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Modelli di partecipazione al voto, scenari di cambiamento ed approccio bourdieusiano

Il valore aggiunto dell’approccio bourdieusiano per interpretare l’astensione elettorale nel caso italiano

7.1 Modelli di partecipazione al voto, scenari di cambiamento ed approccio bourdieusiano

In questo capitolo affronteremo l’astensione elettorale in Italia, in particolare il suo incre- mento, con qualche raffronto con il contesto europeo. Proveremo a farlo discutendo le principali in- terpretazioni datene133, dunque tenendo conto della distinzione tra astensione nei di termini compor- tamento elettorale e astensionismo come concezione della pratica astensionista che sarebbe peraltro riduttivo – oggi – considerare nei termini strategici di un’aperta critica della democrazia formale e rappresentativa come poteva esserlo in passato grazie alla presenza di significativi movimenti rivo- luzionari e anti-sistemici (si pensi solo all’anarchismo e a una certa critica marxista della democrazia borghese). L’intenzione è invece quella di descrivere e interpretare la pratica astensionistica tenendo nella debita considerazione l’ottica bourdieusiana e dunque il modo in cui si forma un’opinione poli- tica che può o meno sfociare in un voto. Tenteremo, pertanto, di valorizzare l’ipotesi che si tratti, almeno in una certa misura, di un elemento strutturale delle democrazie liberali, articolate in quanto tali su una divisione del lavoro tra specialisti (propriamente interni al campo politico) e profani della politica (che non percepiscono le lotte che si sviluppano all’interno del campo, né investono le loro vite nello stesso modo che caratterizza i professionisti) (Gaxie 19962: 150). Fattore strutturale che

principalmente prende consistenza, al di là della formale proclamazione del suffragio universale, in

133 In particolare, prenderemo in considerazione i seguenti testi Caciagli, Scaramozzino 1983; Ferrarotti 1989; Nuvoli,

Spreafico 1990; Corbetta, Parisi 1987, 1994; Mussino 1999; Cuturi, Sampugnaro, Tomaselli: 2000; Legnante, Segatti 2001; Mannheimer, Sani 2001; Caramani, Legnante 2002; Fruncillo 2004; Raniolo 20072; Tuorto 2006, 2008, 2010, 2014.

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un sistema censitario disconosciuto e dunque, secondo un approccio disincantato, in un’ineguale di- stribuzione dell’interesse e della competenza politica, significativamente correlate, tra le altre varia- bili rilevanti (genere, età, appartenenza di classe), con il livello di capitale culturale posseduto134. In tal senso, la capacità d’imporre al campo politico la propria opinione, sottoposta a diversi modi di produzione135, e conseguentemente anche di esprimere un voto (che nella sua apparente semplicità è solo uno dei possibili esiti), è legata alla forza dei gruppi sociali a cui si appartiene, al capitale rela- zionale e alla posizione occupata nella struttura sociale sia in termini di capitale economico e, nondi- meno, culturale posseduto. In questo scenario, pertanto, si manifestano forme di distacco e auto- esclusione (più o meno consapevoli e diversamente declinabili, in quanto storicamente mutevoli, in termini interpretativi) determinate (anche) da processi di violenza e dominazione simbolica che in quanto tali sono disconosciuti da chi li subisce e denegati dagli alfieri della doxa democratica.

