2. Il capitale e l’antropologia economica bourdieusiani alla prova della critica
2.1 Il rapporto Marx/Bourdieu e il concetto di capitale: le principali interpretazion
Sul rapporto complesso tra Marx e Bourdieu vi è una letteratura assai vasta e variegata, in cui si sono dispiegate le posizioni più disparate. In questo paragrafo ci concentreremo, preliminarmente, sulle interpretazioni che, da un lato, ci sembrano euristicamente più ricche, dall’altro, decisamente provocatorie, fino a giungere a porre in rilievo il rapporto inerente al concetto di capitale negli ap- procci dei due autori, con un’attenzione particolare alla specificità bourdieusiana. Sulla base di
37 Com’è stato autorevolmente sottolineato (Swedberg 2011), non è un caso che un importante articolo programmatico
come Le champe économique (Bourdieu 1997c) sia stato successivamente rielaborato e incluso nell’ultima opera econo- mica bourdieusiana – Les structures sociales de l’economie – con il titolo: Principi di un’antropologia economica (Bour- dieu 2004a: 219-249).
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quest’ultimo raffronto, proveremo ad evidenziare come la stessa posizione bourdieusiana, cioè la convinzione che si assista ad una riformulazione ed estensione della nozione marxiana seppure all’in- terno di un paradigma teorico che si smarcava da Marx e dai marxismi – ortodossi o eterodossi che fossero e più o meno effettivamente incontrati (Batou, Keucheyan 2014) – ci pare debolmente fon-
data. In
prima istanza, occorre richiamare le parole dello stesso Bourdieu, secondo il quale Marx, insieme a Weber e Durkheim, ma allo stesso tempo articolati anche gli uni con o contro gli altri, rappresenta un’imprescindibile fonte d’ispirazione della sociologia bourdieusiana. Ciò è chiaramente leggibile già nel secondo scolio de La Reproduction dove si valorizza l’aspetto oggettivista in Marx (comune anche a Durkheim) e la messa in luce di un dominio di classe ma, al contempo, si valuta positivamente Weber (contro Marx e Durkheim) in quanto scienziato sociale capace di «darsi espressamente come oggetto il contributo specifico che le rappresentazioni della legittimità apportano all’esercizio e al perpetuarsi del potere» (Bourdieu, Passeron 1972: 44-45). In altri termini di considerare il carattere autonomo e dirimente di un rafforzamento simbolico dei rapporti di forza tra dominati e dominanti. In generale, per Bourdieu la definizione di marxista, così come di durkheimiano o weberiano, non ha di per sé una rilevanza euristica, bensì attiene più ad un riduttivo e in genere stigmatizzante gioco classificatorio. Ciò che conta è l’utilità gnoseologica apportata dal lascito teorico di un autore (come Marx) a cui poter ricorrere pragmaticamente – è quanto dirà nella nota intervista Fieldwork in Philosophy – come ad un «compagnon» (2013b: 60-61). Ne risulta, dunque, non solo la possibilità, ma la necessità di pensare sia con che contro Marx, com’è stato sottolineato anche da alcuni com- mentatori (Gutierrez 2003). Pertanto, si tratterà d’individuare l’eredità marxiana in Bourdieu, antici- pando che la sua preponderante difesa dell’opera del rivoluzionario di Treviri, rispetto ad una critica certamente non assente ma meno diffusa, si è di fatto coniugata, invece, con una contrapposizione assai più decisa nei confronti delle correnti marxiste ritenute più ortodosse (Gilles 2014: 94-116) e a una radicale critica dei regimi del cosiddetto “socialismo reale” (Bourdieu 20092: 27-31; 2005c: 93- 101).
