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Democrazia del pubblico e opinione pubblica

pitale politico

4. Critica dei doxosofi, democrazia del pubblico, odio per la democrazia Bourdieu tra cri tica della doxa democratica ed emancipazione

4.2 Democrazia del pubblico e opinione pubblica

Come leggere la posizione di Bourdieu dopo l’avvento e il consolidamento della democrazia del pubblico, cioè dopo la metamorfosi che ha interessato il governo rappresentativo (Manin 2010: 216-260)? Ci pare utile porre in relazione le tesi del sociologo francese con l’approccio di Bernard Manin che legge i fenomeni della crisi della rappresentanza e della democrazia assumendo come punto d’osservazione i mutamenti e le costanti che informerebbero il sistema rappresentativo. Utiliz- zando una schematizzazione idealtipica – dal “parlamentarismo liberale” alla “democrazia dei partiti” sino all’attuale “democrazia del pubblico” – il politologo francese sostiene che i quattro principi su cui si regge un governo rappresentativo – indipendenza relativa degli eletti, elezioni a intervalli rego- lari, libertà dell’opinione pubblica (interpretata nel modo classico, come insieme di orientamenti pre- senti e di volta in volta egemoni in seno alla società civile sino a quanto emerge dall’opinione resti- tuita dai sondaggi, e dunque non problematizzata nei termini bourdieusiani), sottomissione delle de- cisioni pubbliche alla prova del dibattito –, pur subendo delle evidenti trasformazioni, «non hanno mai smesso di essere validi» (Ivi: 219). Da questo punto di vista, il “parlamentarismo liberale” ha posto in evidenza il carattere di fiducia, in buona misura prepolitico, del rapporto rappresentanti- rappresentati: è la personalità degli eletti che “ispira fiducia” in una condizione di prossimità sociale e territoriale, di condivisione geografica e di “interessi”. È per questo che gli elettori li scelgono. Per cui «le elezioni selezionano un particolare tipo di élite: i notabili» (Ivi: 225-226). Ogni eletto si espri- merà in base alle proprie convinzioni. Infatti, non essendo tanto il portavoce degli elettori quanto il loro “fiduciario”, egli non doveva attuare un programma precedentemente concordato, tantomeno

97 Bourdieu forse sottovaluta troppo le riflessioni più alte delle correnti d’ispirazione liberal-democratica, a dire il vero

presenti sotto altre forme anche nelle tesi marxiste più eterodosse e libertarie (Luxemburg 2017: 71), per cui il carattere distintivo di un processo democratico sta innanzitutto nel libero dissenso prima che nel libero assenso (Ferrajoli 2013).

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all’interno di un partito. La stessa libertà dell’opinione pubblica registrava una forte divergenza ri- spetto alla dinamica elettorale: il carattere trasversale di alcune issues rispetto alla di per sé “debole” dialettica partitica e, soprattutto, il prevalere di un rapporto fiduciario tra rappresentanti e rappresen- tati induceva una politicizzazione necessariamente esterna al parlamento che doveva servire da sti- molo e controllo rispetto all’operato del governo e che tuttavia poteva sfociare in fenomeni di disor- dine pubblico e veri e propri rivolgimenti.

Per quanto concerne la prova della discussione, il parlamentarismo ne incarna in qualche modo l’archetipo: l’indipendenza degli eletti dagli elettori garantiva che le posizioni di volta in volta assunte fossero il risultato di uno scambio di argomentazioni su cui venivano a formarsi maggioranze e minoranze, tanto che Manin può chiosare: «la libertà del rappresentante eletto si può scorgere nel fatto che le partizioni e i raggruppamenti cambiavano in continuazione» (Ivi: 229).

La democrazia dei partiti, a sua volta, pone in risalto la rottura con i legami fiduciari tra eletti ed elettori, incorsi anche in seguito all’allargamento del suffragio. I rappresentanti sono tali in quanto appartenenti ad un partito portatore di un determinato programma. L’erosione della risorsa notabi- liare ed il tendenziale avvicinamento tra eletti ed elettori, dovuto all’affermazione dei partiti di massa articolati prioritariamente sul cleavage di classe, tuttavia, pur evidenziando innegabili aspetti di mo- bilità sociale, secondo Manin, che recupera (come Bourdieu) l’analisi michelsiana sull’incolmabile distanza che verrebbe ad imporsi tra dirigenti e base in seno ai partiti di orientamento socialdemocra- tico – la comune provenienza di classe è annullata dall’affermarsi di un principio di vita piccolo- borghese tra i dirigenti – mette in rilevo, da un lato, il ricambio del tipo di élite al potere, dall’altro, le risorse necessarie per accedervi, ovvero «l’attivismo e le capacità organizzative» (Ivi: 230). In sintesi, l’influenza dei fattori economici (a ben vedere letta in termini sin troppo semplici), che im- pongono che «le contrapposizioni elettorali riflett[a]no le divisioni fra classi», particolarmente rile- vante «nei paesi in cui uno dei partiti maggiori è stato […] considerato come l’espressione della classe lavoratrice» (Ivi: 232), stabilizzando tendenzialmente le preferenze elettorali, inducono una selezione dei rappresentanti interna ai partiti. Legittimata ex post tramite le elezioni. L’esito era la configura- zione della democrazia come «governo dell’attivista e del burocrate» (Ivi: 231), mentre per quanto concerne la natura del pluralismo – elemento imprescindibile del sistema rappresentativo –, esso ve- niva rimodulato nella trasposizione elettorale di un conflitto sociale permanente segnato da tratti iden- titari. La centralità dei programmi e la socializzazione operata dall’organizzazione partitica tuttavia, secondo Manin, non sono gli elementi essenziali per la scelta degli eletti. Essi si limitano a mobilitare l’entusiasmo dei sostenitori. Sono l’aspetto propagandistico, da un lato, e l’appartenenza ad una parte, dall’altro, con i relativi processi di identificazione, ad alimentare il rapporto fiduciario. Quest’ultimo, condensato nelle elezioni, non scomparirebbe ma investirebbe un nuovo oggetto: non