In questi termini, se volessimo riprendere la tradizionale distinzione in merito alla partecipa- zione elettorale (tab. 1), da cui parte una delle più attente indagini sull’astensionismo in Italia ad opera di Dario Tuorto (2006: 15-27), quella d’ispirazione bourdieusiana appare evidentemente come una lettura opposta a quell’improntata sin dalla fine degli anni Cinquanta da Anthony Downs (1988), con successivi riorientamenti (Blais 2000), su un (astratto) elettore autonomo che compie la sua scelta di votare o meno in base ad un calcolo trasparente tra costi e benefici (ritagliata su un universale attore sociale che si vuole competente e in grado di protestare in modo più o meno intermittente anche disertando le urne), dunque sulla prospettiva di una razionalità individuale senza porre l’accento sulle condizioni sociali di tale scelta. Prospettiva che, nondimeno, è risultata utile per riparametrare i prin- cipali sviluppi delle intuizioni bourdieusiane nei termini in cui l’accumulazione e la mobilitazione di strumenti cognitivi dipende dal grado in base al quale ciascuno si sente autorizzato ad intervenire nelle questioni politiche (Gaxie: 2007), dato che all’approccio bourdieusiano inteso in senso più stretto sembra sfuggire quanto vi sia una parte di elettorato che tende a ritrarsi dal voto pur essendo dotato di significativi livelli di capitale culturale indotto da una generale crescita dell’istruzione e da un accesso più facilitato all’informazione. Sulla base delle teorizzazioni di Ronald Inglehart (1993) inerenti alla “rivoluzione silenziosa” e alla transizione a una (supposta) società postmaterialista, Rus- sell Dalton (1996), richiamato da Dario Tuorto (2006: 26), ha ipotizzato che negli ultimi decenni si è assistito ad una crescita di cittadini sempre più esigenti e critici che come tali sono in grado di mettere

134 Su questo versante si segnala uno studio di Daniel Gaxie (1978) sul caso francese, successivamente revisionato con

apporti di carattere più qualitativo.

135 Com’è stato sottolineato da Daniel Gaxie in una rilettura del capitolo Culture et politique de La Distinction, l’origina-

lità bourdieusiana consisterebbe proprio nella trasposizione di tale concetto marxiano in ambito socio-politico per mo- strare la problematica disuguaglianza di fronte alla politica e alla cultura. Tale postura, con il suo approccio disincantato e critico verso la doxa democratica, non poteva che «contrariare la propensione spontanea della maggior parte degli attori e dei commentatori politici tesi ad omogeneizzare i significati delle risposte ai sondaggi, delle opinioni e dei voti» (Gaxie 2013: 293-294).

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in atto una mobilitazione cognitiva che, di fronte ad un incremento del gap tra attese e risultati, pos- sono manifestare la loro capacità critica anche attraverso l’astensione come sinonimo di protesta. Più in generale, a partire dagli anni Settanta, seguendo le argomentazioni di Inglehart, si assi- sterebbe a forme di partecipazione politica non convenzionali promosse dalle nuove generazioni, ge- neralmente più istruite, che si accompagnano ad un’individualizzazione dell’azione politica in cui l’atto di votare perderebbe d’importanza anche perché caratterizzato da «un basso contenuto cogni- tivo e da un elevato tasso di eterodirezione» (Tuorto 2006: 34), oltre che per l’incapacità dei partiti di mobilitare i cittadini-elettori.

Se rispetto a questo tipo d’interpretazione della partecipazione e della non partecipazione al voto – che dovrebbe riguardare in particolar modo le democrazie considerate mature e determinate fasce sociali – l’approccio bourdieusiano potrebbe risultare maggiormente distante se non opposto, allo stesso tempo quest’ultimo non può essere incluso nella prospettiva sociologica dell’elettore so- cio-determinato136 nei termini di disponibilità di risorse (Lipset 1963; Milbrath 1965), in primis ri-

conducibili a variabili considerate strutturali e strutturanti come la condizione socio-professionale, la consistenza del reddito e il livello d’istruzione. Secondo questo modello, i cittadini con un alto status sociale hanno più probabilità di votare in quanto hanno più opportunità di interagire con persone politicamente attive; essi possiedono maggiori competenze (a partire da quelle linguistiche) e sono più inclini a rispettare in termini normativi i sentimenti di obbligazione e dovere (Verba, Nie 1972). Si tratta di aspetti che possono in qualche modo essere rintracciati, seppure da tutt’altra prospettiva teorica, nei termini di diseguale distribuzione delle specie di capitale e produzione di specifici habitus di classe, anche in un approccio bourdieusiano, se non fosse che i primi autori tendono a presentare l’astensione nei termini di cittadinanza incompleta e marginalizzazione sociale (considerandola, in definitiva, fisiologica) senza far ricorso a rapporti di dominazione simbolica (e materiale) all’interno dei regimi democratici. In questi termini, gli astensionisti, in una rielaborazione del modello (e pre- diligendo l’osservatorio americano), tenderebbero a non votare, come ha riassunto Turoto (2006: 17) per tre motivi: «perché non possono, perché non vogliono, perché nessuno glielo ha chiesto». Dunque, non votano per povertà di risorse, assenza di coinvolgimento e isolamento dai networks di recluta- mento (Verba 1995). Una distanza rispetto alla prospettiva bourdieusiana la si può intravedere, pe- raltro, anche rispetto al modello fondato sul capitale sociale così come è presentato da Robert Putnam

