• Non ci sono risultati.

Quale genealogia per il concetto di capitale?

Rintracciare e indagare le origini del concetto di capitale nella sociologia bourdieusiana im- plica un lavoro di scavo nell’opera del sociologo francese, in particolar modo nei suoi primi lavori dove è già presente l’assunzione progressiva di un lessico di matrice economica sulla cui adozione ha sicuramente inciso, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, da un lato, l’ascesa in termini di prestigio e riconoscimento della scienza economica, dall’altro, la vicinanza, fisica e lavorativa, con economisti e statistici di formazione neoclassica incontrati in Algeria, così come il successivo rapporto con l'Institut national de la statistique et des études économiques (Desrosières 2004) egemonizzato da una cultura keynesiana. Di certo, tale influsso ha spinto il sociologo di for- mazione filosofica (marcando ulteriormente, anche se solo parzialmente, un distacco con la propria formazione) ad assumere e rielaborare il concetto di capitale propriamente economico, tanto da im- metterlo, con un intento volutamente provocatorio, nelle scienze sociali e innanzitutto in campi quali l’educazione e la cultura che si presentavano e percepivano tendenzialmente al di fuori, se non in

opposizione, ad esso.

Se, come abbiamo già accennato, l’aspetto propriamente economico di tale concetto non sem- bra meritare particolari approfondimenti, anche se risulta significativo come Bourdieu tenda a opera- zionalizzarlo in termini di «habitus economico» nel saggio sulle forme di capitale (Prieur, Savage 2011), e a consideralo in particolar modo nella sfera del consumo piuttosto che della produzione

36

(Bourdieu 2004a), nondimeno l’opzione bourdieusiana si è sviluppata (quasi) parallelamente a quella intrapresa dai «teoretici del capitale umano» – come li definiva Bourdieu –, di cui Gary S. Becker è l’esponente più noto e discusso, che dalla fine degli anni Cinquanta, con indubbio successo mediatico e politico, hanno tentato di estendere la logica strettamente economica ai diversi campi della vita umana.

Si è già rapidamente accennato a quanto l’operazione bourdieusiana diverga epistemologica- mente e politicamente da tale postura teorica (anche se lo analizzeremo più dettagliatamente nel suc- cessivo capitolo), tanto che Bourdieu tenderà a valorizzare l’efficacia specifica delle singole forme di capitale, in un rapporto complesso di surdeterminazione che non esclude il rinvio al capitale eco- nomico senza però farne il centro unico dei rapporti sociali e senza ridurlo alla sua nudità materiale, dato che anch’esso è sottoposto a forme di riconoscimento simbolico, dunque all’affezione di una logica altra. In tal senso, è abbastanza comprensibile che la prima formulazione – anche in termini nominalistici – del concetto di capitale bourdieusiano sia quella di capitale culturale, incontrato nelle sue ricerche empiriche in ambito educativo innanzitutto in termini di eredità e privilegio culturale come emerge in un testo del 1964 come Les héritiers e, in una prima approssimazione concettuale in tal senso, come ha notato Derek Robbins (2006: 491), nel rapporto di ricerca curato con Jean-Claude Passeron (nello stesso anno) Les étudiants et leurs études. Ad ogni modo, il sintagma capitale cultu- rale appare per la prima volta nel saggio del 1966 La transmission de l’héritage culturel, parte del testo collettaneo Le partage des bénéfices, expansion et inégalités en France (Darras 1966) in cui sociologi, statistici ed economisti evocano i meccanismi di trasmissione dell’eredità economica e culturale che contribuiscono a promuovere «una sorprendentemente forte inerzia sociale» in tempi in cui i discorsi sulla “mutazione” e la “massificazione” sociale risultavano dominanti (Lebaron 2004: 124). In questo testo i contributi di Bourdieu (Bourdieu, Darbel 1966, Bourdieu 1966a, Bourdieu 1966b) – in tempi di egemonia keynesiana in cui si assumeva acriticamente come crescita economica e stabilità rappresentassero una sorta di optimum sociale – tendono dunque ad evidenziare la sottova- lutazione dell’inerzia sociale, cioè la differenziata produzione di disposizioni culturali tra gli attori sociali nell’adattarsi ai mutamenti sociali, con un evidente scarto rispetto alla credenza in attori sociali considerati senza dubbio razionali (che assomigliano assai più ad attori senza passato) capaci di ri- spondere positivamente a mutamenti che si ritengono prioritariamente economici. Il capitale culturale ne La transmission de l’héritage culturel si presenta, insieme al concetto di ethos, come declinazione dell’eredità culturale, quindi con la funzione di descrivere il carattere diseguale che la caratterizza in base all’appartenenza di classe. Più precisamente, Bourdieu mette in luce, come nei precedenti lavori sul medesimo tema, l’effetto specificamente culturale di tale differenziazione osservando come

37

ogni famiglia trasmette ai figli, per vie dirette piuttosto che indirette, un certo capitale culturale e un certo ethos, sistema di valori impliciti e profondamente interiorizzati, che contribuiscono a definire tra le altre cose (entre autres choses) le attitudini a riguardo del capitale culturale e dell’istituzione scolastica (Bourdieu 1966a: 388).

