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Dall’affermazione dello Stato neoliberale al sovranismo?

pitale politico

5. Lo Stato come (ambivalente) “banca del capitale simbolico”.

5.2 Dall’affermazione dello Stato neoliberale al sovranismo?

Se dell’impegno diretto del sociologo francese nel campo politico parleremo in modo più dettagliato nel successivo capitolo, qui ci preme tuttavia soffermarci sul mutamento della forma-Stato intercorso negli ultimi decenni. In particolare, su come la nuova doxa neoliberale affermatasi in modo preponderante negli anni Novanta e in gran parte trasversalmente agli schieramenti politici, in quanto

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«ortodossia indiscutibile che opera come se fosse una verità oggettiva» colonizzando la discussione sulle politiche economiche (Paolucci 2014a: 72), ha preso corpo all’interno dello stesso Stato, come sottolineerà Bourdieu dall’osservatorio francese. In quest’ultimo il sociologo francese vede all’opera non tanto il declino dello Stato, quanto una sua ristrutturazione a partire dalla ridefinizione delle sue funzioni in una fase in cui prende piede la precarizzazione socio-economica con i nuovi habitus e le nuove tipologie di persone da prendere in carico. Di fatto, viene meno un tipo di regolazione sociale dell’economia a vantaggio di un altro per cui la “crisi” dello Stato altro non sarebbe che «l’invenzione collettiva di un nuovo modo di dominazione» (Bourdieu 2015d).

Ciò lo porterà, da un lato, ad animare e a reclamare un movimento sociale in grado di costruire nuove istituzioni pubbliche ad un livello almeno europeo e a denunciare pseudo-concetti omogeneiz- zanti come quello di “globalizzazione” (dietro cui si maschera la riproduzione del potere di un ridotto numero di nazioni rispetto alla totalità degli scambi commerciali a scapito dei soggetti sociali più deboli di ogni nazione posti in competizione per essere inclusi selettivamente), dall’altro, a difendere per realismo politico lo Stato-nazione in quanto interpretato come una delle poche armi a disposizione per controllare processi ritenuti vitali, in particolar modo quelli che toccavano «l’interesse generale e i servizi pubblici» (Bourdieu 2012d). In effetti, la posizione bourdieusiana, in una congiuntura storica in cui prendeva forma e consistenza un movimento come quello altermondialista, certamente etero- geneo e non privo d’ingenuità al suo interno, si distingueva per maggiore realismo a differenza di altre posizioni critiche che scommettevano sull’eclissi degli Stati nazionali e su politiche economiche redistributive incentrate sul reddito piuttosto che sulla redistribuzione (e ridefinizione conflittuale) del lavoro socialmente necessario – si pensi in Italia (e non solo) alle posizioni di orientamento (post)operaista influenzate da figure di intellettuali militanti come Antonio Negri e Michael Hardt (2002) che ponevano come priorità la lotta per un reddito d’esistenza universale117 e teorizzavano l’azione decisiva svolta da una transnazionale moltitudine desiderante di ascendenza spinozista-de- leuziana (Deleuze 1991, 1999).

Come sottolineava Rossana Rossanda nell’introduzione della versione italiana ad una raccolta di testi bourdieusiani più propriamente politici come Controfuochi. Argomenti per resistere all’inva- sione neo-liberista, il sociologo francese, nel prendere atto dell’ambivalenza dello Stato, diffidava delle «semplificazioni antistatali di sinistra» (Rossanda 1999: 10)118 e allo stesso tempo vedeva nel

117 Quanto sia ancora più lontano il desiderio di un universale reddito di esistenza (dunque incondizionato e garantito ad

ogni essere umano) e quanto conti la dimensione simbolica nell’articolazione delle politiche concrete ce lo ricorda, tra l’altro, il caso italiano, in cui la denominazione “reddito di cittadinanza” (versione debole del reddito d’esistenza) è stata affibbiata a quello che in realtà altro non è che un sussidio a tempo determinato, condizionato in base al reddito ed in cambio di forme di lavoro ritenute socialmente utili. Una misura di workfare tutta interna alla logica neoliberista neanche lontanamente scalfita dalle politiche cosiddette populiste…