136 È peraltro indubbio, come ha sottolineato Gaxie ritornando su La Distinction (Gaxie 2013: 293), che in Bourdieu vi

siano delle somiglianze con autori che rientrano in questo modello, in particolare con gli studiosi dell’Università del Michigan (Campbell, Converse, Miller, Stokes 1960) quando si sottolinea il diverso livello di adesione/articolazione ideologica nella “scelta” di un partito, corrispondente in Bourdieu alla capacità di produrre un’opinione politica sistema- tica o, all’opposto, di (ri)tradurla nei termini di ethos di classe. La stessa delega o adesione a un partito rinvia a forme d’identificazione partigiane condivise sia da tali autori sia da esponenti che fanno riferimento al modello delle risorse (Verba, Nie 1972). Infine, evidenziare quanto contino gli strumenti cognitivi per giungere a un voto (o non votare) è un aspetto ampiamente sottolineato, seppure da tutt’altra prospettiva, dalla corrente “cognitivista”.

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(1993), dunque nei termini di «aggregato di fiducia, inclinazione associativa e norme sociali [condi- vise] come il senso civico» (Tuorto 2006: 19) che in alcuni sviluppi più noti, sottolineandone il pro- gressivo indebolimento (Putnam 2004), e lontano dalla teorizzazione bourdieusiana su tale specie di capitale137, tende a dipingere sotto forma di apatia i comportamenti elettorali degli astensionisti le- gandoli a forme di disconnessione comunitaria e lasciando aperta più di una porta ad interpretazioni socialmente stigmatizzanti, nonché a considerare alcuni mutamenti, come l’entrata massiccia delle donne nel mercato del lavoro e l’instabilità matrimoniale e familiare, come aspetti meramente nega- tivi.

Rispetto al modello delle risorse attraverso cui si tratteggia la partecipazione al voto (così come ad un sondaggio politico), non a caso Bourdieu ha sottoposto a critica in più occasioni (Bour- dieu 1972; 20012) le tesi di un autore di primo piano di tale modello – Seymour Martin Lipset (1963) – che, ponendo in termini unitari «le condotte politiche» e «non politiche» (senza distinguere, dunque, le risposte propriamente politiche da quelle dettate dall’ethos di classe) e avvalorando le affermazioni della scienza politica tradizionale sull’«universalità vuota dell’homo politicus» (Bourdieu 1972: 40) aveva gioco facile a riscontrare tratti autoritari solo tra le classi popolari assumendo come legittima, più o meno tacitamente, «la cultura politica propria delle classi superiori» – quella che «si acquisisce a Science Po o a Harvard» rimarcava Bourdieu (Ibidem) – rigettando in una sorta di stato di natura le posture che si potevano osservare tra le classi medio-basse – il rigorismo giacobino, l’impazienza millenarista e lo stesso risentimento piccolo-borghese che in certe congiunture era stato alla base dei regimi fascisti. In definitiva, secondo Bourdieu, Lipset tendeva a naturalizzare l’autoritarismo delle classi popolari postulando una sorta di «millenarismo evoluzionistico [quale] coronamento di una certa teologia politica che faceva dell’elevamento del livello di vita e di educazione delle classi po- polari il motore di un movimento universale verso la democrazia americana [corsivo mio], cioè verso l’abolizione dell’autoritarismo e delle classi che ne sono portatrici, in breve verso la borghesia senza proletariato [corsivo mio]» (Ivi: 41). Senza, cioè, perseguire alcun mutamento strutturale, a partire dai temi relativi al lavoro, verso il quale le classi superiori, non a caso, erano meno inclini. Gioverà

