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Dalla critica dei “socialismi reali” alla critica del neoliberismo

pitale politico

6. L’ultima fase dell’impegno sociologico e politico bourdieusiano: la lotta contro il neoli berismo e la costituzione di un movimento sociale europeo 124

6.2 Dalla critica dei “socialismi reali” alla critica del neoliberismo

Bourdieu non ha risparmiato critiche radicali né ai “socialismi reali” – a quel che chiamava «so- vietismo» –, né al Partito comunista francese, a cui, diversamente da tanti importanti intellettuali francesi degli anni Sessanta, non aderì mai. In tale scelta vi era sicuramente uno scarto in termini di habitus (Bourdieu 2005d), come rimarcherà in diverse occasioni ironizzando, amaramente, sulla ri- conversione di tanti ex gauchisti in alfieri del neoliberismo, intravedendovi una sorta di euforica po- stura neo-dogmatica mantenuta e riproposta sul versante opposto. Tuttavia, l’irriducibilità a Marx e ai marxismi, con i quali si dispiegò, come abbiamo tentato di mostrare nella prima parte di questo lavoro, un rapporto quanto meno sfaccettato, non impedì a Bourdieu di promuovere una solida e originale posizione politicamente critica e di sinistra in cui il rigore scientifico – impresso nella ne- cessità di conquistare un’autonomia delle scienze sociali in quanto scienze e in tal senso partendo dalla necessaria articolazione delle teorie di Marx, Durkheim e Weber per tentare di superarle – non venisse meno; in cui, pertanto, autonomia e impegno non risultassero dicotomici, bensì coessenziali come sempre più esplicitamente attesteranno gli interventi bourdieusiani diretti nella sfera pubblica (Bourdieu 2002b). In tal senso, ai fiancheggiatori occidentali, più o meno critici, delle “democrazie popolari” ricorderà, in un’intervista rilasciata a Liberation nel 1981, in occasione della radicalizza- zione della politica repressiva e antisindacale polacca operata da Wojciech Witold Jaruzelski, la ne- cessità di riscoprire la tradizione libertaria di sinistra (Bourdieu 2002b: 165-169).

In quella occasione Bourdieu fu tra i firmatari (insieme, tra gli altri, a Michel Foucault) di un appello molto critico nei confronti della realpolitik del governo francese a guida socialista. In esso si denunciava l’impossibilità di considerare come semplice «affare interno» di un singolo Stato

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l’instaurazione di una dittatura militare con tanto di proclamazione della legge marziale in evidente contrasto con «gli obblighi della morale internazionale» (Ivi: 164). Inoltre, nell’intervista a Libera- tion, il sociologo francese sottolineava come il Pcf avesse sottostimato il potere che aveva per pro- muovere una politica di pace all’interno della Polonia (a dispetto delle posizioni assai più chiare del segretario del Pci Enrico Berlinguer, come osservava lo stesso Bourdieu), e come le posizioni degli intellettuali comunisti non riuscissero a riconoscere e ad opporsi a una dittatura militare così come avevano fatto con quella cilena di Pinochet.