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più una persona, bensì un partito.

Rispetto al rapporto rappresentanti-rappresentati, continua a permanere una parziale autono- mia dei primi, seppure con slittamenti all’interno della struttura istituzionale e secondo una logica performativa mutata. Se all’interno dei partiti di massa, in particolare di orientamento socialista, l’eletto in parlamento diventa, secondo la formulazione kautskyana, «un delegato del suo partito», la cui autonomia è rimessa alle strategie dell’organizzazione d’appartenenza, il decision making si spo- sta all’interno della dirigenza partitica che avrà il compito di dire quanta e quale parte del programma può essere attuata. Perché il presupposto da cui muove la democrazia dei partiti – ricorda Manin riferendosi ad Hans Kelsen (1981) – è la necessità di giungere ad un compromesso deliberato tra identità altrimenti inconciliabili e potenzialmente negatrici l’una dell’altra. Da ciò segue che il mar- gine di autonomia riconosciuto ai partiti corrisponde alla «libertà di non implementare tutti i loro piani una volta che sono in carica» (Manin 2010: 237). Sono i dirigenti di questi ultimi (di concerto con la rappresentanza parlamentare quando i ruoli non si sovrappongono) a definire “la misura” in cui il programma verrà attuato.

La democrazia dei partiti, in questo senso, per Manin, non è dunque un governo indiretto del popolo, pur non essendo contemplata un’indipendenza parziale dei singoli rappresentanti che l’assi- mili alla logica notabiliare. In questa particolare configurazione democratica si assiste, invece, ad una sovrapposizione tra schieramenti elettorali ed espressione dell’opinione pubblica. Non sembra esserci alcun resto significativo: l’azione dell’opinione pubblica è mediata dai partiti. Facendo propria la classica posizione di Moisey Ostrogorsky (1903) sui partiti di massa interpretati come “partiti inte- grali”, per Manin non c’è più alcuna differenziazione di scopi tra l’elezione dei rappresentanti e l’espressione dell’opinione pubblica. Ciò che rimane immutato è il diverso status costituzionale. In altri termini, «i cittadini comuni non possono parlare in prima persona» (Manin 2010: 240), ma pos- sono manifestare il proprio dissenso nei confronti dei governanti attraverso i partiti d’opposizione. Sono questi ultimi a non essere “controllati”. Se ne desume che «la libertà d’opinione assume la forma della libertà di opposizione» (Ibidem). Un’ulteriore conseguenza del modello in oggetto evidenzia che la discussione si condenserà negli scambi intra-partitici, in primis extraparlamentari. Non si vo- terà «alla luce delle argomentazioni scambiate in parlamento» (Ivi: 241). La deliberazione avviene prima ed altrove. In parlamento ogni partito discuterà quale linea collettiva tenere. Di più: se le ele- zioni in questo contesto servono a verificare/riflettere i rapporti di forza nella società, il compromesso tra le parti in conflitto – indefinibile ex ante – sarà il risultato di una negoziazione tra i partiti. In questo ambito, per Manin, la discussione ha un ruolo non marginale. Essa può anche essere istituzio- nalizzata generando un sistema di consultazione – il cosiddetto neocorporativismo – in cui conven- gono realtà organizzate come sindacati e associazioni datoriali.

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In definitiva, ciò che sarebbe entrato effettivamente in crisi è il tipo di rappresentanza imper- niata sui partiti di massa: il processo di avvicinamento – dunque di relativa somiglianza – tra rappre- sentanti e rappresentati, mediato dai partiti, che era stato assunto come un progresso irreversibile «verso la democrazia» (Ivi: 218). Diversamente, la democrazia del pubblico metterebbe in scena l’erosione della fedeltà elettorale disgiunta dalle condizioni sociali, economiche e culturali; al variare della prima non corrisponde una mutazione del retroterra socioeconomico e culturale dei votanti. In questo mutamento di scenario, per Manin torna (modificata) la centralità dell’elemento personale nella selezione dei rappresentanti. Sono i tratti della personalità – di una personalità mediatizzata – in particolar modo dei leaders, a determinare le opzioni elettorali, amplificata a dismisura dai nuovi media. Cambia dunque il tipo di élite egemone con il sopraggiungere del «governo dell’esperto dei media» (Ivi: 245). Manin sostiene che la personalizzazione della politica è anche una risposta (neces- saria) alla maggiore complessità che si trova ad affrontare il governo rappresentativo. È una sorta di razionalizzazione flessibile rispetto alla difficoltà di implementare un programma rigido in un quadro in cui aumenta il grado di imprevedibilità. Da ciò seguirebbe la necessità di una maggiore discrezio- nalità che ha come indicatore principale il fatto che «per i candidati è razionale [corsivo mio] presen- tare le proprie qualità personali e la propria predisposizione a prendere buone decisioni piuttosto che legarsi le mani con promesse specifiche» (Ivi: 246).