137 La concezione bourdieusiana è più attenta a sottolineare il carattere conflittuale e la produzione di asimmetrie che

genera l’accumulazione di ogni forma di capitale, nonché a porre maggiore attenzione sul livello individuale di capitale sociale. Sotto questo profilo ci sembra che Erik Neveu abbia giustamente sottolineato come, rispetto all’approccio main-

stream nord-americano al capitale sociale (Coleman, Putnam), quello di Bourdieu si distingua per la capacità di focaliz-

zare meno l’attenzione sui gruppi e le comunità e conseguentemente sugli effetti di controllo sociale e sui risultati in termini di civismo, prediligendo la dimensione individuale o istituzionale. In particolare, rispetto all’ottica adottata da Putnam, la posizione bourdieusiana consentirebbe di evitare i forti rischi di tautologia quando s’indaga il livello di com- portamento civico o di migliore governance rinviando ad essi la presenza di un denso capitale sociale. Più in generale, il concetto di capitale sociale tradizionale rischia di «assorbire e nascondere altre forme d’influenza», mentre l’approccio bourdieusiano pone l’accento più marcatamente sulle condizioni pratiche di produzione, accumulazione e mantenimento di tale forma di capitale, considerandolo non tanto «un astratto, quasi un sistema geometrico di connessioni, [quanto] qualcosa di incorporato nella vita sociale quotidiana» o nell’ambito ecologico-sociale delle istituzioni (Neveu 2018: 356- 357).

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inoltre ricordare come per Lipset, non diversamente dalla teoria della «competizione delle élites» di Schumpeter (1984) per cui una democrazia funziona quando prevede una partecipazione minima e tutta proiettata sulla legittimazione delle decisioni prese dalla leadership, una democrazia stabile e matura non avesse bisogno di un’elevata partecipazione elettorale e che la sua legittimazione, come ha ricordato Tuorto, derivasse «proprio da un limitato coinvolgimento della popolazione» (Tuorto 2018: 11). Quanto di più lontano dall’approccio (e dal programma di ricerca teorica e politica) caro a Bourdieu…

A loro volta, sempre all’interno del modello dell’elettore socio-determinato, le forme di mo- bilitazione elettorale incentrate sull’azione dei gruppi (Rosenstone, Hansen, 1993), e in particolar modo dei partiti e dei candidati, tendono a privilegiare «un processo selettivo di diffusione sociale e di persuasione informale» (Tuorto 2006: 18), che diventa più efficace attraverso l’attivazione di reti parentali e amicali, indirizzato ai cittadini considerati centrali, dotati, dunque, di ampie connessioni sociali. Ne deriva che le persone che si recano maggiormente alle urne saranno quelle attive nelle varie organizzazioni o socialmente centrali a discapito degli «elettori politicamente non attivi o peri- ferici» (Ibidem). Allo stesso tempo, riprendendo le tesi degli studiosi dell’Università del Michigan (Campbell 1960; Butler, Stokes 1969; Knoke 1976) coloro che continuano a lasciarsi mobilitare in base all’identificazione con un partito, ovviamente, mostreranno una maggiore stabilità e predispo- sizione a votare e dovranno tale inclinazione ad una consolidata eredità politico-culturale acquisita in prima istanza in ambito famigliare (e in stretta relazione con l’appartenenza di classe). È peraltro evidente quanto la smobilitazione e l’evanescenza dei partiti, così come del cleavage destra/sinistra su cui in parte si sono strutturati, correlati con la mediatizzazione della politica e la ricezione social- mente differenziata della comunicazione-informazione politica, tenda ad indebolire tale forma di mo- bilitazione. Soprattutto in tempi di cambiamento quando «la trasmissione generazionale dell’identi- ficazione partitica, e quindi anche l’importanza stessa di votare, viene messa in discussione dagli spostamenti delle preferenze politiche di una parte dell’elettorato» (Tuorto 2006: 22).