Bourdieu poteva osservare, in prima istanza, come, a parità di reddito, il rendimento scolastico variasse in base al fatto che la figura paterna in seno ad una famiglia avesse o meno un diploma, ma, ad un’osservazione più in profondità, era il «livello culturale globale di un gruppo famigliare» (inteso in senso ampio, tanto da comprendervi la prima e la seconda generazione, oltre che la residenza) che spiegava la riuscita scolastica, tanto che poteva già anticipare la conclusione per cui «l’azione dell’ambiente familiare sul rendimento scolastico è pressoché culturale» (Ivi: 389). Un’ulteriore con- ferma in tal senso, studiando gruppi omogeni di studenti (in particolare nel settore umanistico) in relazione alla differente appartenenza di classe, era evidenziata dal fatto che «la parte di capitale culturale che è più direttamente redditizia nella vita scolastica è costituita dall’informazione sul mondo scolastico e sui cursus», In altri termini, è quella parte massimamente celata di trasmissione culturale che veniva messa a valore da parte di coloro che detenevano «un capitale d’informazioni» che gli consentiva di fare le scelte più efficaci nella carriera scolastica (con conseguenti ricadute post- scolastiche). In tal modo, sottolineava il sociologo francese, gli studenti “migliori” ereditavano dei saperi e delle capacità di saper fare, beneficiando di quella «cultura “libera”, condizione implicita della riuscita in certe carriere scolastiche» (Ivi: 393-394), assai inegualmente ripartita tra studenti con origini di classe differenziate. Tra di loro prendeva forma spontaneamente quella disposizione kan- tiana di distaccato e disinteressato gusto estetico, come Bourdieu rimarcherà ne La Distinction (anche se successivi studi di altri ricercatori mostreranno evidenze non significative su questo fronte, quanto invece una tendenza culturale onnivora nelle classi più avvantaggiate33). In questo ambito la lingua

33 In particolare, si vedano Bennett, Silva 2011; Lahire 2004. Allo stesso tempo, Alan Warde e Mike Savage, riportando

sinteticamente i principali risultati emersi da una vasta indagine sul capitale culturale in Gran Bretagna (ricalcando l’ope- razione bourdieusiana condensata ne La Distinction) condotta nel 2003 (Bennet, Savage, Silva, Warde, Gayo-Cal, Wright 2009), hanno evidenziato la necessità di riformulare tale concetto in termini di «capitali, dotazioni e risorse», intensifi- cando l’aspetto legato a quanto possono essere accumulati e convertiti in altre forme di capitale ed in termini che non sono riducibili soltanto a relazioni di sfruttamento. Tutto ciò indebolendo la complessa teoria bourdieusiana tesa a mo- strare la riproduzione dei vantaggi sociali della classe media in cui il sociologo francese impiegava, come sostengono gli autori, diversi concetti – come quello di habitus – di difficile applicazione empirica. Nel complesso, Warde e Savage, ritenendo ormai difficile identificare un contrasto diretto tra cultura “alta” e forme culturali popolari (dove le seconde sarebbero il polo negativo della prima, non vedendo quanto le culture popolari stesse non sono meramente schiacciate sulla necessità e dunque prive di astrazione come Bourdieu tendeva, o sembrava tendere, ad accreditare), così come sta- bilire rigide culture legittime, hanno osservato come l’approccio disinteressato kantiano non è un elemento significativo di distinzione rispetto ad una tendenza onnivora (tipicamente post-moderna) osservabile tra le classi più elevate (dove forse è l’abilità a spaziare tra diverse forme culturali che risulta distintiva e remunerativa) e, per quanto un titolo di studio elevato giochi un ruolo dirimente nell’apprezzare forme artistiche più raffinate (ad esempio la fruizione di musica clas- sica), ciò non sembra promuovere un visibile conflitto culturale tra le classi. Di certo, osservano gli autori, dagli anni Ottanta la cultura “alta” non si trasforma più in status sociale e reputazione, tanto che essere considerati posh (raffinati) piuttosto che ricchi è socialmente privo di valore (Warde, Savage 2009: 27-50). Su questo versante, Erik Neveu (2018: 355), ritornando sulle conclusioni degli autori sopra citati, ha invece osservato che Bourdieu non essenzializza il capitale culturale identificandolo con determinati beni e habitus propri della classe dominante in un determinato contesto storico, bensì osserva sociologicamente come la cultura sia una risorsa all’interno di rapporti di potere e di distinzione tra le classi

