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Un intellettuale critico nel campo politico

pitale politico

6. L’ultima fase dell’impegno sociologico e politico bourdieusiano: la lotta contro il neoli berismo e la costituzione di un movimento sociale europeo 124

6.1 Un intellettuale critico nel campo politico

La sociologia politica bourdieusiana può essere definita come una forma di politica della socio- logia. Ovvero, come ha sottolineato David L. Swartz (2013: 154), in Bourdieu le azioni che conno- tano una ricerca sono anche azioni politiche da cui segue un necessario intreccio tra scienza e politica in cui la conoscenza è concepita in termini performativi e non solo descrittivi. Ciò è all’origine del programma bourdieusiano di analisi e demistificazione del potere simbolico, in quanto elemento es- senziale per il consolidamento dell’ordine sociale (e dunque aspetto su cui poter agire per trasfor- marlo), ed è diventato sempre più esplicito nei decenni successivi, in particolar modo a partire dagli anni Novanta, frangente temporale in cui il sociologo francese intravede all’opera una regressione politica, sociale e intellettuale sia in Francia che in ambito sovranazionale. Sulla base del capitale simbolico acquisto nel campo accademico, nonostante le posizioni a dir poco dissonanti giocatevi all’interno con il tentativo di oggettivare la sua stessa posizione (Bourdieu 2013a), l’impegno diretto del sociologo francese nel campo politico diventa sempre più irrinunciabile, e diventa visibile come mai prima a partire dal sostegno agli scioperi del 1995 contro la riforma della Société Nationale des Chemins de fer Français e della Sécurité sociale che lo porterà a pronunciare un celebre discorso – Contro la distruzione di una civiltà (Bourdieu 1999: 37-40) – a La Gare de Lyon di Parigi.

Allo stesso tempo, non si riuscirebbero ad interpretare in modo corretto i mutamenti intercorsi nelle prese di posizione sempre più esplicitamente politiche del sociologo francese se non ci si foca- lizzasse anche su un’evoluzione bourdieusiana in merito al rapporto con le classi popolari che si può leggere in un’opera come la La Misère du monde. In essa – concordiamo con le riflessioni di Micheal Burawoy (2018b: 77) almeno in parte polemiche verso una recente lettura quantomeno riduttivistica di Bourdieu (Riley 2017) – il sociologo francese e i suoi colleghi «si costituiscono come un intellet- tuale organico [corsivo mio] in stretta connessione» con i soggetti dominati più disparati (dagli operai ai piccoli commercianti, dai lavoratori nell’ambito sociale agli immigrati ecc.). In questo testo, non- dimeno, assistiamo alla messa in opera di una modalità d’interazione tra intervistatore e intervistato (che abbiamo tentato, per quanto possibile, di utilizzare su un altro fronte nell’ultimo capitolo di questo lavoro) in cui la disposizione socratico-maieutica del primo consente al secondo di diventare

124 In questo capitolo ho ripreso e ampiamente rimaneggiato un paper – Per un nuovo movimento sociale europeo:

un’utopia (ir)razionale? Note sull’ultimo Bourdieu –, presentato al convegno L’identità nelle scienze sociali. Indivi- dui, gruppi, comunità tenutosi presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Perugia nei giorni 20 e

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levatore di verità. Ciò lo renderebbe in grado, dunque, di portare alla luce intuizioni sociologiche sulla propria vita indebolendo i processi di misconoscimento in cui restava preso rendendo pertanto possibile «un lavoro di liberazione» contro la violenza simbolica (Terray 2003: 303).

In quest’ultima fase della riflessione bourdieusiana, seppure sopravvalutando il ruolo giocato dagli intellettuali, si assiste, suggerisce Burawoy, ad uno spostamento più favorevole alle classi do- minate nei termini in cui esse sono presentate da Bourdieu come dotate di una «razionalità [corsivo mio] che corrisponde alla loro soggezione [subjugation], piuttosto che descritti peggiorativamente come accecati da habitus, allodoxia e misconoscimento» (Burawoy 2018b: 78). Tale postura era, pe- raltro, in stretta connessione con la possibilità di valorizzare il ruolo degli intellettuali – o almeno degli intellettuali critici – in quanto portatori d’interessi particolari condensati nel perseguimento dell’universale e dunque nell’obbligo che essi avevano di «parlare a e per tutti» (Ivi: 79). Pertanto, non dovrebbe stupire che una delle ultime battaglie condotte da Pierre Bourdieu, ad un tempo teoriche e politiche, si sia condensata nel contrasto all’egemonia neoliberista che negli ultimi due decenni del Novecento si è affermata e consolidata (anche) in Europa segnandone il processo di unificazione e di costruzione identitaria e simbolica oggi chiaramente in crisi, se volessimo usare un eufemismo.

