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Lo Stato: un “Giano bifronte” in costante trasformazione

pitale politico

5. Lo Stato come (ambivalente) “banca del capitale simbolico”.

5.1 Lo Stato: un “Giano bifronte” in costante trasformazione

I bourdieusiani corsi sullo Stato, troppo sbrigativamente presentati come la sua opera più anti- marxista e durkheimiana nell’intento di valorizzare l’interesse pubblico com’è definito attraverso le categorie dell’intervento pubblico (Fabiani 2016: 242), consentono di riflettere sul lascito (non solo) teorico del sociologo francese a partire da un tema nient’affatto minore della sua opera e, al contempo,

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rivelatore del suo modo di fare e intendere la ricerca sociologica. Innanzitutto, secondo Bourdieu, occorre affrontare il rischio – e le continue proiezioni inconsce – «di applicare allo Stato un pensiero di Stato [corsivo mio]» e rilevarne la congiunzione con lo spazio pubblico inteso «come luogo in cui i valori del disinteresse sono ufficialmente riconosciuti e gli agenti manifestano, in una certa misura, un interesse al disinteresse» (Bourdieu 2013c: 13-14).

Secondo una prima formulazione, ritenuta ancora provvisoria e astratta, lo Stato consiste nel monopolio della violenza fisica e simbolica, con un’evidente rimodulazione della tesi weberiana (Weber 1980; 1983) già rivisitata da Norbert Elias (1982; 1983)111 nei termini in cui sottolineava il monopolio del potere statale sui mezzi di coercizione e tassazione per eliminare la competizione su un territorio dato, tanto da far dire al sociologo francese che è il monopolio della violenza simbolica a costituire «la condizione per il possesso dell’esercizio del monopolio della stessa violenza fisica» (Ivi: 14). In tal senso, nel tentativo di costruire una nuova teoria del legame Stato-Potere che si smarca dagli approcci dominanti, come ha sottolineato opportunamente Swartz (2013: 146-147), si è data forse un’inclinazione eccessiva su questo versante, se si considera quanto non valga certo per tutti gli Stati una concentrazione monopolistica della violenza fisica legittima (si consideri solo l’uso delle armi negli Usa), né quanto l’ordine simbolico e la violenza che esercita, espressi in primis dalla ge- rarchizzazione prodotta e legittimata dal sistema scolastico, come costantemente affermerà Bourdieu, sia effettivamente sempre prioritario e performativo (si pensi ancora al caso statunitense, dove la smisurata crescita del sistema penitenziario è principalmente indirizzata a minoranze e poveri). Allo stesso tempo, non sembra privo di fondamento osservare come l’insistenza bourdieusiana, ancora agli inizi degli anni Novanta, sulla capacità simbolicamente e normativamente omogeneizzante dello Stato fosse almeno in parte fuori fuoco di fronte ad agenti che tendono in qualche modo a sfuggire ai suoi dettami: si pensi alle organizzazioni sovranazionali e allo stesso intreccio geopolitico, o, come ha sottolineato Hervé Rayner (2014), alla funzione simbolico-ordinatrice interpretata dalle agenzie di rating (in un periodo in cui si andava ad intensificare il processo di finanziarizzazione dell’econo- mia), alla penetrazione della televisione commerciale e alle campagne pubblicitarie delle multinazio- nali.

Tuttavia, nell’ottica bourdieusiana, lo Stato, in quanto culmine di un processo storico di

111 Proprio alla ricostruzione critica delle tesi di Elias, insieme a quelle espresse da Charles Tilly, Philip Corrigan e Derek

Sayer, come premessa indispensabile per articolare il modello bourdieusiano di sociogenesi dello Stato, è dedicato gran parte del secondo corso sullo Stato. Se i primi due autori hanno sviluppato principalmente il lascito weberiano, e in particolare Tilly ha tentato, attraverso «un’analisi multivariata», di rendere conto, ad un tempo, dei tratti comuni e delle variazioni osservate nei processi di costituzione dello Stato, quindi della concentrazione del capitale fisico delle forze armate, legato alla burocrazia dello Stato, e della concentrazione del capitale economico, legato alla nascita delle città, Corrigan e Derek hanno avuto il merito, per Bourdieu, di rompere con l’economicismo dei modelli precedenti e di evocare un’autentica rivoluzione culturale che dal loro punto di osservazione sarà alla base dello Stato moderno nei termini della costruzione di un insieme di forme legittime e codificate (a partire da una lingua nazionale) su cui si regge la vita sociale (Bourdieu 2012a: 589).

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unificazione e differenziazione, dunque provvisto di una relativa autonomia, «fonda l’integrazione logica e morale del mondo sociale» (Bourdieu 2013c: 15), disegnando al tempo stesso le condizioni di esercizio dei conflitti rispetto a quest’ultimo. In altri termini, esso diventa il collettore principe del consenso all’ordine sociale e degli scambi che conducono al dissenso. La pericolosa assonanza con le tesi classiche d’impronta liberal-contrattualistica che vorrebbero lo Stato come luogo neutro, de- dito al bene comune, punto di vista al di sopra di tutti i punti di vista, non è taciuta da Bourdieu, ma ad un simile approccio ordinario non è sufficiente opporre semplicemente la variegata tradizione marxista. Se quest’ultima a volte viene forse troppo forzatamente ridotta a unità dal sociologo fran- cese, in particolar modo per quanto concerne autori come Gramsci, Althusser e Poulantzas112, su cui in altra sede (anche) in dialogo con altri lavori (Cavazzini 2009; Laclau, Mouffe 2011) abbiamo ten- tato di mostrare differenze specifiche sullo stesso lato della concezione della statualità (Girometti 2012c; 2016b), è indubbio che vi sia una tendenza al suo interno ad inquadrare lo Stato in un’ottica strumentale, focalizzando principalmente l’attenzione su ciò che fa e a favore di chi lo fa. Tale im- postazione, per Bourdieu, la renderebbe contigua con l’approccio struttural-funzionalista di matrice parsonsiana, in questo caso declinato nei termini di uno struttural-funzionalismo del peggio, incapace di vedere la «struttura dei meccanismi che producono ciò che lo fonda» (Bourdieu 2013c: 16) in quanto marxianamente “comunità illusoria”. Non a caso, Bourdieu, nei suoi corsi sullo Stato, tende a sottolineare una certa egemonia analitica marxista anche sul lato funzionalista, malgrado il carattere politicamente avverso nei confronti di quest’ultima. Un esempio è dato dall’analisi bourdieusiana del testo di Shmuel Noah Eisenstadt, The Political System of Empires (1963), in particolare per quanto concerne i comuni assunti in merito alle «contraddizioni fra la concentrazioni di risorse che si svi- luppa, allo stesso tempo, a scapito e a favore dell’aristocrazia feudale» (Bourdieu 2013c: 126).

A sua volta, non aiuta a potenziare una lettura critica delle trame statuali l’atteggiamento spon- taneamente anarchico dedito a denunciarne le pratiche disciplinari e coercitive, destinato a riscuotere successo e, secondo Bourdieu, «a mantenerlo in eterno», inquadrando la problematica dello Stato in un già citato «funzionalismo del peggio» (Ivi: 17) contrapposto al «funzionalismo del meglio» rin- tracciabile nello Stato divinizzato come luogo neutro. Tuttavia, se «non si apprende nulla di un mec- canismo quando ci si interroga solo [corsivo mio] sulle sue funzioni» (considerando, ad esempio, lo Stato solo come garante ed esecutore degli interessi economici della classe dominante), è proprio in quanto «principio di ortodossia, di consenso sul senso del mondo e assenso consapevole sul senso del mondo [ossia di] illusione ben fondata» (Ibidem) che lo Stato svolge alcune delle funzioni che gli

112 In realtà, soprattutto rispetto agli ultimi scritti di Poulantzas (1979; 2009), intento a tratteggiare non solo l’autonomia

relativa dello Stato, come hanno ricordato Batou e Keucheyan (2014) parlando di un incontro mancato tra il sociologo

francese e l’intellettuale marxista, quanto il suo essere un soggetto produttivo attraversato da forme di conflittualità nei termini di condensazione di rapporti di forze tra classi, si potrebbe osservare più di una vicinanza con Bourdieu.

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attribuisce la tradizione marxista. Se ne può dedurre che, per quanto la posizione bourdieusiana risulti critica in questo campo rispetto al lascito marxiano – e soprattutto marxista –, il sociologo francese, tuttavia, non può fare a meno di evidenziare la centralità della nozione di accumulazione originaria, seppure declinata in termini non economicistici113, dato che senza l’accumulazione di risorse simbo- liche, valorizzate fin dai suoi studi sulla Cabilia per mostrare come le dimensioni etiche e mitiche possono riprodurre un determinato ordine economico di cui sono il prodotto trasfigurato114, non vi sarebbe la possibilità di riconoscere e legittimare, facendo leva sulla mera opzione coercitiva, la di- stribuzione ineguale delle diverse forme di capitale (a partire dallo stesso capitale economico) da parte di un agente storicamente costituitosi come lo Stato. Quest’ultimo, in quanto interessato da un processo di centralizzazione che corrisponde ad un processo di universalizzazione delle forme più disparate di capitale (segnato, secondo Bourdieu, da forme di continuità e non solo di vere e proprie rotture nei suoi passaggi ritenuti epocali, come ad esempio nel passaggio dall’assolutismo alla costi- tuzione del moderno Stato-nazione115) dà origine ad una forma di meta-capitale capace di deci-

dere/incidere sulle altre forme di capitale e sulla loro distribuzione, ossia il capitale statale come forma per eccellenza di capitale simbolico nelle società contemporanee. In tal senso, non dovrebbe stupire il tentativo bourdieusiano, accennato in sottofondo più che effettivamente sviluppato in questi

113 Occorre sottolineare che la critica bourdieusiana all’economicismo marxista procede di pari passo con la critica di chi

si contrappone tout court al marxismo rivalutando la centralità del capitale politico, ovvero nei termini in cui vorrebbe sostituire, come osservava Bourdieu, al «tutto-è-economico […] il tutto-è-politico, in un ribaltamento dal pro al contro, in cui Pareto è opposto a Marx» (Bourdieu 2013c: 118).

114 Sul concetto di capitale simbolico forgiato nel laboratorio algerino come forma di misconoscimento degli interessi

economici e più in generale sull’originalità della bourdieusiana teoria materialista dell’economia dei beni simbolici che vede nello Stato moderno il principale garante della conservazione e legittimazione delle relazioni di dominio ha partico- larmente insistito recentemente Gabriella Paolucci sottolineando la duplice costruzione sociale, sul lato dello Stato e del mercato, dove il secondo dipende dal primo e dove la stessa dicotomia Stato-mercato, in particolar modo sotto forma di opposizione di economia liberale e statalismo risulta priva di fondamento (Paolucci 2014a). In tal senso, Paolucci intra- vede un forte legame, seppure critico, con l’approccio demistificante marxiano rispetto al quale, come ha sottolineato in altre sedi (Paolucci 2010: 206-211; 2014c: 1-4), si manifesta una divergenza più strettamente politica ed epistemologica nei termini in cui per Marx il processo di emancipazione o sovversione dell’ordine esistente – detto altrimenti secondo la terminologia marxiana: «la realizzazione della filosofia» – è sempre mediato dalla prassi, mentre per Bourdieu il princi- pale, se non unico strumento di sovversione politica, è dato dalla conoscenza sociologica. Ciò, secondo la sociologa italiana, indebolirebbe (ed entrerebbe in contraddizione con) la stessa teoria bourdieusiana che postula la somatizzazione del dominio lasciando senza risposta la questione inerente ad una politica di emancipazione che, pertanto, andrebbe pen- sata con e contro Bourdieu.