38

stessa34, ricordava Bourdieu, assumeva un valore significativo, dato che non è un semplice strumento ma una sintassi, cioè «un sistema di categorie più o meno complesso» che mette in condizione di «decifrare e manipolare» le strutture complesse. La sua complessità era direttamente proporzionale alla lingua inizialmente parlata nell’ambiente familiare e in tal senso non poteva che avere ricadute diseguali nella resa scolastica. In definitiva, l’eredità culturale si trasmetteva in «modo osmotico», anche in «assenza di uno sforzo metodico e di un’azione esplicita», e ciò non poteva che rafforzare l’idea tra la «classe cultivée» che il sapere di cui era portatrice era dovuto alle proprie intime capacità, dimenticando quanto queste ultime fossero il risultato di un apprendimento in gran parte reso invisi- bile (Ivi: 395-396). Nelle successive sezioni del saggio Bourdieu si sofferma sulla combinazione di capitale culturale ed ethos sottolineando come essa delinei la scelta del destino scolastico (Ivi: 401- 405), fino a giungere a mettere in discussione la falsa neutralità della scuola (Ivi: 405-409), dunque la sua tendenza a riprodurre le disuguaglianze culturali, evidenziando le décalage tra ideali democra- tici che la ispirano e la realtà dell’occultamento delle disuguaglianze socio-culturali in cui la scuola opera.

Allo stesso tempo, Bourdieu, da un lato, come ebbe già modo di anticipare nel saggio scritto con Passeron Sociologues des mythologies et mythologies des sociologues (Bourdieu, Passeron 1971b: 17-46), contesta quella che definisce una mitica omogeneizzazione culturale apportata dai nuovi media come la TV, dall’altro, si mostra assai critico rispetto ai tentativi di supplire alle man- canze culturali delle classi popolari (sanzionate dalla scuola) con attività di educazione popolare ex- tra-scolastiche (come ad esempio les maisons de la culture). Queste ultime – fondate sull’idea che le opere possano essere semplicemente portate al popolo (in mancanza di una direzione inversa) – gli appaiono scorciatoie, in quanto «incapaci di affrancarsi definitivamente dall’ideologia secondo la quale il confronto con l’opera è sufficiente, da solo, a determinare una disposizione durevole per [promuovere] la pratica culturale» (Bourdieu 1966a: 415). Al contempo, esse risultano assai meno efficaci (nel perseguimento dei loro obiettivi) di un effettivo rafforzamento e riorientamento delle attività scolastiche, le uniche che potrebbero promuovere quella formazione che la classe cultivée già possiede. Non a caso, come concluderà (insieme a Passeron) ne Les héritiers

in mancanza di una pedagogia razionale [corsivo mio] che usi ogni mezzo per neutralizzare metodicamente e con conti- nuità, dalla scuola materna all’Università, l’influenza dei fattori sociali di disuguaglianza culturale, la volontà politica di

e che esso, dunque, è un campo di battaglia tra gruppi sociali per la consacrazione di stili e prodotti culturali in linea con specifici valori e interessi. Pertanto, vi sarebbe una reinvenzione continua di differenze culturali e di forme di legittima- zione. Inoltre, gli stessi onnivori culturali hanno uno specifico profilo sociale (conclusione alquanto bourdieusiana…) e la tendenza verso una parziale convergenza di gusti e pratiche culturali è sempre connessa con una durevole repulsione per determinati oggetti culturali ritenuti più infimi.

34 Su questo versante è stato notato – con fondate ragioni – quanto il concetto di capitale culturale abbia avuto una prima,

39

dare a tutti uguali possibilità nei confronti della scuola non può eliminare le reali disuguaglianze, anche quando si arma di tutti i mezzi istituzionali ed economici (Bourdieu, Passeron 1971a: 123-124).