118 Tra queste probabilmente potremmo includere anche le critiche propriamente filosofiche antiburocratiche sedimenta-

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lavoro dipendente non solo una forma di eterodirezione e sfruttamento, bensì soggetti «incaricati di una funzione che si vedevano sottratti compiti e mezzi di fronte a una crescente sofferenza sociale» generata dalla precarizzazione neoliberista, che con le sue seducenti parole alla moda (flessibilità, individualizzazione del rapporto di lavoro, ecc.) era intenta, innanzitutto, a promuovere «la perdita del valore simbolico del lavoro» (Ivi: 9).

A sua volta, Christian Laval (2014; 2018) si è recentemente soffermato sul rapporto tra Bour- dieu e la nuova configurazione della statualità promossa dalla rivoluzione neoliberista, ponendo a tema proprio la complessa posizione bourdieusiana. Quest’ultima – concordiamo con Laval – non ci pare che possa essere scambiata come una forma di sovranismo, anche nella sua accezione “di sini- stra” nei termini in cui lo Stato nazionale potrebbe essere la chiave di volta per uscire dalla forma neoliberale del capitalismo (Laval 2018: 232). In particolare, Laval si riferisce, senza peraltro discu- terle, alle tesi di Frédéric Lordon che distingue un sovranismo di destra da uno di sinistra. Il primo è per lo più incentrato su un’appartenenza etnico-culturale e intento a restaurare una forma di governo propriamente sovrana – in sé legittima sottolinea Lordon – in cui tuttavia la nazione si riconoscerebbe senza riserve nei «governanti qualificati» (Lordon 2014: 228-231). Il secondo, invece, rinvierebbe all’esercizio di un potere popolare, ossia quello espresso dalla maggioranza sociale di una nazione che si trasformerebbe in maggioranza politica119. In questo caso la sovranità non sarebbe altro che una decisione presa in comune dal maggior numero degli interessati che riduce il più possibile, senza mai eleminarla, la distanza tra rappresentati e rappresentanti (Lordon 2014: 228-231; Lordon 2015: 332-333). Ciò tuttavia sarebbe possibile solo all’interno di un determinato territorio ad opera di una comunità che condivide la medesima appartenenza, equivalente, in termini spinoziani, agli affetti comuni dato che la natura umana è costituita da una servitù passionale che di per sé costituisce «corpi finiti distinti»; ossia determinate forme di vita. In tal senso, per quanto, secondo Bourdieu (ripreso

esponenti più noti). E si potrebbe menzionare anche un filosofo politico critico come Miguel Abensour, intento a valo- rizzare il giovane Marx teorico della “vera democrazia” contro lo Stato (Abensour 2008), la cui tensione emancipatrice riemergerebbe negli scritti politici dedicati alla Comune parigina in una suggestiva rilettura attenta alle sollecitazioni provenienti da autori come Emmanuel Levinas e Hannah Arendt (Abensour 2010; 2013), nonché all’antropologia anti- hobbesiana di Pierre Clasters (2013) tesa a mostrare come le società “selvagge” non fossero prive di politica in quanto prive di Stato, mettendo così in discussione l’equivalenza politica = Stato. Lo stesso vale per un autore come Maximilien Rubel (1981; 2001), intento, a sua volta, a rimarcare la permanenza di una dimensione etica ed utopica in tutto l’itinerario marxiano, che non risulterebbe, pertanto, né costellato da significative fratture epistemologiche (secondo la nota interpre- tazione althusseriana), né riducibile allo stesso marxismo canonizzato a cui invece si contrapporrebbe.