Tornare su quella congiuntura, collocata tra la seconda metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, che vide Bourdieu impegnato direttamente nel campo politico nazionale ed europeo in quanto scienziato sociale a difesa di conquiste sociali che avvertiva come segno di una civiltà minacciata, nel tentativo di pensare la politica non politicamente (Bourdieu 2005c: 45-74), è forse utile anche a noi, oggi, sempre più smarriti e sprovvisti di un’identità europea riconoscibile. Un’iden- tità che per essere tale dovrebbe nutrirsi di ancoraggi concreti e simbolici non aleatori, di specifiche disposizioni, ovverosia di un habitus, innanzitutto, per utilizzare una terminologia bourdieusiana. E ciò è tanto più vero in un frangente in cui i lasciti di una crisi non solo economica lasciano spazio a involuzioni nei singoli paesi e nel processo di unificazione sovranazionale a rischio di deflagrazione. Pertanto, cercheremo di ridefinire la posizione bourdieusiana, che dalla (ri)costruzione di una socio- logia europea come “pensabile” e “possibile” – come ha opportunamente sottolineato Marc Joly (2018: 25-32) –, ha tratto la sua matrice di fondo a partire dagli anni Sessanta, generando uno scarto rispetto al suo percorso formativo di atipico filosofo normalien, dopo le inchieste etnografiche in Algeria (e Francia) e l’incontro sul campo con la problematica scientifica centrale della sociologia, cioè la questione dei rapporti tra le dinamiche delle strutture sociali e le dinamiche delle strutture mentali.

La congiuntura in cui s’inserivano gli interventi del sociologo francese era segnata dalla re- cente caduta dei sistemi del cosiddetto “socialismo reale”, rispetto ai quali, come vedremo nel pros- simo paragrafo, la posizione bourdieusiana fu sempre di chiara opposizione. Ciò, da un lato, avrebbe

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potuto liberare nuove energie e immaginazione politica per ripensare e valorizzare la specificità del modello europeo, dei suoi aspetti più avanzati, nonché per emanciparlo dall’interessata tutela statu- nitense; dall’altro, la cesura prodottasi nell’ex campo socialista avveniva in un contesto d’indeboli- mento e crisi dell’intervento pubblico-statale in economia (e non solo) orientato verso i soggetti su- balterni, erodendo, così, la forza contrattuale e le condizioni di vita delle classi lavoratrici e popolari.

La delega al mercato della regolazione di settori sempre più ampi della vita tout court, con l’artificiosa costruzione di una “libera” concorrenza su un piano sovranazionale a cui piegare l’azione delle istituzioni comunitarie e nazionali, rappresentava, per il sociologo francese, un netto arretramento qualitativo dello stesso processo di unificazione europea. In essa, infatti, era impressa l’espansione della figura (mitica) dell’homo oeconomicus, inadatta, secondo Bourdieu, per capire la stessa economia in- tesa in senso stretto, in realtà impregnata, anche nelle sue forme più esplicite di économie économique, di elementi propri dello scambio simbolico, che tendono ad occultare e destoricizzare il ruolo svolto dalle strutture sociali nei processi economici. Tutto ciò in un contesto di asimmetrie e disomogeneità tra i vari paesi – oggi ancora più rilevante – a cui l’armonizzazione e il potenziamento di un welfare europeo (Bourdieu 1999: 41-60) – con un richiamo ad un nuovo internazionalismo da contrapporre alla mitica mondializzazione neoliberale (Ivi: 69-76) – avrebbe potuto, invece, fornire una risposta in controtendenza e in cui lo status concesso agli stranieri costituiva già allora il criterio decisivo, lo Shibbolet (Ivi: 27-30), per decidere sulle capacità politiche di un’unione improntata sull’universali- smo contrapposto al conservatorismo xenofobo.