Una profonda influenza marxiana nella formazione bourdieusiana, in particolare del giovane Marx delle Tesi su Feurbach e dell’Ideologia tedesca, è stata confermata più volte dallo stesso socio- logo francese (2013b: 35-45) e ci pare criticamente ben tratteggiata in un saggio di Bruno Karsenti (2011) divenuto poi parte di un’importante monografia (Karsenti 2018: 225-259). Karsenti, in prima istanza, mette in luce l’approccio materialista bourdieusiano nei termini in cui il sociologo francese assume la primaria distinzione marxengelsiana (presente ne l’Ideologia tedesca) tra animali e umani, in cui questi ultimi si caratterizzano per la capacità (che diventa necessità) di produrre i propri mezzi di sussistenza e di «vivere letteralmente nei [propri] mezzi di vita» (Ivi: 226). La centralità della
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produzione nella vita umana, dunque nella storia umana, va di pari passo con il suo contrario, la non- produzione, segnando, così, una fondamentale contraddizione sintetizzabile, come emerge in Bour- dieu, nella divisione tra lavoro materiale e lavoro intellettuale dove il secondo può esistere e riprodursi gerarchicamente grazie all’esistenza del primo. Bourdieu, secondo Karsenti, farà di questa divisione (che diversamente da Marx risulta insanabile in un’ipotetica società comunista, ma non per questo non riconfigurabile in forme meno violentemente scisse) il centro della sua teoria della pratica, che Karsenti chiama «strutturalismo della pratica» e che viene ad un tempo giocata contro lo sguardo esterno dell’etnologo/cartografo a contatto con civiltà extra-occidentali e contro lo strutturalismo lévi-straussiano (che, suggerisce Karsenti, secondo il sociologo francese sarebbe quanto di più lon- tano da una sociologia d’ispirazione marxiana).
La posizione di Bourdieu consisterebbe, pertanto, nell’«elaborare una logica della pratica» capace di sviluppare «una critica delle condizioni mute e impercettibili del distacco teorico» e dunque capace di restituire alla pratica «ciò che essa è in quanto pratica» (Ivi: 233-234) a partire da una concezione della corporeità – ritenuta problematica da Karsenti, così come da altri autori38 – in quanto
costituita in gran parte dall’esterno in una dialettica di incorporazione, appropriazione e aggiusta- mento di elementi strutturali rispetto ad uno spazio oggettivo nei confronti del quale si paleseranno sempre scarti. Detto altrimenti: in cui l’habitus sarà sempre contraddistinto da hysteresis, per ripren- dere un’altra nozione chiave bourdieusiana (Hardy 20142: 126-145). Scarti che s’incrementano, so-
prattutto per le classi dominate, in una società come quella capitalistica contemporanea in cui la tem- poralità del corpo, che deve abituarsi al fuori, e la temporalità della produzione (sempre più accelerata e smaterializzata) tendono a divergere, dove, dunque, «la salvezza attraverso la pratica» (Karsenti 2018: 254) – che Bourdieu intravedeva come un tratto saliente delle società precapitalistiche, anche se in realtà già fortemente alterate dalla colonizzazione occidentale tanto da essere poste in dubbio da Karsenti come formazioni sociali davvero altre rispetto alla modernità – è sempre meno operativa.
A sua volta, da una prospettiva esplicitamente neomarxista che pone anch’essa in particolare rilevo il debito bourdieusiano rispetto all’Ideologia tedesca marxengelsiana (testo mai pubblicato e in verità considerato superato dagli estensori del Manifesto del Partito Comunista), prende le mosse la lettura di Michael Burawoy (2018a, 2019) che tenta di mettere in comunicazione i due autori pro- prio a partire dalla loro comune critica della filosofia. In effetti, secondo il sociologo inglese, le bour- dieusiane Meditazioni pascaliane, sintesi teorica di una riflessione quarantennale, sottolineano come la ragione scolastica, tipicamente filosofica, non riesca a dare conto delle condizioni sociali ed
38 In particolare, il riferimento è a Pierre Macherey che vede nell’incorporazione delle disposizioni l’adozione di una
critica wittgensteiniana al mentalismo che rischia di cadere in un eccesso di corporeismo reintroducendo una separa- zione astratta tra corporeo e mentale (Macherey 2014).
