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Una dominazione inscalfibile contro la democrazia? Jacques Rancière critico di Bourdieu

pitale politico

4. Critica dei doxosofi, democrazia del pubblico, odio per la democrazia Bourdieu tra cri tica della doxa democratica ed emancipazione

4.3 Una dominazione inscalfibile contro la democrazia? Jacques Rancière critico di Bourdieu

Una delle distinzioni di fondo che animano le argomentazioni di Manin consiste nell’aver posto in risalto come vi sia uno scarto sostanziale tra democrazia degli antichi e democrazia dei mo- derni. In particolare, come non vi sia continuità tra la polis ateniese e la costituzione dei moderni regimi rappresentavi. Ciò che caratterizzerebbe la prima, insieme ed ancor prima di un esercizio di- retto del potere secondo la classica (e semplificante) distinzione tra democrazia rappresentativa e

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diretta, è l’eguale possibilità di accedere alle cariche pubbliche o almeno ad alcune di esse, nonché la centralità rivestita dalla rotazione delle medesime. Infatti, ricorrendo in particolar modo ad uno studio di M. H. Hansen (2003), Manin si addentra nell’analisi delle istituzioni ateniesi per metterne in luce la differenza specifica, facendone un uso paradigmatico nella comparazione con i regimi rappresen- tativi. In esse, la centralità esercitata dall’ekklesia (ossia dall’Assemblea popolare) non risultava esclusiva. L’estrazione a sorte riguardava gran parte di determinate cariche (magistrature) e prescin- deva da un’eventuale “misurazione” delle capacità richieste. Tali cariche erano di natura volontaria e, soprattutto, chi le esercitava era passibile di giudizio e di possibili condanne sia durante che al termine del proprio mandato annuale. Ad esse si affiancavano altre cariche, di tipo elettivo, in genere quelle più rilevanti in cui la competenza era considerata un elemento imprescindibile e in questo caso era prevista la rielezione, ed è evidente che intervenisse anche un meccanismo di valutazione ex ante e non solo ex post. È pur vero che per chi era nominato attraverso l’estrazione a sorte interveniva una forma di autoselezione dettata dalla combinazione di volontarietà e conoscenza dei rischi cui andava incontro. Tuttavia, suggerisce Manin, una lettura che riducesse il peso esercitato dal sorteggio nel sistema ateniese non risulterebbe particolarmente convincente. Esso riguardava organi come il Con- siglio (boulé), direttamente legato all’ekklesia, le cui prerogative specifiche, secondo Aristotele, ne facevano la magistratura più importante in quanto «preparava l’agenda per l’Assemblea e attuava le sue decisioni» (Manin 2010: 22). Lo stesso dicasi per le “corti popolari” le cui funzioni erano anche di natura espressamente politica vista la possibilità da parte di qualsiasi cittadino di fare causa contro una proposta (legge o decreto che fosse) giudicata dannosa per l’interesse pubblico. Se ne deduce, pertanto, che la stessa ekklesia era sottoposta al vaglio delle corti e che oltre all’Assemblea vi erano altre istituzioni che esercitavano una funzione politica di pari rilevo e che, dunque, ridurre il demos all’ekklesia è analiticamente errato. In tal senso – si chiede Manin – come non vedere nell’estrazione a sorte il principio che determina il carattere “diretto” dell’esercizio del potere nella polis? Esso ri- sulterebbe intrinsecamente democratico, a differenza delle elezioni che invece Aristotele delineerà come costitutivamente oligarchiche/aristocratiche, pur limitandosi ad un’osservazione empirica. Ma- nin, pertanto, nel suo testo dedicato al governo rappresentativo, identificherà le elezioni come tratto specifico delle democrazie moderne contraddistinte da un governo rappresentativo. Esse non garan- tiscono che siano selezionati i “veri” áristoi individuabili sulla base di una misurazione, per quanto approssimativa, di carattere “oggettivo”, né che essi corrispondano all’élite designata da Vilfredo Pareto nel Trattato di sociologia generale: non è garantito che gli eletti siano coloro che sono classi- ficati «ai livelli più alti di “capacità” nella loro sfera d’attività» (Pareto 1964: 163). È invece vero, secondo Manin, che tramite le elezioni si «selezionano superiorità percepite e differenze reali» (Ma- nin 2010: 165). E, tuttavia, i caratteri aristocratico-inegualitari coesistono indissolubilmente con