In tal senso, è assai rimarcabile osservare come Bourdieu richiami, seppure solo con una fi- nalità euristica in contrapposizione al mito della mobilità perfetta che garantirebbe la scuola, la tesi di Tommaso Campanella ne La Città del Sole in cui l’utopista italiano si proponeva «un’immediata e reale situazione di mobilità perfetta» (Bourdieu 1966b: 419) che rendesse assolutamente indipen- dente la posizione del padre e dei figli tramite l’allontanamento, dalla nascita, dei figli dai loro geni- tori. In effetti, così, come hanno dimostrato ricerche empiriche sui figli adottivi citate da Bourdieu35, si annullerebbe il diseguale capitale culturale trasmesso all’interno della famiglia. In definitiva, con- clude Bourdieu, «il miglior modo […] di misurare la realtà di una società “democratica” […] consiste nel misurare le possibilità di accedere agli strumenti istituzionalizzati di ascensione sociale e culturale che essa accorda agli individui di differenti classi sociali» (Ivi: 420). Il concetto di capitale cul- turale è parallelamente messo alla prova nei campi della fotografia e dell’arte. In particolare, in quest’ultimo, con l’ausilio di un modello statistico di regressione lineare (Bourdieu, Darbel, Schnap- per 1972) – che successivamente Bourdieu troverà metodologicamente sempre più inadeguato adot- tando, in ambito quantitativo, una rappresentazione geometrica dei dati (Lebaron 2010: 11-45; Le Roux 2014; Lebaron, Le Roux 2015) – che gli consente di rilevare il diseguale accesso ai musei osservabile tra le differenti classi sociali. Tuttavia, è ancora nel campo della sociologia dell’educa- zione, nell’ultima opera faticosamente condivisa con Passeron – La Reproduction –, da cui quest’ul- timo mostrerà un progressivo distacco epistemologico (Passeron 2016), che si delinea un’ulteriore sistematizzazione concettuale, a volte volutamente ostica (si consideri la prima parte dell’opera che tenta di riproporre lo stile dell’Etica spinoziana con il suo metodo geometrico strutturato in assiomi, proposizioni e scolii) in cui, nell’analisi dei sistemi d’insegnamento, si mette alla prova il concetto di capitale culturale in relazione con la comunicazione pedagogica (Bourdieu, Passeron 1972: 121-164). All’interno di un quadro teorico in cui si pone l’assioma per cui ogni potere di violenza simbolica – che altro non è che la capacità d’imporre significati legittimi dissimulando i rapporti di forza su cui si basa – aggiunge una forza specificamente simbolica a determinati rapporti di forze e che, conse- guentemente, ogni azione pedagogica, implicante un lavoro pedagogico d’inculcamento di un arbi- trario culturale, è oggettivamente una forma di violenza simbolica promossa da un’autorità pedago- gica connessa ad un determinato sistema scolastico istituzionalizzato (Ivi: 44-118), i due sociologi, con l’intento di trattare «il rapporto pedagogico come un semplice rapporto di comunicazione» e di misurarne il rendimento informativo (in particolare nelle facoltà di lettere) quale principale indice di

40

produttività specifico del lavoro pedagogico e così giungere ad individuare il principio primo delle ineguaglianze della riuscita scolastica dei bambini in base alle differenti classi scolastiche (Ivi: 121- 122), pongono l’accento sulle ineguaglianze dinnanzi alla selezione e le ineguaglianze di selezione (Ivi: 122-147). In altri termini, i due autori pongono quale tratto essenziale e costitutivo del loro oggetto di ricerca, prima di ogni criterio analitico che rinvii al genere o a qualsiasi altra caratteristica sociale considerata strutturale dell’universo considerato, come la popolazione di riferimento (in que- sto caso gli studenti) è stata inegualmente selezionata e quanto ciò pesa (e tende ad essere occultato) nella composizione dell’oggetto di studio. Successivamente, utilizzando la relazione tra capitale lin- guistico e grado di selezione, Bourdieu e Passeron discutono e spiegano le variazioni che via via si osservano tra le varie componenti di studenti sopravvissuti ad un processo di selezione che, nel pre- miare, in ultima istanza, chi è in grado di far fruttare il proprio capitale culturale antecedente tende a stemperare, apparentemente, le differenziazioni di classe ma solo nei termini in cui riproduce la sua logica conservatrice di fondo: ovvero consacrando chi è – inegualmente – capace di adattarvisi o rispecchiarvisi.