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economiche che producono la postura propriamente teorica fondata sulla divisione del lavoro nei termini di frattura tra lavoro intellettuale e lavoro manuale come osservato da Marx ed Engels. Ciò porta i filosofi, e più in generale gli intellettuali, a scambiare «la guerra delle parole [con la] trasfor- mazione del mondo reale» (Burawoy 2019: 76). Se questo è un assunto comune a Marx e Bourdieu, e se entrambi in qualche modo hanno tentato di allontanarsi dalla pratica della logica per orientarsi verso la logica della pratica, tuttavia, il limite di Marx e del marxismo, secondo Bourdieu consiste- rebbe nell’incapacità da parte di questi ultimi di riuscire a pensare l’effetto teorico generato dalla loro stessa teoria, ovvero la capacità di dare concretezza politica ad una classe sulla carta, com’era la classe operaia, quindi di crearla, mobilitandola, attraverso un’operazione simbolica. Da qui l’illu- sione (idealistica) di un proletariato come soggetto autore di una radicale trasformazione sociale tesa a realizzare il comunismo come comunità mondiale di individui nuovi – in realtà una nuova «inven- zione scolastica» (Ivi: 78) –, quando, più realisticamente, esso tenterà di migliorare le sue condizioni sociali senza per questo mettere in discussione alla radice i processi di valorizzazione del capitale propriamente economico.
In tal senso, Burawoy vede nell’approccio bourdieusiano, in particolare nella sua proposta di suddividere lo spazio sociale in campi che tra loro coesistono, il tentativo di sostituire al marxiano (o forse è meglio dire marxista) materialismo storico, quale intreccio di almeno tre differenti dinamiche storiche39, una teoria più propriamente scientifica a scevra da illusioni idealistiche. Se è opinabile la riduzione dell’opera marxiana a una sorta di inesorabile e fatalistica implosione del capitalismo osta- colato solo dalla resistenza del suo impianto sovrastrutturale, come parrebbe innanzitutto evidenziare il sociologo inglese (che non a caso richiamerà Gramsci per colmare le lacune marxiane), sofferman- dosi sullo sforzo marxiano (dopo le dure sconfitte politiche del 1848) di tratteggiare quella che po- tremmo chiamare la logica profonda del capitale nel Capitale, a sua volta, l’operazione bourdieu- siana di sostituzione della dominazione propriamente economica con la dominazione simbolica (ac- centuando l’aspetto sovrastrutturale rispetto a quello strutturale, se volessimo adottare il lessico tra- dizionalmente marxista) non è meno esposta a cortocircuiti teorici e pratici. In particolare, secondo Burawoy, da un lato, l’idea della costituzione di differenti e tendenzialmente radicati habitus di classe, dall’altro, una sorta di omologia tra i diversi campi (di cui il campo economico sarebbe solo uno di essi, per quanto sempre più capace d’influenzare i restanti), all’interno dei quali diverse forme di capitale diventano lo strumento e al contempo la risorsa da accumulare per assumere posizioni domi- nanti, tendono a indebolire la capacità dei subalterni di mutare lo status quo. Ciò evidenzierebbe,
39 Esse si articolano nei termini della a) storia come successione di modi di produzione; b) storia come dinamica di un
modo di produzione dato; c) storia come storia delle lotte tra classi e come tale come motore del passaggio da un modo di produzione all’altro fino a giungere al comunismo che essendo senza classi e dunque senza forme di sfruttamento non
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insieme alla sottovalutazione delle lotte intersezionali e alla scarsa attenzione bourdieusiana sulla condizione operaia40, uno degli angoli morti della teoria bourdieusiana, secondo gli introduttori dell’edizione francese del testo di Burawoy dedicato alle conversazioni immaginarie con Bourdieu (Carbonell, Koechin, Palheta, Ravelli 2019). In tal senso, la lotta propriamente di classe diventa una lotta di classement (Bourdieu 1973) principalmente interna alle diverse frazioni in cui si articola la classe dominante (ma frazioni della classe dominante, con interessi specifici, non erano certo sfuggite a Marx ed Engels a partire dalla stessa Ideologia tedesca come giustamente suggerisce il sociologo inglese), e lo stesso campo economico risulterebbe privo di quel concetto di sfruttamento del lavoro propriamente marxiano. Non a caso, il principale studio bourdieusiano dedicato al campo economico nei termini di mercato immobiliare teso a incentivare forme d’individualizzazione e di privatizzazione delle unità abitative, non prende mai in considerazione, ad esempio, sottolinea Buroway (Ivi: 81), il processo propriamente produttivo di costruzione degli edifici dal punto di vista operaio.
Di fatto, da un’ottica bourdieusiana, le possibilità di mutamento sociale sono innanzitutto nelle mani della frazione dominata della classe dominante, quella dotata di maggiore capitale culturale, e molto devono alla sua capacità di trasferirlo ad importanti settori delle classi medio-basse sfruttando il disallineamento tra habitus e campo, il cui allineamento di fatto non è mai compiuto. Diventa dun- que dirimente far leva sulle forme d’isteresi che vi si manifestano, in particolar modo quando un tale disallineamento affetta diffusamente e trasversalmente i campi (il Maggio francese è il principale esempio esposto da Bourdieu in Homo academicus). Ne deriverebbe una priorità per gli intellettuali critici orientati dal perseguimento di un autentico universale, in altri termini dell’interesse per il di- sinteresse, concretamente e storicamente emerso nella costruzione e autonomizzazione dei campi ar- tistici nonché giuridici (di cui lo Stato è la principale, per quanto ambivalente, espressione), nel pro- muovere mutamenti sociali, nonché un’efficace resistenza alle ragioni particolaristiche dell’economia come l’ultima fase del pensiero e della pratica scientifica e politica bourdieusiana testimonieranno. Burawoy, come vedremo meglio nell’ultimo capitolo della seconda parte di questo lavoro, vede non poche contraddizioni in un pensiero che tenderebbe a sottovalutare la capacità di auto-emancipazione delle classi popolari anche se al contempo non esista a prendere parte per queste ultime. Il sociologo inglese può dunque concludere che in Bourdieu si assisterebbe ad un ritorno verso la pratica della logica declinata hegelianamente nei termini in cui i sociologi sarebbero in grado di identificare gli aspetti oggettivi, veri, che animano le dinamiche sociali, e dunque nel pretendere che le istituzioni
40 Se è vero che Bourdieu non ha mai fatto del mondo operaio un oggetto di studio centrale ciò non è dovuto, secondo
alcuni ricercatori che hanno lavorato su questo terreno sottolineando una vicinanza con gli strumenti d’indagine bour- dieusiani, a una forma di disinteresse, quanto al fatto che tale ambito fosse già «estremamente “investito” politicamente da parte di sociologi militanti e militanti sociologi», oltre che da autori marxisti, in particolare di tendenza allthusseriana, di cui Bourdieu aveva tutt’altro che una buona opinione (Beaud, Pialoux 2015: 77).
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pubbliche siano all’altezza del loro compito universale formalmente enunciato.