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aspetti democratico-egualitari. La possibilità (almeno in teoria) per tutti i cittadini di votare ed essere eletti ne rappresenta la declinazione prioritaria. In definitiva, le elezioni «sono allo stesso tempo ine- vitabilmente egualitarie e inegualitarie, aristocratiche e democratiche» (Ivi: 166) – tendenza che se- condo Manin tra i teorici politici moderni sarebbe stata evidenziata solo da Carl Schmitt (1984) – ed è proprio l’intreccio indissolubile tra elementi democratici ed aristocratici – «la combinazione di ele- zioni e suffragio universale» (Manin 2010: 171) – che secondo Manin ha alimentato la fortuna del sistema rappresentativo.

Non a caso, recuperando da tutt’altra prospettiva le tesi di Manin, il filosofo francese Jacques Rancière in un testo come La haine de la démocratie (Rancière 2007a) intravede proprio nell’estra- zione a sorte l’elemento intrinsecamente politico e democratico che si sovrappone ai poteri asimme- trici naturali della nascita e della ricchezza, costringendoli a riconfigurarsi. Esso è «il requisito non requisito» che legittima, in primis, «un “governo” anarchico [corsivo mio], fondato solo sull’assenza di ogni titolo per governare» (Ivi: 51-52). Ne conseguirebbe l’impossibile riduzione della democrazia ad un sistema politico-costituzionale – ogni regime giuridico è costretto perennemente ad incrociare eguaglianza ed ineguaglianza –, la natura assolutamente contingente che la connota, il suo basarsi sull’assenza di fondamenti, sul potere del popolo nei termini di potere di chiunque. Tali conclusioni, tuttavia, poggiano su un postulato, per quanto indimostrabile esso sia (e che Rancière non intende dimostrare facendone un assioma irrinunciabile di qualsiasi politica che voglia l’emancipazione), e sul suo carattere performativo: l’eguaglianza delle intelligenze come dato ipoteticamente reale, punto di partenza per pretendere l’eguaglianza.

Questa prospettiva non poteva che entrare in collisione con un approccio come quello bour- dieusiano (Rancière 1983: 239-288; 1984: 14-36; 1999: 133-147; 2011: 75-83) intento a descrivere i meccanismi di riproduzione del dominio (seppure per tentare di disinnescarli), in particolar modo simbolico. La capacità di questi ultimi di attraversare e affettare le formazioni sociali più diverse, svuotando – almeno parzialmente – di senso le parole della democrazia e in particolare la capacità (non solo) discorsiva delle classi più deboli di reagire e sfuggire alla dominazione sono ciò che Ran- cière sembra non voler vedere o, meglio ancora, che dalla sua prospettiva risulta impensabile assu- mendo come centrale l’eguaglianza degli umani in quanto esseri parlanti. In quest’ottica, se secondo Bourdieu la dominazione ha per effetto di limitare le possibilità di pensare e di agire dei dominati, come ribadirà ne La Domination masculine (Bourdieu 20143: 47) in cui la sottomissione femminile assume il carattere paradigmatico delle diverse forme di dominazione98, e se «la politica è anche lotta

98 Occorrerebbe uno studio ad hoc sulla travagliata ricezione femminista di quest’opera bourdieusiana che qui non siamo

in grado di sviluppare. Per una sintesi si vedano alcune pagine di Gabriella Paolucci nella sua densa introduzione a Bour- dieu (Paolucci 2011: 154-157).