In generale, Bourdieu, indagando fin dagli anni Sessanta i “socialismi” dell’Est, seppure nel campo più strettamente educativo, e rilevandone le distanze tra proclamazioni egualitarie e politiche effettive (Bourdieu, Passeron 1967), concentrerà la sua critica sul feticismo – in senso marxiano – della delega e sull’alienazione politica potenzialmente impressa nella forma-partito riscontrando un’estremizzazione di tale logica nei regimi dei Partiti-Stato (da cui le democrazie pluripartitiche si distinguevano per una differenza di grado). Ciò portava il sociologo francese ad evocare, in un inter- vento intitolato Monopolio politico e rivoluzioni simboliche del 1990 (Bourdieu 2005c: 93-101), Tommaso d’Aquino per descrivere come «il popolo aliena la sua autorità in origine sovrana a favore del partito plenipotenziario […] che sa e fa, meglio del popolo, ciò che è buono per il popolo» (Ivi: 94-95). Ne derivava che il sistema sovietico, «per una sorta di falso in scrittura sociologica, può as- sorbire la “società civile” nello Stato, i dominati nei dominanti, realizzando, sotto forma di una ditta- tura vera travestita in dittatura del proletariato, il sogno di una borghesia senza proletariato che Marx additava alla borghesia del suo tempo» (Ivi: 95). Si attuava, pertanto, «un monopolio della manipo- lazione legittima del discorso e dell’azione politica» e dunque una forma di assolutismo, più che di totalitarismo (Ivi: 93-94). Esso era la risultante di due forme di legittimazione convergenti – scienti- ficità e rappresentatività – in cui il marxismo (o sarebbe meglio dire il canonico marxismo-leninismo), «in quanto scienza assoluta del mondo sociale, dona[va] a coloro che ne erano i custodi e i garanti statutari il potere di situarsi da un punto di vista assoluto che [era], al tempo stesso, il punto di vista della scienza e il punto di vista del proletariato» (Ivi: 94), assicurando, dunque, alle burocrazie parti- tiche e agli intellettuali organici, il potere epistemico-simbolico della scienza e politico-democratico del proletariato in quanto classe universale. In altri termini, ne scaturiva una sorta di «populismo scientista» (Ibidem) che aveva svuotato la carica utopica di una filosofia sociale votata all’emancipa- zione e ne aveva eroso la funzione critica come testimoniavano ampiamente, agli occhi di Bourdieu, gli intellettuali “organici” o d’apparato. Rispetto ad essi, il sociologo francese sottolineava come «l’intellettuale autentico è colui il quale è in grado di instaurare una collaborazione nella separa- zione», nella consapevolezza che, lontano dalle esibizioni giornalistiche, «deve solo a sé e alle sue opere […] un’autorità propriamente intellettuale e una competenza di cui si avvale per intervenire,

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come autore, a suo rischio e pericolo, nella politica» (e Bourdieu non a caso richiamava le figure di Chomsky e Sakharov) (Ivi: 99). In tali formazioni sociali, in cui la differenziazione dettata dal capitale economico risultava per lo meno attenuata dalla statizzazione dei mezzi di produzione, Bourdieu, in una conferenza su La variante “sovietica” e il capitale politico (Bourdieu 20092: 27-31) tenuta a Berlino Est il 25 ottobre 1989 (dunque a ridosso della caduta del Muro), ipotizzava che il principio di divisione sociale, capace di assicurare un accesso diseguale alle risorse, passasse in prima istanza dal capitale politico, quale forma specifica di capitale sociale la cui accumulazione in termini di «ap- propriazione privata di beni e servizi pubblici» – visibile anche tra «”l’élite” socialdemocratica» scan- dinava capace di costruire delle «vere e proprie dinastie politiche» (Ivi: 29) –, aveva raggiunto un limite estremo.

La crisi di quei sistemi, di cui il sociologo francese vedeva come principali antagonisti i de- tentori di un capitale scolastico e culturale non riconosciuto dalla «nomenklatura politica», e la caduta del Muro di Berlino, lasciavano aperta l’ipotesi di orientare un mutamento in cui gli intellettuali che sognavano un «vero socialismo» fossero in grado di stringere un’alleanza con i dominati (principal- mente lavoratori manuali) e i ceti impiegatizi pubblici, pur nella consapevolezza che «l’”effetto di- mostrativo”» esercitato dal «capitalismo comune» poneva questi ultimi nelle condizioni di non rifiu- tare facilmente «le soddisfazioni immediate» rispetto alla realtà di «un welfare state di terz’ordine» (Ivi: 30-31). Si sarebbe potuto così saldare un movimento che levandosi ad Est avrebbe potuto ri- guardare l’intero spazio europeo sfuggendo alla falsa alternativa tra il conservatorismo neoliberale in ascesa e le rovine dell’ex impero sovietico.

Sotto questo aspetto, è interessante sottolineare la critica di matrice neomarxista promossa da Michael Burawoy (2015) all’approccio bourdieusiano in tema di mutamento sociale. Il sociologo inglese, rileggendo i concetti, rispettivamente gramsciani e bourdieusiani, di egemonia e di domina- zione simbolica ha posto in risalto i limiti di entrambi nella loro capacità di render conto dei processi di sfruttamento, costituzione, riproduzione nonché di rottura di un determinato ordine sociale. Se l’egemonia gramsciana rinvia ad un consenso dei lavoratori che nasce nella fabbrica, senza che sia meramente estorto da parte dei capitalisti e senza far intervenire una frattura tra attività cosciente e incosciente, e trova la sua articolazione nel rapporto Stato-società civile, anche se allo stesso tempo la posizione occupata dai lavoratori nel processo di produzione – in particolare dagli operai della grande fabbrica – ne fa potenzialmente un soggetto rivoluzionario a stretto contatto con gli intellet- tuali organici alla classe (da qui la concezione del partito comunista come nuovo Principe riprendendo la riflessione di Machiavelli), la dominazione simbolica rinvia, secondo l’interpretazione di Burawoy, ad un misconoscimento dei rapporti di potere che pervade ogni formazione sociale in quanto risultante di un habitus incorporato e tendenzialmente stabile. Quest’ultimo porta i subalterni a non riconoscere

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l’oggettivo processo di spoliazione a cui sono sottoposti e, in particolare, spinge i lavoratori salariati ad interpretare soggettivamente come un gioco il processo lavorativo in cui sono sfruttati depoten- ziandone la capacità di sovvertimento del medesimo. Burawoy, a differenza di Gramsci, non crede che vi sia una tendenza cosciente dei lavoratori a collaborare con i capitalisti ed accetta quella che Bourdieu nelle Méditations Pascaliennes (Bourdieu 1998a: 201-216), rielaborando un precedente la- voro, chiama la doppia verità del lavoro (con un richiamo esplicito, assai raro nelle sue pagine, alla teoria marxiana dello sfruttamento del lavoro). In particolare, come già anticipato, il riferimento è all’idea di gioco (ad esempio la sfida a produrre il maggior numero di pezzi nel minore tempo possi- bile come attestazione di un’abilità) in cui sono soggettivamente presi i lavoratori.

Tuttavia, Burawoy, sulla base di alcuni suoi studi sul campo condotti in fabbriche statunitensi e di paesi dominati dal “socialismo di Stato” negli anni Ottanta (Burawoy 1985), giunge alla conclu- sione che nei primi si può pensare che siano effettivamente all’opera dei processi di misconoscimento ma nei termini di una mistificazione operata da apparati istituzionali propri delle società capitalisti- che, senza dunque ricorrere all’esistenza di una dominazione simbolica semi-eternizzata e di un cor- relativo habitus profondamente ancorato (nozione che il sociologo inglese ritiene non scientifica in quanto non osservabile se non ex post e pertanto tautologica) tra gli agenti sociali. Al contempo, nei paesi all’epoca “socialisti” era proprio la trasparente discrepanza tra ciò che il potere incarnato dai Partiti-Stato enunciava – il surplus prodotto, l’equivalente del plus-valore, veniva accentrato per es- sere redistribuito in modo socialista, dunque per il bene di tutti – e ciò che i lavoratovi vedevano – un’articolazione della società in cui le classi continuavano ad esistere, un processo di produzione (non solo di distribuzione) diretto dall’alto e un aumento della penuria di beni – che spiegava la debolezza di quei sistemi e le continue rivolte operaie, paradossalmente più forti (e oggettivamente marxiane) ad Est che ad Ovest. In tal senso, si pensi solo al radicamento e alla forza esercitata da Solidarność come ha osservato da un’altra prospettiva anche Giovanni Arrighi (2010: 103-105; Girometti 2011). I mutamenti e lo sgretolarsi del consenso nei confronti dei regimi realsocialisti erano dunque insiti nei rapporti di produzione (piuttosto che dovuti ad una diseguale dotazione di capitale politico monopolizzato da un’unica organizzazione politica) e, in tali formazioni sociali, non vi era all’opera alcuna dominazione simbolica (almeno come dispositivo principale) che, tra l’altro, avrebbe dovuto palesarsi in forme assai più robuste in società che era legittimo attendersi che fossero capaci di pla- smare con meno resistenze le identità sociali. Burawoy può pertanto sottolineare che se «l’egemonia non è solo una questione di consenso», la precarietà del “socialismo di Stato”, rendendo più traspa- renti i processi di sfruttamento, ha consentito agli stessi intellettuali di avere «più margini di manovra per impegnarsi a fianco dei lavoratori ed elaborare “egemonie” alternative dal basso [corsivo