119 Lordon, discutendo delle forme istituzionali che si sono dati i movimenti rivoluzionari (dalla Comune parigina all’espe-

rienza sovietica fino all’attuale Cina “comunista”), di fatto indica come una maggioranza sociale che diventa politica è equivalente alla leniniana dittatura del proletariato (Lenin 1974), dunque a una «dittatura della maggioranza» (intenta, tuttavia, a costruire un nuovo e durevole assetto istituzionale dato che all’orizzonte non vi è alcun marxiano deperimento dello Stato) che altro non è che «la “democrazia” ricondotta al suo concetto» (Lordon 2019: 181). Ci pare evidente – come abbiamo sottolineato in altre sedi (Girometti 2012b; 2016a; 2016b) – quanto ciò segnali un problema da parte delle teorie critiche a pensare la complessità (e la fragilità) della questione democratica – che è assai più probabile che corri- sponda all’indebolimento del concetto di sovranità in quanto intrinsecamente legato alla capacità di uccidere o negare l’altro da sé, dunque l’opposto di un ordine tendenzialmente non-violento e cooperativo – contraddistinta nelle società complesse dalla (com)presenza di identità plurali.

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criticamente da Lordon), l’universale promosso dallo Stato che costruisce una nazione sia un deter- minato particolare universalizzato e di per sé tronco, e la stessa cittadinanza, sulla scorta di alcune osservazioni di Étienne Balibar (2004), vada pensata in termini non essenzialistici di contribuzione attiva alla nazione (attraverso cui si manifesterebbe una volontà di appartenenza da parte degli stessi sans-papiers), nondimeno ne deriva che «l’esercizio della democrazia ha per trascendentale l’istitu- zione fondamentalmente non-democratica della frontiera» (Lordon 2015: 273-279). Pertanto, se- condo Lordon, lo Stato-nazione sarebbe oggi «la forma storica, particolare, [che qualifica] i corpi politici» (Ivi: 29) e il sovranismo (di sinistra) «un altro nome della democrazia» (Lordon 2014: 230)120.

Da questa prospettiva ci sembra che non ci sia spazio per una comunità (che peraltro sarebbe sempre uno Stato per quanto sui generis) post o transnazionale, tanto che lo stesso Stato sovranazio- nale (ad esempio l’Unione Europea con cui Lordon – non senza ragioni – polemizza in modo accesso [Lordon 2014; 2015: 43-53]) al momento altro non potrebbe essere che un (peggiore) super-stato nazionale in un quadro in cui, tuttavia, non si esce mai dalla produzione di nazione e stato (interessati solo da un mutamento di forme). In quest’ottica, sembra ancor meno pensabile una scissione o una differenziazione tra Stato e nazione, in termini euristici prima ancora che politici (Borghini 2009: 89- 100). Né, soprattutto, sembra trovar posto una pratica della cittadinanza che, nell’impossibilità di assimilare e naturalizzare i “non nazionali” – ovvero ciò che si propone ogni Stato quando non espelle e/o non fa entrare –, nondimeno rimuova in qualsiasi territorio l’arbitraria e discriminante linea di demarcazione, dovuta in primis alla casualità del luogo di nascita, tra “nazionali” e “non nazionali”, riconoscendoli come soggetti diversi e paritari, e in quanto tali artefici di una democrazia radicale senza Stato (Raimondi 2016: 54-65) secondo un’opzione cara ad un allievo ed amico di Bourdieu come Abdelmalek Sayad (le cui tesi, peraltro, non ci risultano mai discusse da Lordon).

120 È sintomatico (e dunque problematico) constatare come il concetto di democrazia, nella sua concatenazione con quelli