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per la definizione delle frontiere del pensabile [e] del visibile» come dirà Charlotte Nordmann (2006: 10) nel tentativo d’incrociare le prospettive di Bourdieu e Rancière e di pensare la politica in termini di emancipazione, i dominati non possono che rompere l’ordine sociale costituendo categorie di pen- siero alternative a quelle del “senso comune” in quanto promosse dallo stesso ordine. Essi, pertanto, devono, «sviluppare un pensiero e una parola autonoma» (Ibidem). Ed è su questo punto – non certo sulla finalità di promuovere una politica di emancipazione, dunque una politica radicalmente demo- cratica – che i percorsi teorici dei due autori divergono o sembrano non incontrarsi in alcun modo.

In prima istanza, per Rancière, vi è una diffidenza nei confronti delle scienze sociali che sem- bra assumere le forme del preconcetto, tanto che un allievo di Bourdieu come Louis Pinto ironizzerà amaramente affermando che «l’amore (proclamato) di Rancière per il popolo è direttamente propor- zionale al suo odio (molto reale) per le scienze sociali» (Pinto 2014: 197). In realtà, per il filosofo francese vi è qualcosa d’intollerabile «nell’idea che le capacità degli individui possano essere deter- minate dalla loro posizione sociale» (Nordmann 2016: 13) in quanto tutti gli uomini sarebbero «egualmente suscettibili» (Rancière 1999: 134) dall’essere toccati da enunciati politici o da testi let- terari. Se così non fosse, qualsiasi opzione propriamente politica, cioè capace di sovvertire i rapporti di forza esistenti, risulterebbe impossibile lasciando campo libero alla riproduzione dell’ordine so- ciale. Ed è proprio qui che cade l’accusa nei confronti della sociologia, e in particolar modo della sociologia bourdieusiana, qualificata, ad esempio, come «nichilistica» nella sua interpretazione della scuola in quanto intenta a mostrare come dietro l’uguaglianza, assunta come niente più che una ma- schera, si cela la disuguaglianza che in qualche modo si tratterebbe al massimo di ridurre e in ogni caso di accettare (Rancière 2011: 79). In tal senso, si estende la critica che Rancière aveva già fatto all’antico maestro – ripudiato – Louis Althusser (Rancière 1974) la cui preoccupazione, nel tentativo di ricostruire il marxismo su basi critico-epistemologiche in contrapposizione alle posture all’epoca dominanti sia tra le posizione ortodosse che tra quelle eterodosse (economicismo, storicismo e uma- nismo), sarebbe stata, in realtà, di preservare il potere degli intellettuali, unici in grado di portare dall’esterno la scienza mancante alla coscienza del proletariato.

Se allora era l’inclinazione maoista rancieriana a portare ad attaccare l’althusserismo in quanto forma specifica di conservatorismo comunista, nei confronti della sociologia di Bourdieu, che Ran- cière non esita a presentare ancora nel 1999 come «una variante del marxismo scientista althusse- riano» (Rancière 1999: 135-137), è la logica stessa impressa nella capacità di fare una lezione che all’autore de Le Maître ignorant risulta inconcepibile in quanto implicherebbe l’esistenza di maestri detentori e dispensatori di una verità esclusiva. In realtà il professore propriamente detto non esprime una necessità tecnica quanto un principio gerarchico, in quanto il sistema scolastico ha la funzione di stabilire un una gerarchia intellettuale. Così, l’intervento di Rancière (1984: 16-36) all’interno del

