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Sulla memoria autobiografica

3 Gli anziani e la memoria

«Ah, se tu mi avessi fatto queste domande anche solo dieci anni fa, ti avrei risposto bene. Ora invece, a 80 anni passati, la mia memoria non è più quella di un tempo».

L’amara considerazione di Gino Borgna, la cui storia di vita è confluita nell’archivio braidese inserito nel più ampio Granaio della Memoria, è paradigmatica di una opinione largamente diffusa: la convinzione che la memoria degli anziani sia inevitabilmente destinata a declinare col progredire dell’età189. È veramente così?

Anna M. Longoni, nota psicologa dell’apprendimento e della memoria, sintetizzando gli studi delle neuroscienze in questo ambito, dice in proposito parole chiare e definitive:

«Sulla base dei molti risultati sperimentali ottenuti in diverse aree di indagine gli esperti sono concordi nell’affermare che, a meno che non si presentino situazioni chiaramente patologiche come il morbo di Alzheimer e malattie vascolari, l’età, da sola, non produce alcun effetto devastante sulla memoria.

È ben noto che l’invecchiamento normale è accompagnato da una riduzione della massa cerebrale, che nel periodo tra i 60 e i 70 anni varia tra il 5 e il 10%, e, che, inoltre la zona dell’ippocampo e dei lobi frontali diviene meno attiva. Tuttavia gli studi sperimentali che hanno messo a confronto le prestazioni di giovani e anziani hanno messo in evidenza che il peggioramento della memoria degli anziani non è generale e, quando c’è, li rende, tutt’al più, meno rapidi e precisi. È stato riscontrato un generico rallentamento nella capacità di elaborare le informazioni da parte degli anziani, che può influire sulla loro prestazione in un compito di memoria»190.

Dunque, in base alle risultanze scientifiche, l’età, di per sé, se non correlata a particolari patologie, non comporta significative defaillances nelle prestazioni mnemoniche, tutt’al più può originare un loro rallentamento191.

      

185 Per una disamina di questo aspetto e con particolare attenzione ai contributi di Harris e Loftus cfr. Sergio Roncato,

Gesualdo Zucco, I labirinti della memoria, op. cit., pp. 317-320.

186

Per una rassegna su questo tema cfr. Andrea Smorti, La psicologia culturale: processi di sviluppo e comprensione

sociale, Carocci, Roma 2003, passim.

187 Cfr. nota 127.

188 Lev Tolstoj, Guerra e pace, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009, p. 717. 189

Raggiunta la tarda età, il noto psichiatra Claude Olievenstein ha redatto una suggestiva descrizione dei pregi e dei limiti della memoria degli anziani, partendo dalle osservazioni circa le proprie declinanti capacità mnemoniche. Cfr. Claude Olievenstein, La scoperta della vecchiaia,Einaudi, Torino 1999, pp. 59-76.

190

Anna M. Longoni, La memoria, op. cit., pp. 87-88.

191

«Se la perdita di neuroni nella corteccia e nell’ippocampo [aree fondamentali per il consolidamento mnestico] è più ridotta di quanto si credeva, perché gli anziani hanno problemi di memoria? L’ippocampo mostra segni inequivocabili di atrofia […]. Inoltre l’invecchiamento produce una netta perdita neuronale in alcune sottostrutture corticali, [segnatamente] il prosencefalo basale che fornisce all’ippocampo il messaggero chimico detto acetilcolina, notoriamente importante per la memoria. Come abbiamo visto, i ricordi sono codificati quando le connessioni tra neuroni si rafforzano o si indeboliscono: l’acetilcolina accelera questi cambiamenti. […] Quindi una perdita

50 

Ma allora perché questa convinzione è così radicata? Peggio, perché questa autopercezione negativa è così diffusa tra gli anziani stessi?

L’ipotesi più accreditata, per quanto riguarda l’autopercezione negativa degli anziani, è che questa sia in buona parte frutto del condizionamento culturale192. Semplificando potremmo dire che gli anziani, ammoniti e avvertiti socialmente e culturalmente della pretesa debolezza della loro memoria, si autoconvincono di ciò sulla base di una maggiore attenzione alle loro defaillances, presenti anche in età più verdi ma su cui, da giovani, non avevano riflettuto193. