbe come tale senza essere dotato di «idee-forza», cioè senza la capacità di mobi- litare il maggior numero di persone che in tal modo lo riconoscono innescando, tuttavia, una dialettica tra necessari compromessi e mantenimento della purezza iniziale nel momento in cui tali movimenti aspirano a governare. Ciò implica, afferma Bourdieu, che gli elettori sono indotti a scegliere tra «una rappresentazione adeguata ma poco potente» e «una rappresentanza imperfetta (il cui paradigma è il catch-all party) ma, proprio per questo, potente» (Ivi: 238).

In ogni caso, il campo politico diventa il luogo di una concorrenza «per il monopolio del diritto di parlare e di agire in nome di una parte più o meno estesa dei profani» in cui «il portaparola si appropria non solo della parola del gruppo dei profani, cioè, per la maggior parte del tempo, del suo silenzio [corsivo mio], ma anche della forza stessa di questo gruppo, che contribuisce a produrre prestandogli una parola riconosciuta come legittima nel campo politico» (Ivi: 238-239). Per fare ciò,

80 Com’è noto Bourdieu ha confessato di aver letto tardi Gramsci (Bourdieu 2013b: 59-60), smentendo certe intenzionali

affinità concettuali che si potrebbero ipotizzare (ad esempio tra i concetti di egemonia e dominio). È peraltro vero che diversi autori si sono soffermati in modo stimolante sul rapporto Bourdieu/Gramsci (Burawoy 2015; Paci 2013; Pennucci 2017, 2018), a volte inquadrandolo come incontro mancato (Batou, Keucheyan 2014). Tuttavia, al di là di fin troppo facili accostamenti che rischiano di cadere in un approccio decontestualizzato da (cattivo) lector, vi è un’incontestabile diversità di problematica che interessa i due autori dato che il dirigente politico sardo non ha mai smesso di pensare e di elaborare una strategia per la rivoluzione comunista in Italia (con le importati innovazioni teoriche, seppure allo stato frammentario, che si trovano nei Quaderni) che si adattasse alle condizioni specifiche del nostro paese, in particolare dopo la vittoria della rivoluzione passiva incarnata dal fascismo. Ciò, evidentemente, non si adatta alla postura bourdieusiana, assai più attenta a demistificare lo sbandieramento dei principi repubblicani, in quanto in realtà assai lontani da una loro concreta affermazione.

81 Il modello organizzativo adottato dal partito bolscevico, ma sarebbe meglio sottolineare quello emerso dopo la vittoria

staliniana, secondo Bourdieu consente di portare alle estreme conseguenze le tendenze – almeno in linea di massima – inscritte nel rapporto tra classi popolari e partiti (Bourdieu 2001a: 255).

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i rappresentanti devono accumulare capitale politico, che altro non è, in prima istanza, come abbiamo già detto in diverse occasioni, una forma di capitale simbolico, cioè

credito fondato sulle innumerevoli operazioni di credito attraverso le quali gli agenti conferiscono a una persona (o a un

oggetto) socialmente designato come degno di credito i poteri stessi che essi gli riconoscono. (Ivi: 241).

In quanto forma del capitale simbolico, il capitale politico è un «potere oggettivo che può essere oggettivato» e che, fondandosi su un riconoscimento che fa tutt’uno con una credenza, mette in scena una potenza magica, un processo di feticizzazione per cui al «mandatario unito ai suoi man- danti tramite una sorta di contratto razionale (il programma)», si affianca sempre «una relazione ma- gica d’identificazione» con coloro che «ripongono in lui tutte le loro speranze» (Ibidem). Per il fatto che – sottolinea Bourdieu – «il suo capitale specifico è un puro valore fiduciario che dipende dalla rappresentazione collettiva, più o meno oggettivata nelle cose e nelle istituzioni, l’uomo politico è specialmente vulnerabile ai sospetti, alle calunnie […] e a tutto ciò che minaccia la fiducia» (Ivi: 242). Ma esistono diverse specie di capitale politico. Richiamando ancora il Gramsci degli scritti politici che tratteggiava i funzionari sindacali come «banchieri di uomini in regime di monopolio» (Gramsci 19692), Bourdieu afferma che «l’uomo politico deve la sua autorità specifica alla forza di mobilitazione che detiene sia a titolo personale, sia per delega, in quanto mandatario di un’organiz- zazione» (Bourdieu 2001a: 244).

Vi è dunque una forma di capitale politico personale ed una che invece rinvia alla qualità di delegato di un’organizzazione, che rende il politico detentore di un «capitale politico di funzione» equivalente «alla grazia istituzionale o al carisma di funzione del prete» (Ivi: 247). In tal senso, Bour- dieu vede una stretta relazione – «una contropartita» – tra la possibilità di accedere ad una carica politico-partitica e una profonda dedizione all’istituzione-partito attestata dall’investimento di tempo e di lavoro nei confronti di quest’ultimo. Per questo motivo – individuando più di una similitudine tra una chiesa e un partito – i partiti pongono alla loro testa degli oblati, dando tendenzialmente tutto,

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