La personalizzazione della politica in una situazione di fluidità elettorale ha anche altre rica- dute: gli elettori sembrano indotti a rispondere diversamente – in relazione al tipo di elezione, ma anche di offerta politica – piuttosto che esprimere un’identità definita. Inoltre, per tratteggiare e ren- dere appetibile il proprio profilo, ogni candidato deve differenziarsi. Per farlo deve puntare su alcune divisioni che secondo Manin sono sempre meno influenzate dalle fratture socioeconomiche e culturali tradizionali, che, pur non scomparendo, hanno perso la loro centralità. Anzi, l’elettorato (dei paesi occidentali) «è capace di [darsi] diverse divisioni», in un ambito in cui i processi di differenziazione crescono trasversalmente e mutano in continuazione. Tuttavia, l’iniziativa politica sembra saldamente nelle mani dei candidati. Sono i politici a scegliere «le divisioni più efficaci e vantaggiose per loro», mentre «l’elettorato appare soprattutto come un pubblico [corsivo mio] che risponde ai termini che sono stati presentati nella scena politica» (Ivi: 248), seppure vincolati dalla capacità di mobilitazione che riescono a indurre. Inoltre, la maggiore autonomia a essi riconosciuta rispetto alla “democrazia dei partiti”, li costringe a scegliere continuamente le divisioni giuste su cui investire nel mercato elettorale. Pur accettando solo parzialmente la metafora schumpeteriana del mercato per tratteggiare il comportamento di voto, per Manin esso non può che essere il risultato dell’offerta politica. Per questo la metafora del pubblico e del palcoscenico, mettendo in risalto i caratteri «di distinzione [cor- sivo mio] e di indipendenza fra coloro che propongono i termini della scelta e coloro che compiono

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la scelta [elettorale] […] è più adeguata a rappresentare la realtà» (Ivi: 250-251). Pubblico e palco- scenico sono termini strettamente correlati con ciò che rende dirimente la scelta di un candidato: l’«immagine» (che non nasconde alcuna «sostanza»). Di più: «i sondaggi di opinione dimostrano quanto le immagini che i votanti si formano non siano prive di contenuto politico [corsivo mio]» (Ivi: 252). In altri termini, un’opzione guidata dall’immagine non si oppone ad una effettuata sulla base della conoscenza sistematica di un programma. La semplificazione di tali immagini è inoltre inter- pretata da Manin come una modalità necessaria per ridurre «la sproporzione fra i costi dell’informa- zione politica e l’influenza [che il singolo votante] può sperare di esercitare sul risultato delle ele- zioni» (Ivi: 253). Un rimedio rispetto alla progressiva dis-identificazione tra partiti e classi, succes- siva all’epoca della «democrazia organizzata» (Mastropaolo 2011).

I mezzi della comunicazione pubblica in questo ambito assumono un assetto specifico: in gran parte risultano “neutrali” o, meglio, «strutturalmente [non] legati ai partiti» (Manin 2010: 253). Ciò che emergerebbe dall’avvento «dei media popolari e non di parte» è una percezione tendenzialmente uniforme delle informazioni fornite (pur non escludendo la formazione di opinioni contrastanti), a prescindere dalle preferenze politiche. La maggiore neutralità dei mezzi d’informazione inoltre si correla con il carattere «non fazioso» degli istituti di sondaggio quali strumenti di espressione dell’opinione pubblica. Questi ultimi «operano in base alla struttura formale che caratterizza questa nuova forma di governo rappresentativo: palcoscenico e pubblico, iniziativa e reazione». Pur ammet- tendo che si tratta di strumenti che costruiscono più che riflettere la volontà popolare, Manin ricono- sce ai sondaggi (e a chi li progetta/implementa) la capacità di produrre divisioni non previste dalla dialettica interpartitica su cui investire politicamente. Possibilità garantita dalla natura commerciale degli istituti di sondaggio e, pertanto, dall’indipendenza strutturale rispetto ai partiti. Ad ogni modo lo studioso francese evidenzia che la costruzione dell’opinione pubblica passa dagli attivisti ai sog- getti con una formazione in scienze sociali, e contemporaneamente registra l’abbassamento «dei costi dell’espressione politica individuale» e la facilitazione ad esprimerla senza rischi di violenza. In de- finitiva la «voce extraparlamentare del popolo è resa più pacifica e allo stesso tempo un fatto abituale» (Ivi: 255-256).

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