115 È ciò che emerge, in particolare, dall’ultimo corso dedicato allo Stato dove si focalizza l’attenzione sulla logica di

accumulazione iniziale del capitale simbolico e, in particolare, sulle risorse specifiche del re in quanto Primus inter pares. In questi termini, lo Stato dinastico organizzato attorno alla famiglia reale e al suo patrimonio diventa – afferma Bourdieu – «il luogo di una contraddizione specifica legata alla coesistenza di un potere personale e di una burocrazia nascente» (Bourdieu 2012: 591). Vi sono già all’opera, in altri termini, due principi contraddittori di dominazione (incarnati dai fratelli del re e dai ministri del re) e due modi di riproduzione tramite la famiglia o tramite la scuola. Da qui i conflitti generati da tale contraddizione che conducono «da la maison du roi à la raison d’État assicurando lentamente [corsivo mio] il trionfo del principio “étatique” sul principio dinastico» (Ibidem). Ovviamente, sottolinea Bourdieu, in tale pas- saggio si assiste alla rottura dei legami di appropriazione personale delle istituzioni statali (e dei profitti che procurano) e ciò avviene grazie all’invenzione di una nuova logica statale in quanto prodotto di un lavoro collettivo di costruzione di un insieme di realtà sociali totalmente nuove che danno origine ad istituzioni incentrate sull’idea di pubblico (Ibidem).

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corsi, di conciliare Hegel con Marx, tanto che, subito dopo aver posto l’attenzione sulla «straordina- rietà del problema costituito dall’accumulazione originaria» il sociologo francese non esita ad affer- mare che l’analisi più prossima al suo discorso «è quella proposta da Hegel sul rapporto si- gnore/servo» (Ivi: 119) e successivamente sottolinea come «due visioni apparentemente antagoniste dello Stato sono in realtà come il recto e il verso dello stesso foglio: non c’è Stato hegeliano senza Stato marxista» (Ivi: 142).

Al contempo, se lo Stato per Bourdieu «è un principio di ordine pubblico» che come tale si basa sul consenso, sede e operazione paradigmatica della violenza simbolica, come pensare un’orga- nizzazione del consenso scissa dalla specifica struttura della temporalità, con l’avvento di un tempo pubblico (scandito da calendari e orologi), e dalla «produzione e canonizzazione delle classificazioni sociali» (Ivi: 19-22)? Da quest’ottica, si pensi al rapporto consustanziale tra Stato e statistiche, alle classificazioni socio-professionali, ai titoli di studio: si tratta di atti e produzioni propriamente statali. In altri termini, è nella produzione di identità statuali, quantificate e codificate, che lo Stato si mani- festa, cioè, sottolinea Bourdieu, la nostra identità è «un’identità di Stato» (Ivi: 23). Essa si dispiega nei suoi effetti e nel consenso collettivo che ne avvalora l’esistenza e dunque «lo Stato può essere considerato un’illusione solidamente fondata [corsivo mio], un luogo che esiste essenzialmente per il fatto che si crede alla sua esistenza» (Ivi: 25). In tal senso, è assai più probabile che sia attraverso le pratiche routinarie che «lo Stato moderno costituisce quei soggetti in nome dei quali afferma di esistere legittimamente» (Borghini 2009: 74).