In definitiva, i due sociologi, vedendo indebolite le loro proposte e aspettative verso una ri- forma del mondo scolastico in termini di pedagogia razionale, tratteggiano un sistema d’insegna- mento (quello francese della fine degli anni Sessanta) che, dopo l’ondata della contestazione studen- tesca e l’ampliamento del pubblico che poteva accedervi, non sembrava scalfito nella sua capacità relativamente autonoma di riprodursi, essendo incapace di avvertire il mutamento in atto se non in termini di «disagio pedagogico» ma inibendosi la possibilità di una trasformazione dell’azione peda- gogica. Pertanto, la crisi del sistema scolastico non faceva altro che rendere visibile l’aspirazione di fondo del sistema, cioè «esigere tacitamente un pubblico che poteva soddisfarsi dell’istituzione per- ché soddisfaceva di primo acchito alle sue esigenze» (Ivi: 160). Aspirazione che continuava a persi- stere e a operare selezioni conseguenti, come la scelta di concentrare l’indagine sul sistema scolastico in quanto sistema di comunicazione attestava. In tal senso, gli autori potevano concludere che

un sistema scolastico determinato compie per di più la sua funzione sociale di conservazione [corsivo mio] e la sua fun- zione ideologica di legittimazione attraverso i modi specifici secondo i quali compie la sua funzione tecnica di comuni- cazione (Ivi: 164).

Il concetto di capitale simbolico, a sua volta, ci sembra rintracciabile nelle sue forme germinali fin dalla prima opera di Bourdieu, Sociologie de l’Algérie, in cui il sociologo francese ha avuto modo di osservare i mutamenti culturali in atto indotti forzatamente dal colonialismo francese (Robbins 2005: 16). In quest’ultima, infatti, emergono già nitidamente i principali elementi in cui si articolerà quella che possiamo definire l’antropologia economica bourdieusiana. Li si può rintracciare, in prima istanza, nella descrizione della struttura sociale cabila, quando il sociologo francese tratteggia la

41

condizione subalterna della donna cabila, il suo configurarsi come mezzo per accrescere la famiglia e rinsaldare i legami sociali, all’interno di una logica precapitalistica (patriarcale), in cui lo scambio tra matrimonio e dote non è inquadrabile come una vendita (la sposa in cambio di risorse che il padre del fidanzato dà al padre della fidanzata), quanto, sostiene Bourdieu riprendendo un’elaborazione maus- siana (Mauss 2002), come «uno scambio tra doni e contro-doni» non riducibile a calcolo meramente economico – aspetto proprio delle società moderne. In tale contesto, pertanto, «la dote è un contro- dono e il matrimonio è uno scambio che può creare alleanze […] e che prende la forma di dono reciproco perché la relazione tra matrimonio e dote non è arbitraria, [dato che] il matrimonio era parte integrante dei doni che l’accompagnavano» (Bourdieu 1958: 15-16). Essa, infatti, non fa altro che ristabilire un equilibrio incrinato, tanto che se la morte del marito avviene prima di quella della mo- glie, la dote viene restituita e la donna rientra nella sua famiglia di origine. Ciò deve avvenire anche in caso di ripudio della moglie, se non si vuol mettere in discussione il principio base di tali società – l’onore, massima espressione del capitale simbolico che per Bourdieu struttura tali società, come dirà più esplicitamente nelle opere successive –, dato che solo così si mostra che una sorta di contratto si è rotto ma che al contempo il principio di reciprocità è rimasto inalterato in una società in cui il ruolo del gruppo e della solidarietà di gruppo è chiaramente predominante rispetto all’individuo, di per sé impensabile al di fuori di esso (Ivi: 15-18). In questo studio, come ha suggerito Frédéric Lebaron (2004:120), si assiste già ad un tentativo di appropriarsi e rielaborare alcune categorie marxiste come quando si tenta di trasporre la nozione di “riproduzione semplice” allo studio del tempo ciclico delle società tradizionali ed in tal senso un primo esplicito accenno al sintagma capitale simbolico lo si può rintracciare nelle pagine successive del testo, in particolare nella sezione dedicata agli arabofoni. In questa parte, Bourdieu descrive le diverse componenti arabofone:

i cittadini, raggruppati in corporazioni fondate su codici d’onore che implicano rispetto reciproco. In questo ambito Bourdieu si sofferma sul carattere dimensionale ristretto delle imprese in cui non si manifesta un’opposizione tra le classi, dato che il livello non troppo accentuato di differenziazione non predispone ad una percezione di questo tipo, anche perché «l’attività economica è controllata da un funzionario religioso con il compito di far regnare l’onestà nelle transazioni e di vegliare a che i precetti coranici vengano osservati» (Bourdieu 1958: 55-56). Bourdieu sottolinea come le città sono i luoghi di residenza dei moralisti, degli asceti e dei giuristi, che ad un tempo si contrappongono al

Outline

Documenti correlati