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Collectif “Revoltes logiques”, intento a demistificare il (presunto) empire du sociologue, secondo una lettura alquanto fuorviante, come ha ben sottolineato Fabiani (2015: 22-23), di una sociologia che assumerebbe una posizione di dominio rispetto alle altre discipline, prende a tema proprio la lezione inaugurale di Bourdieu al Collège de France del 1982. Pertanto, il filosofo francese, riflet- tendo sulle promesse mancate e le battaglie perse dalla sociologia rileggendone le poste in gioco impresse nelle opere dei suoi massimi esponenti (Durkheim, Mauss, Marx e Weber), come aveva già ampiamente illustrato in un precedente intervento (Rancière 1983: 239-288), critica il concetto bour- dieusiano di misconoscimento, accusato di non essere altro che un mezzo per assicurare una posizione privilegiata all’intellettuale. In particolare, in Bourdieu, similmente al marxismo, opererebbe la messa in discussione dei discorsi intorno ai “diritti dell’uomo” e alla “democrazia” quali forme di dissimu- lazione della dominazione. Contro questa lettura che, ad un tempo, radicalizzerebbe la cultura del sospetto e rilegittimerebbe, cambiandone solo la figura, il mito platonico del re-sociologo (al posto del re-filosofo) il cui potere si ridurrebbe nel proclamare che non si può scappare dalla propria natura sociale, secondo Rancière occorre invocare e fare propri gli enunciati dell’uguaglianza e fare giocare loro un ruolo di emancipazione. Quest’ultima, tuttavia, non equivale ad una mancanza/spoliazione di sapere che occorrerebbe prima colmare ed imputabile a forme di misconoscimento della domina- zione. Essa consiste, né più né meno, nella capacità di contestare hic et nunc la gerarchia sociale che giudica indegna la parola dei dominati. Se è evidente che Rancière tende ad equivocare la posizione bourdieusiana, dato che per il sociologo francese la dépossession è il prodotto della dominazione – una delle sue «conseguenze maggiori» (Nordmann 2006: 98) – e non la sua premessa, da cui segue l’auto-esclusione politica e culturale rafforzata da un determinato orientamento del sistema scola- stico99 che priva le classi popolari della capacità di sviluppare una propria lingua non ripiegata sulla scelta del necessario come illustrerà ne La Distinction (Bourdieu 20012: 383-404), si può, forse, sot- toporre a critica la capacità euristica del concetto di dépossession. È, ad esempio, la posizione di Passeron (1991: 253), in quanto tale concetto è ritenuto «monolitico» o comunque troppo unificante nella sua tendenza a gettare prevalentemente uno sguardo miserabilista sulle pratiche popolari100.

99 Occorre peraltro sottolineare che, al di là della visione tendenzialmente rassegnata che emergeva ne La Reproduction,

per Bourdieu la scuola rimane comunque, soprattutto in un testo come le Méditations pascalinnes, un ambito che grazie alla sua autonomia relativa, come ha sottolineato Nordmann, «contribuisce [anche] alla diffusione di strumenti critici del mondo sociale» (Nordmann 2006: 33; Bourdieu 1998a: 17-55).

100 Sotto questo profilo, per quanto problematico possa essere l’approccio bourdieusiano, in genere si tende ad opporgli

una visione edulcorata delle culture popolari (che omette, ad esempio, di considerare come gli schemi della dominazione che caratterizzano i dominanti possano riprodursi all’interno dei dominati ad esempio attraverso l’uso distintivo di una lingua franca in cui si tende a marcare una differenza da – e a stigmatizzare – tutti coloro che hanno tratti percepiti come femminei/deboli [Bourdieu 1983]). Diversamente, si tende ad attribuire a Bourdieu pregiudizi classisti e una postura che, squalificando di fatto il relativismo culturale, non farebbe altro che riprodurre, anche solo involontariamente, la domina- zione della cultura legittima (che si tratterebbe semplicemente di generalizzare) ad appannaggio dei dominanti. Ciò di- venta quanto meno bizzarro se lo si fa da savant con un testo intitolato: Ce que les savants pensent de nous et pourquoi