Proprio per questo l’indagine di Bourdieu sui meccanismi che producono gli effetti di Stato non può prescindere dalla ricerca empirica irriducibile, tuttavia, ad una teoria generale di tipo storico- comparativo, dato che «si deve sempre evitare il grave errore» – che può accumunare storici e socio- logi – di «universalizzare inconsapevolmente il caso particolare, [traendo] conclusioni universali da un caso particolare non costituito nella sua particolarità» (Ivi: 147). Pertanto, se per Bourdieu la stessa «frontiera tra sociologia e storia» – come ribadirà in un importante confronto con lo storico Roger Chartier (Bourdieu, Chartier 2011) – non sembra avere alcun senso (Ibidem), e se nei suoi corsi farà riferimento alle vicende storiche che hanno interessato il caso francese e quello inglese, considerandoli consapevolmente come «casi particolari di un universo dei possibili», ciò risulta giu- stificato, da un’ottica epistemologica bachelardiana, dal fatto che tali particolarità hanno svolto il ruolo di modelli generali. Detto altrimenti: esse sono state «vicende singolari a partire dalle quali sono stati elaborati i modelli che in seguito si sono generalizzati» (Bourdieu 2013c: 145-146). Infatti, il sociologo, cercando di scappare dalla presa delle categorie che riflettono passivamente il pensiero di Stato, «fa qualcosa di analogo al colpo di mano con cui lo Stato si appropria del monopolio della rappresentazione legittima del mondo sociale» (Ivi: 68), ovvero «fa storia comparata su un caso

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specifico del presente, con il retropensiero di costruirlo come caso particolare restituendolo all’uni- verso dei casi possibili» (Ivi: 146-147).

Nel variegato percorso d’indagine intrapreso dal sociologo francese, l’occasione del suo in- contro non cercato con lo Stato, si è verificata in una ricerca, apparentemente eccentrica, sul mercato delle villette monofamiliari (lavoro successivamente sistematizzato nelle più volte richiamate Strut- ture sociali dell’economia). Bourdieu, spostando il centro dell’attenzione sulle «condizioni istituzio- nali della produzione [corsivo mio] sia della domanda sia dell’offerta di abitazioni» (Ivi: 29), rico- struisce a ritroso i passaggi che fanno del venditore di case, in un rapporto radicalmente asimmetrico, il venditore di credito (delegato da una banca) per acquistare una casa così come colui che, cono- scendo la normativa in proposito, è in grado di agire «come agente dello Stato» (Ivi: 33), mentre il cliente, da semplice compratore che si reca presso qualcuno che vende case in concorrenza con altri venditori, diventa colui che in realtà «acquista credito [corsivo mio] per acquistare una casa» (Ivi: 31). Le successive annotazioni sulla commissione presieduta da Raymond Barre nella prima metà degli anni Settanta al fine di lanciare una nuova politica abitativa in Francia incentrata su un aumento delle sovvenzioni per le persone piuttosto che per il ‘mattone’ (ovvero uno dei tasselli per integrare gli individui all’ordine costituito tramite il vincolo di proprietà secondo l’opzione del governo liberal- conservatore dell’epoca), rendono più esplicita l’entrata in scena dello Stato sotto una specifica forma. Esso, infatti, non è un “blocco” di apparati, bensì campo amministrativo – settore particolare del campo del potere nonché sviluppatosi storicamente in modo parallelo ad esso – che dà vita, attra- verso “regolamenti”, «ad uno spazio strutturato sulla base di opposizioni legate a forme specifiche di capitale e a diversi interessi» (Ivi: 38); in cui, dunque, operano figure eterogenee (ma non sovrappo- nibili, semplicemente, alle fratture del campo politico), e aperto all’intervento di agenti esterni al campo. Come afferma Bourdieu:

gli antagonismi che in tale spazio si localizzano hanno a che fare con la divisione delle funzioni organizzative associate ai differenti corpi. L’opposizione fra ministeri finanziari e di spesa o sociali appartiene alla sociologia spontanea degli alti funzionari pubblici. [Il che implica che] fino a quando esisteranno ministeri sociali si avrà una qualche forma di difesa sociale (Ivi: 38-29).