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Tab. 1.7 Caratteristiche dei modelli di partecipazione politico-elettorale in base a diversi approcci politologici

Caratteristiche dei modelli di partecipa- zione politico-elettorale e di chi non vota

La partecipazione politico-elettorale come problema…

Elettore socialmente determinato

Dotazione scarsa di risorse (reddito, li- vello d’istruzione, condizione socio-pro- fessionale); cittadinanza incompleta; di- stanza dai network di reclutamento poli- tico. Mobilitazione indotta dai gruppi. Im- portanza del capitale sociale come aggre- gato di fiducia e condivisione di norme so- ciali. Identificazione con un partito

Una democrazia matura e stabile non ha biso- gno di un’ampia partecipazione elettorale (Lip- set).

Elettore autonomo

Scelta razionale trasparente in termini di costi/benefici: decisività del proprio voto e conoscenza dell’offerta politica; Mobili-

tazione cognitiva e individualizzazione

della politica.

La partecipazione elettorale non è centrale. È una forma “povera” e subordinata di partecipa- zione politica.

Approccio bourdieu- siano

Sistema censitario nascoso correlato con diversi modi di produzione delle opinioni (ethos di classe, partito politico sistema-

tico, delega ad un partito). Il voto e il non

voto come risultato anche dell’esercizio di forme di dominazione e violenza simbo- lica.

Una non elevata partecipazione elettorale tende a riprodurre e ad ampliare le disuguaglianze.

Abbiamo già ampiamente sottolineato quanto Bourdieu avesse messo in guardia sulla poten- ziale alienazione insita alla forma-partito, in particolar modo tra le formazioni di orientamento so- cialcomunista a danno di coloro che erano meno in grado di controllare i propri rappresentanti. Tut- tavia, la smobilitazione di queste ultime, indotta in gran parte dalle profonde trasformazioni socio- economiche e culturali in senso neoliberale, in cui la stessa politica ritagliata sullo Stato-nazione non poteva che subire una restrizione della sua capacità d’azione, e dalla sconfitta del movimento operario (ad Ovest come ad Est), ha di fatto accentuato i rischi di alienazione e anomia politica (attraverso la maggiore chiusura oligarchica e professionalizzante che ha connotato il campo politico e le organiz- zazioni partitiche a danno della militanza e dell’attivismo di base). In tal senso, non ci sembra casuale che siano proprio degli scienziati politici influenzati da Bourdieu (Gaxie, Pelletier 2018) a tornare a riflettere sulla necessità di ricostruire nuovi ed efficaci partiti radicati negli ambienti popolari come

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forma prioritaria per ridurre l’astensione e recuperare terreno rispetto, ad esempio, alle formazioni neo-nazionaliste, sempre più intente ad attrarre anche porzioni significative delle classi popolari la- sciate ai margini dalla riconversione social-liberale di gran parte dei partiti di sinistra e da oggettivi problemi di azione politica in senso progressista. Vecchie e nuove formazioni nazionaliste, pertanto, sono diventate capaci d’influenzare il campo politico tanto da riuscire a sostituire, come Bourdieu notava con sconforto già vent’anni fa, «l’opposizione ricco/povero, quale elemento fondamentale della politica, con «l’opposizione nazionale/straniero». (Bourdieu 2005c: 36). In tal senso, scommet- tendo sulla non scomparsa dei partiti – il cui tramonto si dava quasi per certo già trent’anni fa come osservava un politologo influenzato da Bourdieu come Michel Offerlé (1987) –, i quali persistono se non altro in quanto particolari imprese d’interessi secondo l’accezione weberiana, e seppure con la consapevolezza che gli antichi partiti di massa non torneranno, Daniel Gaxie e Willy Pelletier (2018), sulla base di una ricerca qualitativa da loro coordinata che ha coinvolto dirigenti e militanti (in diversi casi ex dirigenti ed ex militanti) principalmente dei partiti della sinistra francese, hanno potuto con- cludere che