di sovranità nazionale, popolare e statale possa presentarsi come un significante vuoto e, come tale, possa essere utilizzato – in modo decisamente più performativo considerata la tendenza spontanea del pensiero di Stato a naturalizzare la nazione – da tutt’altra prospettiva. Tra i tanti esempi, si considerino le posture più schiettamente neoconservatrici che si vorrebbero rappresentative del ceto medio produttivo (più o meno impoverito) di cui un recente intervento in Italia del giurista Giu- seppe Valditara (2017) ci sembra paradigmatico. L’autore fa propria la critica di ciò che chiama «globalprogressismo» connotato da un eccesso di richieste sul lato di generici “diritti umani” (a dispetto dei doveri) svincolati dal contesto nazional-statale nonché dalla cultura tradizionale “occidentale”. Allo stesso tempo, egli sottolinea come la distinzione di fondo che caratterizza il campo politico – oggi – è tra patrioti identitari a salvaguardia della Nazione (intesa come insieme di valori e stili di vita da preservare) e globalisti. In tal senso, Valditara considera come esempio di sovranità democratica, senza alcun imbarazzo, la difesa: a) di un ordine solidamente e ancestralmente proprietario (in modo retorico contrapposto alla finanza come ordine liquido e senza frontiere); b) della «libertà contro l’egualitarismo» (in nome dei talenti naturali) e dunque anche contro un “eccesso” d’imposizione fiscale che alimenterebbe impropriamente la spesa pubblica assisten- ziale (che diventa ancora più intollerabile se usata a favore di extracomunitari); c) dell’inasprimento penale contro la microcriminalità in nome della sicurezza, nonché la restaurazione della disciplina, in particolare scolastica, ambito in cui si scontano gli esiti delle deviazioni promosse da “cattivi maestri” come Marcuse e Foucault; d) della difesa dall’immi- grazione “selvaggia” – autentico tòpos del pamphlet di Valditara – contro cui occorre ripristinare il valore e l’efficacia delle frontiere (come se le frontiere fossero davvero cadute e non fossero state anche tracciate arbitrariamente altrove…).

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Allo stesso tempo, la politica non risulta concepibile al di fuori della presa di un risorgente Stato in cui si condensa necessariamente la cattura verticale dell’orizzontalità, ovvero, in termini spinoziani, l’Imperium come diritto che definisce «la potenza della moltitudine» (Spinoza 1995: 14). Da qui le critiche di Lordon alle carenze degli approcci libertari che immaginano di vivere senza Stato e a filosofi come Alain Badiou, Gilles Deleuze, Giorgio Agamben e Jacques Rancière che nel loro pensare la politica come altro dalla politica ordinariamente istituzionalizzata vengono etichettati come antipolitici (Lordon 2019). In definitiva, ne consegue che per l’economista e filosofo francese «una lucida [e interminabile] politica dell’emancipazione» si muove «tra la necessità e il rifiuto della necessità» che connota il legame Stato-nazione-politica sulla base di un’idea regolatrice che ha come orizzonte un «comunismo della ragione» (Lordon 2015: 336-340).

Ad ogni modo, l’uso più o meno circostanziato del termine sovranismo, con la sua indubbia performatività in un’epoca di crisi di egemonia delle élite neoliberali, pone delle domande utili a pensare cos’è lo Stato oggi. E in particolare cos’è lo Stato, nella sua capacità d’intervento (non solo) nell’immaginario sociale, in un contesto come quello europeo e quanto la strategia bourdieusiana di difesa della “mano sinistra” di esso, dunque delle politiche sociali e dei servizi pubblici quali conqui- ste generate conflittualmente al suo interno, possa ancora avere una qualche validità ed efficacia. In effetti, oggi assistiamo ad una sorta di gramsciana rivoluzione passiva ad opera di forze principal- mente neoconservatrici e autoritarie, più o meno mascherate, e a volte dichiaratamente fascistoidi, che tentano di declinare in forma autoritario-nazionalistica il concetto ben più ampio e articolato di sovranità democratica. Pertanto, assistiamo alla messa in opera, da parte di Stati egemoni come gli stessi Usa, di una postura orientata ad una ri-centralizzazione della politica su uno Stato-nazione ten- dente ad esasperare, almeno selettivamente, il suo tratto di sovranità e nondimeno intenta ad occultare le divisioni interne allo Stato (che, come abbiamo visto nel caso bourdieusiano, sono un dato struttu- rale oltre a rinviare anche a divisioni sociali di classe e di classificazione), nonché le diverse forme di dominazione che attraversano ogni Stato. In tal senso, si tende a rimuovere quanto il concetto di sovranità, nel definire i confini di una comunità, sia costitutivamente affetto dalla necessità di identi- ficare un fuori che sovente, soprattutto nelle congiunture più critiche, si trasforma in nemico esterno (interpretato in genere da un altro Stato rispetto al quale, in assenza di una qualche regolazione so- vrastatale, l’opzione guerra è più di una possibilità) o interno (in genere incarnato dalla parte più debole o “eterodossa” della popolazione ritenuta inassimilabile) sulla cui base costruire una politica del capro espiatorio (Alfieri 2012) verso cui mobilitare compattamente, senza possibilità di dissenso, la totalità dei cittadini-sudditi sani nei termini di massa aizzabile (Canetti 1981). Gli esempi storici d’involuzione politico-autoritari sono fin troppo diffusi (anche quando agiti in nome di una rivolu- zione sociale e politica progressista) da non poter essere sottovalutati da chi, anche da sinistra,