A tal proposito, com’è stato osservato da più parti (Swartz 2013; Paolucci 2014a), il carattere non unitario e conflittuale dello Stato è certamente una delle maggiori e più proficue acquisizioni bourdieusiane. Essa, peraltro, non può essere disgiunta dalla qualità della lotta che si dispiega all’in- terno dello Stato e sullo Stato. In effetti, le forze, sia più strettamente sociali ad esso esterne sia più propriamente burocratiche ad esso interne, coinvolte in tale conflitto, mirano ad ottenere il monopolio sulla violenza simbolica legittima tesa ad affermare (e a riprodurre) una determinata (di)visione del mondo sociale. Diversi, dall’osservatorio francese, sono anche i referenti sociali di classe della lotta

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interna al campo burocratico, dove l’”alta nobiltà di Stato”, ovvero la “mano destra dello Stato”, che occupa prevalentemente i ministeri di orientamento economico-finanziario, proviene principalmente dalle classi più abbienti, mentre la “piccola nobiltà di Stato”, cioè la “mano sinistra dello Stato”, risulta particolarmente presente nelle sfere amministrative dedite alle politiche di welfare ed in genere proviene da strati sociali medi (o medio-bassi). Pur non essendo così chiaro come e se la “piccola nobiltà di Stato” sia in grado di resistere alla cattura di un’organizzazione, che è innanzitutto cogni- tiva, tratteggiata da Bourdieu in termini principalmente top-down (Swartz 2013: 146) ed in cui è il conflitto tra le diverse élites che diventa il centro di un possibile rivolgimento a favore delle stesse classi sociali medio-basse, lo Stato (nell’ottica bourdieusiana in stretta correlazione con il campo politico pur non essendo riducibile ad esso) diventa l’ultima risorsa del potere simbolico116. Esso, in effetti, come il sociologo preciserà in una conferenza dedicata agli Spiriti di Stato nel 1991, ha con- tribuito a unificare un mercato culturale nazionale (Bourdieu 20092; 89-119) fino a diventare la banca

centrale del credito, come aveva già anticipato ne La Noblesse d’État. In definitiva, promuovendo una teorizzazione materialista del simbolico ed accentuando le sedimentazioni teoriche durkheimiane tendenti a evidenziare un’omologia tra strutture mentali e realtà sociale, così come a correlare un conformismo logico ad uno morale, esso incorpora un «meta-potere capace di agire sui differenti campi» (Bourdieu 2012a: 489) in quanto banca centrale del capitale simbolico e dunque «principale produttore di strumenti di costruzione della realtà sociale» (Ivi: 266). Allo stesso tempo, proprio in quanto banca centrale sui generis del capitale simbolico, «luogo in cui si generano e si garantiscono tutte le monete fiduciarie che circolano nel mondo sociale (Champagne 2014)», lo Stato garantisce tutti gli atti d’impostura legittima come nel caso del misterioso potere di nomina che Bourdieu in più di un’occasione tende a chiamare «magia di Stato», non diversamente dalle pratiche magiche descritte da Marcel Mauss (Paolucci 2014a: 67). Dunque, «avendo il monopolio del potere simbolico, lo Stato è il depositario dell’universale» (Lenoir 2014: 10) ed in questo senso diventa «il luogo geometrico di tutte le prospettive possibili». Tale potere simbolico ha dunque effetti concreti e lo si ritrova in azione anche, se non soprattutto, nella capacità dello Stato d’intervenire, costruire o perlomeno regolare i più disparati mercati, mentre, a sua volta, la commissione – su cui Bourdieu si sofferma nelle sue prime lezioni sullo Stato discutendo il suo lavoro sulle villette monofamiliari – si presenta come «un’invenzione organizzativa» (Bourdieu 2013c: 49) paradigmatica nella costruzione sociale e pub- blica della realtà: la selezione dei componenti ritenuti socialmente idonei e dei problemi degni di essere trattati pubblicamente ne traccia i confini; la teatralizzazione ne rappresenta il modus operandi, il riconoscimento del carattere ufficiale e la performatività del cerimoniale ne sanciscono l’efficacia.

116 Il fatto che lo Stato rappresentasse l’ultima risorsa del potere simbolico si poteva già intravedere nitidamente in un

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