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Quello che invece ci pare particolarmente fragile, se non del tutto fuorviante, nelle argomentazioni rancieriane – che in altri contesti ci è sembrato utile (senza per questo accettarne le premesse anti- sociologiche e certe derive idealistiche) per demistificare la sovrapposizione senza eccedenze tra de- mocrazia e governo rappresentativo e per pensare una democrazia espansiva (Girometti 2012a; 2012b) – è la necessità di rompere radicalmente con le scienze sociali per pensare la politica, per pensarla altrimenti. Ciò per Rancière significa sempre pensare la democrazia e allo stesso tempo pensare l’emancipazione. In questo senso, dando una definizione precisa e propriamente filosofica di politica101, per cui si assume una dicotomia tra politique, atto propriamente politico in cui si riattiva il principio di uguaglianza e si rompe l’ordine sociale improntato sulla disuguaglianza, e police, dove quest’ultima è mera riproduzione istituzionale dell’ordine sociale con le sue gerarchie, secondo il filosofo francese, la democrazia eccede necessariamente la “democrazia rappresentativa”. Essa, inol- tre, si manifesta nella sfera pubblica come logica autenticamente politica (in quanto governo di chiun- que) che si incontra/scontra con la logica della polizia, ovvero «del governo naturale delle compe- tenze sociali» (Rancière 2007a: 66). Infatti, Rancière individua al fondo del legame sociale una prio- rità inestinguibile del disaccordo (Rancière 2007b), matrice della continua rimessa in discussione dei rapporti di forza in atto, dell’insorgenza delle parti non contate nella configurazione politica e sociale, ad un tempo, dominante e contingente.

Pertanto, se gli ordinamenti politico-giuridici odierni sono il risultato di un incontro/scontro di elementi democratici ed oligarchici, la democrazia è un movimento di lotta per l’espansione della sfera pubblica – non dell’ingerenza dello Stato, precisa Rancière, che su questo tende a far propria la diffidenza nei confronti dell’ordinamento statale seguendo altri post-strutturalisti102 (corrente peraltro

variegata a cui si può ascrivere lo stesso Bourdieu che sullo Stato manterrà, invece, una posizione più realistica e autonoma) – contro il restringimento, la privatizzazione della medesima e la subordina- zione al «duplice dominio dell’oligarchia nello stato e nella società» (Rancière 2007a: 68). Oltre la dicotomia semplice democrazia reale/democrazia formale «l’azione emancipatrice non è un insieme di mezzi tesi verso un’uguaglianza promessa [bensì] un insieme di pratiche che qui e ora [concreta- mente] si occupano di rifiutare i presupposti dell’ineguaglianza» (Rancière 2011: 18).

101 Bourdieu, in linea con il suo habitus di scienziato sociale, non fornisce una definizione filosofica della politica, e ciò

non dovrebbe stupire in quanto sarebbe un approccio che qualificherebbe come proprio di una ragione scolastica. Diver- samente, Nordmann (2006: 82-88) sembra considerare una lacuna la mancata astratta concettualizzazione della politica in Bourdieu, la sua riduzione al campo politico che secondo lei risulterebbe, peraltro, un concetto troppo rigido nel mo- mento in cui traccia dei confini che sembrano legittimare solo la politica dei dominanti. A nostro avviso, come abbiamo già tentato di mostrare nel precedente capitolo, tale concetto relazionale ci sembra, invece, capace di tratteggiare l’ogget- tivazione dei processi politici così come i mutamenti che avvengono al suo interno senza fissare a priori chi ne fa o ne può fare parte.

102 Come ha suggerito Craig Calhoun, «da un punto di vista puramente intellettuale» i lavori di Bourdieu vanno posti in

stretta relazione con il “post-strutturalismo” di cui rappresentano una versione più attenta alla scienza e all’organizzazione sociale rispetto alle versioni offerte da Foucault e Derrida (Calhoun 2005: 237).