è tutto il funzionamento dei partiti che bisognerebbe correggere: ritrovare delle utopie audaci [corsivi miei], inventare delle prospettive programmatiche mobilitanti, re-instituire i dibattiti interni, la formazione dei militanti, contrastare la professionalizzazione, lottare contro le dominazioni oligarchiche nelle organizzazioni, combattere la presidenzializza- zione, la personalizzazione, le carriere e il carrierismo, l’inamovibilità dei dirigenti, perseguire le discriminazioni, con- trollare gli eletti, rivalorizzare gli impegni di volontariato, ritrovare la sociabilità interna e verso i simpatizzanti, uscire dal ghetto politicistico ed intellettualistico nei quali i partiti si sono arrestati, rendere i partiti attraenti e desiderabili [corsivo mio]… (Gaxie-Pelletier 2018b: 379).

Per quanto sia poco probabile riuscire (almeno in tempi brevi) ad agire su tutte queste dimensioni e costruire nuovi partiti, come affermano gli stessi politologi, nondimeno ci sembrano gli aspetti su cui agire138 anche nel caso italiano in cui l’astensione (intesa in senso lato) ha raggiunto poco meno di un terzo dell’elettorato nelle elezioni generalmente più partecipate, cioè quelle politiche. Pertanto, cercheremo di capire se, dopo la destrutturazione dei partiti di massa, ci troviamo di fronte – come sembra – ad una rimodulazione delle modalità di accesso all’opinione politica e all’espressione del voto che – pur di fronte alla semplificazione dei linguaggi che si vogliono legittimamente politici, all’incremento della cosiddetta postura populista e disintermediata che ci pare intrinseca all’afferma- zione della democrazia del pubblico, fino a giungere a parlare di popolocrazia (Diamanti, Lazar 2018), e alla diffusione di una democrazia digitale alla portata di tutti che si vorrebbe in diretta (Ur- binati 2013; Girometti 2014b) – accresce il silenzio elettorale, innanzitutto tra le classi popolari, e si

138 Ciò è tanto più vero se si considera, ad esempio, che il punto originale e di forza di un movimento sociale popolare

come quello dei gilet juanes consistente nel non darsi una struttura né appoggiarsi su una realtà partitica è stato anche la sua principale debolezza in termini di resa politica come ha sottolineato lo stesso Gaxie (2019a).

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appropria, almeno potenzialmente e non diversamente dal passato, della loro parola e del loro silen- zio, (de)formando la prima e riempiendo il secondo.

Allo stesso tempo, come ha opportunamente osservato Philippe Fritsch nell’introduzione ad alcuni testi bourdieusiani sul campo politico che abbiamo discusso dettagliatamente (Bourdieu 2005c), se la metafora teatrale funziona – in particolare la distinzione tra scena e dietro le quinte – per descrivere ciò che avviene realmente in politica, quanto essa «è applicabile ai giudizi e alle azioni (sempre che l’astensione sia un’azione) dei dominati, per i quali non vale la pena intervenire sulla scena poiché tutto accade tra le quinte, dove hanno la sensazione di non poter accedere»? (Fritsch 2005c: 23). La domanda di Fritsch (peraltro non posta a Bourdieu durante la conferenza del 1999 a Lione) ci pare un punto di partenza imprescindibile dal momento che implica una domanda di carat- tere più generale, ovvero: come pensare l’incremento dell’astensione? E come pensare l’incremento – non casuale – tra le classi popolari? È il risultato di una violenza simbolica esercitata dalle classi dominanti (dalle sue varie frazioni in lotta) e rimodulata ed estesa anche a settori sociali definiti cen- trali (istruiti, occupati, giovani, principalmente di genere maschile) generalmente più coinvolti nel gioco politico istituzionale ma incapaci di trovarvi cittadinanza piuttosto che una protesta razionale e più strettamente individuale interpretata in termini di mobilitazione cognitiva secondo letture più consolidate in letteratura? O è il semplice esito della chiusura oligarchica del campo politico, della sua professionalizzazione concomitante con l’assottigliamento dei partiti e la drastica riduzione della militanza, a cui segue un distacco che si potrebbe leggere allo stesso tempo sia nei termini di protesta

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