Agli interrogativi aperti e alle stimolanti letture operate da Karsenti e Burawoy che ci pare vadano oltre il rapporto Marx/Bourdieu, corrispondono, nondimeno, critiche alquanto tendenziose e decisamente sopravvalutate tese, non di rado, a schiacciare negativamente Bourdieu su Marx o a trat- teggiarlo come il principale referente del neo-marxismo. Una delle posizioni più note e citate nella letteratura è quella di Jeffrey C. Alexander (1995), a sua volta sottoposta ad una puntuale e radicale critica da una prospettiva bourdieusiana (Wacquant 1996, Mauger 2012). Il sociologo statunitense, partendo da posizioni che si dicono neo-funzionaliste, tenta di sottoporre ad una critica radicale l’ap- proccio bourdieusiano inquadrandolo immediatamente come interno allo sforzo – comune al marxi- smo culturalista inglese che ha animato e influenzato i Cultural Studies – di costruire «un neo-mar- xismo delle sovrastrutture» (Ivi: 129). Nel lungo e «pesante» (Wacquant 1996b) saggio, in cui ri- chiama lavori precedenti, Alexander cerca di mostrare l’inconsistenza e le contraddizioni dell’ap- proccio bourdieusiano, in particolar modo il tentativo di reintrodurre il soggetto in un approccio che tende a criticare il lascito strutturalista e funzionalista – non a caso la prima, apprezzata opera bour- dieusiana, Sociologie de l’Algérie, è letta da Alexander come parte di un approccio struttural-funzio- nalista di matrice inglese (Alexander 1995: 196-197) – e allo stesso tempo di riappropriarsene all’in- terno di una teoria materialista che in quanto tale sarebbe «riduzionistica» e «anti-volontaristica», dunque di per sé negativa. Le principali argomentazioni di Alexander, in sostanza, rinviano all’inca- pacità bourdieusiana di pensare l’azione sociale in termini non deterministici e di considerare la cul- tura come entità effettivamente autonoma (in cui l’autonomia del ricercatore consisterebbe nella ca- pacità/necessità d’interpretare la realtà sociale), aspetti che, in linea di principio, afferma l’autore, né lo strutturalismo né il funzionalismo negherebbero (Ivi: 133). Ne deriverebbe «un’ingannevole critica della teoria culturale» (Ivi: 131-136) che inficia gli stessi risultati empirici della sociologia bourdieu- siana – per cui «l’attività teorica non è separabile dal lavoro scientifico di costruzione di un oggetto concreto» (Wacquant 1996b) diversamente dal funzionalismo parsonsiano – che porta Alexander a collocare la problematica bourdieusiana all’interno di un lacunoso marxismo culturalista in cui, allo stesso tempo, sarebbero accomunati Lukàcs, Marcuse e Althusser (Alexander 1995: 142) e in cui i concetti di strategia (inconscia), habitus, campo e capitale impiegati da Bourdieu tenderebbero a svuotare integralmente l’autenticità delle azioni e delle comunicazioni umane. In tal senso, se ne tralascerebbero i tratti irrazionali ed emozionali, riducendole a epifenomeni di una competizione in- terna ai vari campi a loro volta subordinati alla sfera economico-materialistica, fino a legittimare forme di cinismo sociale (Ivi: 149-164). È evidente che una lettura di questo tipo tende a ridurre il piano oggettivistico-descrittivo di un approccio che si vuole scientifico e riflessivo sul lato valoriale e morale – come ha notato anche Mauger parlando di una critica ad un tempo soggettivista, morale e
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politica (Mauger 2012: 28) –, assunto peraltro come tendenzialmente destoricizzato. Ad ogni modo, ciò avrebbe ripercussioni anche nella sfera più propriamente politica, dato che Bourdieu, a livello teorico, non riuscirebbe – secondo Alexander (e in genere i critici di matrice liberale) – a pensare l’autonomia di una sfera pubblica (e della formazione di un’opinione autenticamente pubblica) con le sue articolazioni necessariamente pluralistiche e trascurerebbe di valorizzare le istituzioni demo- cratico-liberali e il processo di formazione e decisione democratica (a partire dal voto), mentre ten- derebbe a porre in evidenza i processi di dominazione che accomunano società democratiche(liberali) e non-democratiche(illiberali) (come i regimi cosiddetti socialisti dell’Est Europa) senza coglierne i tratti distintivi e irriducibili (Ivi: 187-194).