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In quest’ottica, il suffragio universale, così come le dispute sul salario, sono l’esito di un con- flitto contro la privatizzazione della sfera pubblica, non certo lo sviluppo “naturale” inscritto negli ordinamenti vigenti. Secondo Rancière si tratta di «un movimento di duplice trasgressione dei limiti»: da un lato, «l’estensione dell’uomo pubblico ad altri ambiti della vita comune» (in particolare alla sfera economica), dall’altro, si tratta di «riaffermare l’appartenenza a tutti e chiunque della sfera pub- blica continuamente privatizzata» (Rancière 2007a: 70). Una duplicità che tradotta in dualità uomo/cittadino è stata criticata e ridotta ad una logica semplificata, in particolare, tra gli altri, nella critica, come abbiamo già accennato, del giovane Marx della Questione ebraica ai diritti del cittadino come sfera ideale, dietro la quale si manifestano i diritti di un uomo particolare – l’uomo proprietario – che opera sotto la maschera del diritto uguale di tutti. Da questa posizione, che sotto un altro profilo potrebbe camminare a fianco di Bourdieu e non solo contro Bourdieu come suggerisce Nordmann, di fatto emerge una «critica radicale» di Rancière al sociologo francese in quanto il suo sistema teo- rico disegnerebbe una situazione radicalmente immutabile dato che il discorso demistificante della sociologia non converrebbe che ai dominanti, unici in grado d’intenderlo e a trovarvi una giustifica- zione dell’odine stabilito (Nordmann 2006: 104-105).

Come preciserà in seguito Rancière (1999), la stessa scelta bourdieusiana di appoggiare e in molti casi di farsi portavoce diretto dei movimenti sociali – una sorta di miracolo nei termini di Bour- dieu quando si sofferma sul movimento dei disoccupati (Bourdieu 1999: 101-102) – che scuoteranno la Francia nella seconda metà degli anni Novanta sarebbe paradossale in quanto ritenuta incapace di pensare la costituzione di un movimento ancorché lo si ritenga giusto negli intenti e necessario. In- fatti, per Rancière è logicamente impossibile affermare la pervasività del dominio e pensare di sfug- girvi. E la stessa possibilità di farlo attraverso l’assunzione degli strumenti culturali in mano alla classe dominante è un’affermazione, più o meno indiretta, del carattere ideale e legittimo che essa rappresenta, dello iato antropologico che separa due entità sociali tendenzialmente non comunicanti. In questi termini, quella che Bourdieu chiama autoesclusione dei subalterni, equivalente ad espres- sioni del tipo “questo non fa per noi”, secondo Rancière è una forma di spinozismo istintivo, secondo cui ogni uomo è in realtà spinto dal proprio conatus ad incrementare la propria potenza103, e può essere tradotto nei seguenti termini: “ciò non è buono per la nostra crescita”. In tal modo, non emer- gerebbe tanto un sentimento d’inferiorità, quanto un giudizio sugli altri, dato che il dominio si rivela,

103 Nordmann richiama opportunamente la XXIX definizione degli affetti riportata nella terza parte dell’Etica in cui il

filosofo marrano afferma che «l’Umiltà e la Sottovalutazione di sé sono rarissimi. Infatti, la natura umana, considerata in

sé, per quanto può, resiste contro di essi» (Spinoza 19973: 225). A tal proposito, gioverà ricordare come Bourdieu affer-

masse di non essere uno spinozista felice (Bourdieu 2000) non celando un pessimismo antropologico a volte fin troppo evidente. Allo stessi tempo, ci pare importante valorizzare, come ha suggerito Philippe Mangeot, quegli stessi post-scrip- tum bourdieusiani – a partire delle meravigliose pagine dedicate all’amore e all’amicizia come rapporti non-violenti «fon- dati sulla gioia di dare gioia» ne La Domination masculine (Bourdieu 20143 : 126-129) – per «sfuggire ai trucchi della

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più che sottovalutandosi, attraverso il disprezzo in quanto passione dell’inuguaglianza (Rancière 2008: 95-115). L’errore di Bourdieu (e ancora prima di Marx) consisterebbe, in definitiva, nel non essere capaci di pensare l’irriducibilità della politica ai determinismi sociali, e dunque di non cogliere la politique come radicalmente scissa dalla police in quanto processo di soggettivazione vuoto e per questo capace di essere riempito da chiunque metta in discussione, in nome dell’uguaglianza, dunque

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