Così, Bourdieu, nel 1996, in un celebre intervento tenuto presso la Confederazione generale dei lavoratori greci, di fronte al «grosso lavoro di persuasione simbolica» (a cui hanno partecipato, in gran parte passivamente, giornalisti e cittadini comuni e, soprattutto, attivamente, «un certo numero di intellettuali») per presentare il mito neoliberista come qualcosa di ineluttabile, sottolineava che era necessario che «i ricercatori [critici] [avessero] un ruolo da svolgere per contrastare questa imposi- zione permanente e insidiosa che, attraverso un meccanismo di impregnazione, dà luogo alla nascita di una vera e propria credenza» (Ivi: 41). Infatti, secondo il sociologo francese, le rivoluzioni (così come le contro-rivoluzioni) non avvengono grazie a singole personalità politiche – ad esempio l’ex premier britannica Margareth Thatcher – ma necessitano di idee e di diffusione e sedimentazione delle medesime (anche se ci preme sottolineare che queste possono difficilmente affermarsi senza un contestuale mutamento strutturale in atto, senza per questo ridursi ad un epifenomeno del primo, in un gioco in cui si confrontano dialetticamente tendenze e contro-tendenze). Pertanto, nell’ottica bour- dieusiana, è da imputare ad un corposo e progressivo lavoro ideologico, che ha rivestito di «raziona- lizzazioni economiche i presupposti più classici del pensiero conservatore», «una separazione radi- cale» tra economia e ambito sociale (Ivi: 42). In tal modo, si è verificata una discontinuità – e non

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poteva che essere così – anche nel lessico quotidiano come il caso francese dimostrava, tanto che, sottolinea Bourdieu, «non si parla più di padronato, ma di “forze vive della nazione”», non si parla più di licenziamenti, ma di dimagrimento» (Ivi: 43). Si trattava, pertanto, di difendersi da «questa doxa» che assumeva come naturale un processo di disinvestimento nello Stato sociale per concen- trarsi sempre più – in particolare negli USA, ma ciò era già evidente anche in Europa – nella sua «funzione poliziesca» (Ivi: 43-44). In tal senso, pur dichiarando che «lo Stato è una realtà ambigua» esso, per Bourdieu, come abbiamo già ampiamente sottolineato nel precedente capitolo, non era (solo) uno strumento al servizio dei dominatori. E se il sociologo francese riteneva ancora possibile una dialettica progressiva al suo interno tra mano destra e mano sinistra del medesimo, con i «settori sociali» (quelli rivolti ai disoccupati di lunga durata, alle situazioni di lacerazione della coesione so- ciale) contrapposti ai «settori finanziari, che vogliono tenere in considerazione solo i vincoli della “globalizzazione” e il posto che la Francia occupa nel mondo» (Ivi: 45), nondimeno, pensava che una difesa efficace e un miglioramento delle condizioni socio-economiche delle classi subalterne passasse dalla costruzione di istituzioni capaci di garantire un welfare europeo.

Di fronte al «mito della mondializzazione» (allora, come ricorda Bourdieu, il 70% degli scambi economici era intra-europeo e il principale pericolo per l’economia europea era dato da un’esasperata concorrenza interna tra paesi con differenti livelli di protezione sociale che invece si trattava di uniformare verso l’alto…), evidentemente indotto da quelle parti della nobiltà di Stato interessate a deregolamentare e privatizzare ampi settori economici all’epoca in mano pubblica (o parzialmente controllati da essa) e dalle frazioni della classe dominante proiettate verso una compe- tizione sovranazionale, si trattava di unire i lavoratori dei diversi paesi per evitare politiche di dum- ping sociale – per quanto difficile fosse. Pertanto, occorreva considerare l’«eccezionale forma d’in- sicurezza [corsivo mio]» (Ivi: 47) e il sentimento di malessere promossi tra i lavoratori manuali e la piccola borghesia dalle politiche neoliberiste in paesi come la Gran Bretagna e gli Usa (aspetti che oggi sono più estesi e politicamente strumentalizzabili innanzitutto contro gli stessi soggetti più sof- ferenti oggetto di una politica di protezione selettiva a favore degli autoctoni rispetto ai semplici residenti non nazionali quando non si tratta di mera retorica elettoralistica). In tal senso, era necessario battersi contro «il deperimento dello Stato» (Ivi: 50) nelle sue funzioni sociali, ma tale difesa non doveva assumere «qualsivoglia forma nazionalistica», tanto che secondo Bourdieu era possibile «lot- tare contro lo Stato nazionale e difendere, al contempo, le funzioni “universali” che esso svolge – con un’evidente inclinazione durkheimiana – e che possono essere svolte altrettanto bene, se non meglio [corsivo mio] da uno Stato sovranazionale» (Ivi: 51). Per questo motivo Bourdieu poneva già allora una domanda ineludibile, almeno per chi intende dare forza ad un programma democratico espansivo:

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non dobbiamo forse lottare per la costruzione di uno Stato sovranazionale, relativamente autonomo rispetto alle forze economiche internazionali e alle forze politiche nazionali, e capace di sviluppare la dimensione sociale delle istituzioni europee? (Ibidem)

E se lo Stato storicamente «si è posto come forza razionalizzatrice al servizio delle forze domi- nanti […], per evitare che le cose vadano in questo modo» si sarebbe dovuto inventare «un nuovo internazionalismo, almeno su scala europea, contro la regressione nazionalistica che, all’ombra della crisi [corsivo mio] – e Bourdieu non avrà modo di vedere la crisi mondiale esplosa nel 2007/8 – minaccia in misura variabile tutti i paesi europei [corsivo mio]» (Ibidem). Esso avrà il compito di promuovere la costruzione di «istituzioni che siano capaci di controllare le forze del mercato finan- ziario [e] d’introdurre su scala europea – i tedeschi usano una parola magnifica – un Regrezionsver- bot, un divieto di regressione rispetto alle conquiste sociali» (Ibidem). Bourdieu, infine, concludeva il suo intervento con un attacco ai troppi intellettuali «ambigui» su tale questione. Essi sembravano «troppo occupati con i loro giochi accademici», chiusi in «una difesa verbale della ragione e del dialogo razionale» o, nella «variante post-moderna», inclini ad accettare «l’ideologia delle fine delle ideologie, con la condanna dei grandi racconti o la denuncia nichilistica della scienza» (Ivi: 54). Pertanto, come mostreremo nell’ultimo paragrafo di questo capitolo, il ruolo degli intellettuali critici e una rinnovata azione sindacale diventavano, secondo Bourdieu, essenziali per promuovere un imprescindibile movimento sociale europeo (Bourdieu 2001b: 15-28). Quanto tale opzione era e rappresenta ancora oggi, in un quadro socio-economico e politico assai mutato, «un’utopia razionale» e dunque una risposta agli approcci tecnocratico-economicistici e populistico-nazionalistici domi- nanti? Ci pare impossibile abbozzare una risposta adeguata, se non altro perché siamo in una fase di profonda incertezza, in cui le evidenze accecanti sembrano deporre più per una disintegrazione che per una ripresa, su nuove basi, del processo di unificazione europea.

Provare a ritornare su quel frangente sarà dunque più utile per continuare ad interrogarci sull’esistenza e la promozione delle condizioni e delle disposizioni necessarie per un autentico pro- gresso dell’universale, in contrapposizione alla perpetuazione della violenza (non solo) simbolica neanche troppo dissimulata nelle forme di uno pseudo-universale aggressivo (Susca 2017: 51-72). Insomma, trovare un varco affinché possa emergere un po’ di possibile – per rubare una battuta a Gilles Deleuze – contro la fatalità del probabile, in una fase in cui alla crisi di legittimazione dell’in- tegrazione neoliberale – di cui la gestione del caso greco è paradigmatica – sembra contrapporsi prin- cipalmente l’irrazionale recupero delle istanze etnocentriche del «pensiero di Stato» improntate su sangue-e-suolo e orientate, ci sembra, in ultima istanza, verso un orizzonte nazional-liberistico che recupera ed attualizza il tratto più eminentemente autoritario del liberalismo (Chamayou 2018) nei confronti di una società ingovernabile, per riprendere una riflessione di matrice foucaultiana. In tal

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senso, è interessante notare come lo stesso Michel Foucault – sul rapporto Bourdieu/Foucault si è tornati di recente a riflettere anche in Italia (Brindisi, Irrera 2017) – focalizzerà la sua attenzione sull’affermazione in fieri del neoliberalismo, in particolare sulle correnti eterogenee e al contempo ritenute complementari (l’ordoliberalismo tedesco e il neoliberalismo americano, in particolare nella versione beckeriana) che lo hanno alimentato, in termini di nuovo regime governamentale correlato con la nascita della biopolitica, dedicandovi alcuni corsi (Foucault 2015), o parte di essi (Foucault 2017), alla fine degli anni Settanta (pur senza ulteriori e necessari approfondimenti). Essi sono risul- tati sintomaticamente in anticipo rispetto alle analisi e all’impegno bourdieusiano, anche se quest’ul- timo è risultato tuttavia più attento ad individuare con maggiore precisione analitica i luoghi e le relazioni in cui fanno presa i dispositivi di potere (Cronin 1996; Susca 2013: 231). Anche di questa sfasatura terremo conto nei successivi paragrafi sulla base delle recenti riflessioni di Christian Laval (2018).

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