Come proveremo a (di)mostrare nella seconda parte di questo lavoro, la critica bourdieusiana dei regimi democratico-liberali e anti-democratico-illiberali è in realtà espressa da un punto di vista fortemente democratico non ingenuo, in cui, cioè, assumono rilevanza la produzione di disposizioni e condizioni (materiali e simboliche) per un effettivo e diffuso esercizio di una scelta democratica. Ciò implica che la democrazia non sia semplicemente del tutto compiuta ed è assai più probabile che sia un processo (non lineare) senza fine prima di corrispondere ad un determinato regime storicamente determinato, aspetto che ci pare ancora più chiaro oggi, in tempi di “democrazia del pubblico” (Manin 2010; Girometti 2012a) e di regressione democratica in termini di neo-plebiscitarismo e di esclusione (e auto-esclusione) dal processo democratico di ampi settori delle classi popolari, in cui la stessa configurazione della cittadinanza sul modello dello Stato-nazione (Balibar 2012) coniugata con l’in- tensificazione delle migrazioni si abbatte, seppure diversamente, sui soggetti più deboli (migranti e autoctoni) alimentandone le divisioni. Il continuo rinvio di Alexander ad un neo-marxismo di Bour- dieu – assai eterogeneo e antitetico nei suoi riferimenti – trova anche un inquadramento cronologico in un’appendice dedicata alla formazione ed evoluzione intellettuale bourdieusiana (Alexander 1995: 195-200). In essa, con riferimenti bibliografici quanto meno carenti e prevalentemente orientati a supportare le proprie tesi (Boltanski, Thévenot 1991; Honneth 1986; Caillé 20052; Lasa 1992; Ferry, Renaut 1990) oltre che con una discreta dose di arbitrarietà, si afferma che dopo la redazione di So- ciologie de l’Algérie si consolida progressivamente una fase in cui il sociologo francese subirebbe una marcata influenza sartriana, evidenziata da un comune lessico, fino a giungere a pensare nei ter- mini di un marxismo «quasi-althusseriano»41 che perdurerebbe fino alla redazione dell’Esquisse
41 Come si possano effettivamente tenere insieme influenze così antitetiche, tra chi sottolinea il carattere libero e tragico
del soggetto come l’umanismo di Sartre e l’anti-umanismo teorico althusseriano, che non nega la soggettività come comunemente si afferma (ed è avvalorato dallo stesso Bourdieu), bensì la colloca nei processi di produzione materiale e ideologica che la interpellano e la sovra-determinano, è alquanto misterioso. D’altronde, sotto questo aspetto Wac- quant è ben più drastico quando sottolinea «la retorica del risentimento» che animerebbe Alexander e «la stupefacente ignoranza della logica interna e del contesto intellettuale in cui si è sviluppata l’opera di Bourdieu» (Wacquant 1996b: 83).
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d’une théorie de la pratique (Ivi: 196-197). Nelle fasi successive si assisterebbe al tentativo bour- dieusiano di costruire una teoria originale della società incentrata sull’enfatizzazione dei concetti di pratica, campo, habitus, corpo, rimanendo, tuttavia, niente più che «una variante del neo-marxismo» (Ivi: 199).
Se non c’è dubbio che Bourdieu assuma alcuni tratti della riflessione marxiana (più che mar- xista), in particolar modo la concezione agonistica e relazionale (quest’ultima comune anche a Dur- kheim) della società e l’idea che non esista una natura umana che non sia storicamente prodotta e dunque rinviabile ai rapporti sociali, allo stesso tempo, come abbiamo già segnalato, ciò è funzionale alla produzione di una sociologia come scienza sociale in cui , nondimeno, sono combinati pragma- ticamente gli approcci necessariamente parziali di autori diversi. Ciò, come ricorda Mauger (2012), ha permesso a Bourdieu, ad esempio, di pensare Weber con Marx consentendo di portare il pensiero materialista su terreni che il materialismo marxista non avrebbe visto lasciando invece spazio allo spiritualismo (Bourdieu 2005a: 33), così come di pensare il concetto di campo con e contro Weber in un percorso teorico e pratico in cui, complessivamente, il sociologo francese ha cercato di non rimanere imbrigliato nel gioco delle classificazioni accademiche e di oltrepassare «le false antinomie e le false divisioni» (Mauger 2012: 33-33). In generale, come ha osservato Wacquant
sapere se Bourdieu è marxista o meno è l’archetipo della questione scolastica sottomessa alla logica del processo e non all’imperativo della carità interpretativa che governa ogni scambio intellettuale degno di nota (Wacquant 1996b: 85).
Inoltre, se ogni serio tentativo di promuovere una proposta teorica complessa e articolata implica necessariamente di attingere da correnti scientifiche e filosofiche eterogenee già sedimentate nel pas- sato, la stessa definizione di marxista, che sia in termini dispregiativi o meno, «serve troppo spesso a