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reclama principalmente la restaurazione di una sovranità politica che si appoggi sui dispositivi istitu- zionali incarnati dallo stato nazionale per bloccare e/o regolamentare le nuove (ma neanche così tanto) forme di capitalismo in atto: finaziarizzazione dell’economia, precarizzazione del lavoro, intensifica- zione del “libero scambio”. E tutto ciò in un quadro in cui il modo di produzione capitalistico, pur con differenziazioni non secondarie, tende effettivamente a diventare transnazionale (come già prefi- gurato da Marx ed Engles nel 1848…); da cui se ne dovrebbe dedurre che la costruzione di organiz- zazioni politico-sindacali, movimenti e istituzioni per essere davvero efficace dovrebbe muoversi quanto meno anche, se non soprattutto, su questo livello. In tal modo, oltre a non vedere come le nuove forme di capitalismo siano il prodotto di una politica (e non di una carenza della politica) che si è affermata anche grazie alle istituzioni nazionali (il che dovrebbe quanto meno indurre dei dubbi sulla loro natura non così neutrale o comunque facilmente recuperabile in un’ottica di democratizza- zione121), si sottace la co-essenzialità storica di stato nazionale e accumulazione capitalistica. Si

tende, inoltre, a mitizzare una fase del capitalismo incentrata perlopiù su una parziale redistribuzione della ricchezza prodotta – quella dei cosiddetti Trente Glorieuses – in una determinata area del mondo in cui non era stato di certo cancellato il carattere eterodiretto del lavoro (che oggi in una prospettiva sovranista è assai più probabile che diventi una componente organicamente subalterna ad un qualche capitale nazionale); né in quella congiuntura erano scomparse le altre forme di dominazione/stigma- tizzazione (di genere, di orientamento sessuale, culturali, religiose, interstatali, ecc.) che, invece, as- sumeranno maggiore visibilità nei decenni successivi e contribuiranno a dare nuovi significati ad un necessario processo di democratizzazione della democrazia in gran parte incompiuto.

In tal senso, se consideriamo la questione immigrazione, che, prima di essere un problema