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mio]»125, costruendo vere e proprie «contro-egemonie» che, per quanto sconfitte, hanno messo in campo degli «embrioni di ordini socialisti alternativi» che minano la fondatezza dell’«interiorizza- zione profonda delle strutture sociali» (Burawoy 2015: 363) ricavabile dalla sociologia bourdieusiana (profondamente simile, in questo, a quella parsonsiana secondo Burawoy).

In realtà, la critica di Burawoy (forse in parte ridimensionata dalle sue ultime riflessioni che abbiamo ripreso nel precedente paragrafo) ci pare che sia più complementare che contrapposta alle posizioni di Bourdieu. A quest’ultimo, come abbiamo segnalato sopra, non è certo sfuggita la neces- sità di mettere in campo un’alleanza tra intellettuali critici e classi lavoratrici orientata verso la ricerca di un possibile socialismo democratico – assai più difficile da praticare dopo la disfatta e il consoli- damento dell’immagine del “socialismo reale” in quanto autentica forma di socialismo, come lo stesso Burawoy sottolinea – e ciò senza che i concetti di habitus126, che in realtà designa niente più che una forma di libertà vincolata (Sapiro 2010), e dominazione simbolica rappresentassero un ostacolo teo- rico e politico così insormontabile. Essi, se tendono a lasciare troppo ai margini la dialettica marxiana tra modo di produzione e rapporti sociali di produzione, semmai, nella loro duttilità più che inscalfi- bile rigidità, risultavano necessari per non cedere ad illusorie pratiche meramente volontaristiche (im- prontate sulle filosofie soggettiviste) o, al contrario, ad approcci meccanicistici, ponendo in rilevo come

l’autonomia relativa dell’ordine simbolico, in ogni circostanza e soprattutto nei momenti in cui si ha uno scollamento tra le speranze e le opportunità, può lasciare un margine di libertà [corsivo mio] a un’azione politica volta a riaprire lo spazio dei possibili(Bourdieu 1998a: 246).

D’altra parte, in società i cui regimi politici (tranne la Russia sovietica la cui classe operaia, tra l’altro, non risulterà un soggetto collettivo particolarmente attivo contro il Partito-Stato), erano in gran parte il prodotto geopolitico della divisone del mondo in blocchi d’influenza (per utilizzare un linguaggio eufemizzato) più che il risultato di un processo rivoluzionario, la contestazione di tali sistemi non passava solo e semplicemente dalla richiesta di una democratizzazione dei socialismi di Stato in nome di un socialismo democratico. Infatti, la sedimentazione di altre credenze e disposizioni non in linea con la retorica socialista internazionalista è emersa fin troppo evidentemente nel riaffio- rare di posizioni conservatrici e nazionalistiche (oggi ancora più marcate), così come attraverso la capacità delle vecchie e nuove élites di adattarsi ai mutamenti intercorsi (Eyal, Szelényi, Townsley

125 Burawoy cita come esempi i consigli operai ungheresi del 1956, i primi tempi del Sessantotto praghese, i movimenti

polacchi di Solidarność del 1980-81, il socialismo di mercato in occasione delle riforme degli anni Ottanta in Ungheria, l’effervescenza della società civile sovietica durante gli anni della Perestrojka.