121 Un recupero della sovranità in senso democratico (sulla scorta di un approccio che rinvia a Karl Polanyi) è ciò che

auspica invece Alessandro Somma nei termini in cui il ripristino della centralità della dimensione nazionale sarebbe «l’inevitabile reazione della società [corsivo mio] contro la tirannia dei mercati» oltre che un modo per esercitare un efficace conflitto sociale ancorato ad un impianto istituzionale certo. Ciò si dovrebbe combinare con «la riaffermazione delle ragioni di una sinistra internazionalista, in quanto tale non anche cosmopolita» – riproducendo una distinzione che ci pare quanto meno desueta. Ne deriverebbe che «il sentimento nazionale» che connota le classi subalterne contrapposto al nazionalismo delle classi dominanti rimetterebbe in gioco le ragioni della sovranità popolare coniugate con la sovranità statale ed esse sarebbero «l’unico modo per opporre al rinato conflitto tra Stati per la conquista dei mercati – l’essenza del sovranismo di destra – una lotta degli Stati contro l’invadenza dei mercati» (Somma 2018: 7-26). Se è quanto meno difficile distinguere così nettamente Stato e mercato (e opinabile assimilare società e nazione) è fin troppo evidente come il sentimento nazionale degeneri in nazionalismo riguardando sempre più anche settori non irrilevanti delle classi subal- terne quando non si consegnano ad un silenzio rassegnato. D’altronde, la stessa distinzione nazione/nazionalismo – criti- cata da una recente lettura operata da Philip S. Gorski (2013: 242-265) che mette a frutto la concettualizzazione bour- dieusiana in materia di classi e dunque di lotte di classificazione (il riferimento è ai concetti di «dis/posizioni» e ai «prin- cipi di «di/visione») – è problematica dato che gli stessi studiosi del fenomeno risulterebbero ancora «intrappolati nella rete dell’ideologia nazionalista» (Ivi: 246). Tale critica, infatti, proponendo di definire nazionalismo «ogni pratica o di- scorso politico che invoca la nazione o una categoria equivalente» (ad esempio patria) (Ivi: 251), propone di non schiac- ciare il concetto di nazionalismo sulla modernità, né di scartarne le forme premoderne, religiose e antidemocratiche, cercando di procedere oltre letture soggettiviste (che prediligono l’aspetto simbolico) e oggettiviste (che sottolineano i tratti materialistici) cogliendo, così, le lotte di nation-ization che di volta possono (ed hanno potuto) interessare soggetti diversificati in determinate congiunture. Eloquenti sono anche le metafore (di natura epidemiologica) ritenute da Gorski più pertinenti per catturare le caratteristiche del nazionalismo: geni, mutazioni, contagiosità epidemie (Ivi: 257-263).

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che richiede adeguate politiche pubbliche (e dunque il riconoscimento della necessità di una radicale trasformazione dei rapporti materiali e simbolici tra i diversi paesi), mette innanzitutto a nudo le nostre identità di Stato, il carattere esclusivista e nient’affatto universalista che le connota, ci pare che si assista ad una ripresa e a un’intensificazione della “mano destra dello Stato”, coessenziale al consolidamento dei processi di ristrutturazione economica denominati (problematicamente) postfor- disti e di erosione del Welfare State122, nella sua versione più securitaria e repressiva. Ciò è tanto vero che già lo stesso Bourdieu, delineando come lo spazio sociale nazionale non coincida con quello strettamente geografico (Reed-Danahay 2017), notava come il discorso veicolato dallo Stato identi- fica e classifica e dunque autorizza e sanziona chi (e con quali modalità) può e chi non può far parte di una determinata comunità, stabilendo i criteri di legalità, e dunque di accesso ai documenti che rendono un’esistenza legale, determinando, pertanto, una gerarchizzazione delle vite (Fassin 2019) e un’ineguale distribuzione delle risorse materiali e simboliche. Tale linea euristica è ancora più evi- dente in Abdelmalek Sayad, la cui sociologia delle migrazioni contiene effettivamente in nuce «una teoria dello Stato» (Raimondi 2016; Girometti 2017a) in cui il migrante – corrispondente perlopiù alla forza-lavoro più ricattabile in quanto maggiormente spossessata in termini di diritti e autonomia politica – è l’inconscio e il prodotto freudianamente perturbante dello Stato-nazione. In tal senso, i migranti, attraversando con i loro corpi l’arbitrario e contingente confine stato-nazionale, ne denun- ciano politicamente, seppure in gran parte in modo inconsapevole, l’impossibile chiusura identitaria e totalizzante, desacralizzandola. Un simile approccio ci pare assai utile, oggi, per comprendere la performatività della politica contemporanea incentrata su politici, più o meno di professione, che assumono uno stile populista innanzitutto per accedere al potere accentuando di fatto le barriere so- ciali e perseguendo una politica della paura rovesciata in odio. Infatti, come osservava ormai oltre vent’anni fa Roberto Escobar (1997), l’indebolimento delle identità politico-ideologiche ha lasciato

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