126 Sul concetto di habitus gioverà ricordare come Bourdieu smentisse categoricamente il suo carattere monolitico, im-

mutabile e fatale ricordando che «il grado in cui un habitus è sistematico (o, al contrario, diviso, contraddittorio), costante (oppure fluttuante e variabile) dipende dalle condizioni sociali della sua formazione e del suo esercizio, e che quindi può

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1998), nonché di guidarli, grazie all’egemonia neoliberale in espansione.

Pertanto, nelle posizioni di Bourdieu ci pare che vi fosse il richiamo, a veder bene davvero utopico, ad una politica della verità incentrata su un intellettuale collettivo che valorizzasse l’auto- nomia dello status di ricercatore senza negare l’intrinseca politicità del sapere a partire da un pro- gramma negativo – «Ni Staline ni Thatcher» – significativamente esposta in un’autentica rivista eu- ropea come Liber (Bourdieu 1989b), la cui nascita, nel 1989, era stata promossa dallo stesso Bour- dieu. Al contempo, la tendenziale riconversione in senso social-liberale delle socialdemocrazie occi- dentali porterà il sociologo francese ad approfondire le sue critiche sul versante neoliberale, in cui intravedeva una sorta di nuova postura tanto dogmatica quanto lo era stata quella di troppi intellettuali fiancheggiatori (o critici troppo tiepidi) dei socialismi di Stato. Lo farà sulla base di ricerche empiri- che di ampio respiro come La Noblesse d’État e – per i più critici – la controversa e già richiamata più volte Misère du monde o ancora su una vasta inchiesta riguardante il mercato immobiliare in Francia che, come abbiamo già detto, troverà una sistematizzazione teorica ne Les structures sociales de l’économie. Ciò che emerge da queste ricerche è un mutamento della forma di dominio, in primis simbolica e politica, e in tal senso una sua netta involuzione: dalla tendenziale centralità del capitale culturale e della regolazione statale (in cui era emersa una “mano sinistra”, sociale e redistributiva, in lotta contro la conservatrice “mano destra”), all’espansione della logica economicistica e della corre- lativa “mano destra” dello Stato. Una «rivoluzione conservatrice» (Bourdieu 2002b: 349-355) operata all’interno dello Stato dalle nuove élites, e non, secondo Bourdieu che si confrontava direttamente con il caso francese, una mera azione dovuta all’espansione di un generico e imperialistico mercato globale come potrebbe a volte emergere dai suoi stessi scritti più militanti (Bourdieu 1999: 107-114) e dalla costituzione di una necessaria «contro-doxa» anti-neoliberale che alimenterà le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra altermondialista (Laval 2018: 152-155).

In questi termini, come ha sottolineato Christian Laval rileggendo insieme Bourdieu e Fou- cault, se per quest’ultimo il neoliberalismo che inizia a prendere forma a partire dagli anni Settanta è il sintomo di una crisi dell’arte di governare gli uomini e allo stesso un tentativo di risposta (da prendere sul serio nelle sue elaborazioni) che preme verso un «governo economico degli uomini» (Ivi: 31) in cui i poteri127 spingono gli individui ad agire in termini di interessi e calcoli utilitaristici, più che attraverso forme d’interdizione e repressione manifeste, per il primo il neoliberalismo si pre- senta come «il principio teorico e dossico di una nuova forma di azione dello Stato che non è più solo orientata verso il mantenimento dell’ordine pubblico su un territorio e l’unificazione di un mercato

127 Foucault non si riferisce solo allo Stato, dato che le pratiche statizzanti possono incarnarsi anche all’esterno sperimen-

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nazionale, ma verso la costruzione [corsivo mio] di un mercato mondiale e la partecipazione attiva attraverso la concorrenza che esso impone» (Ivi: 142).

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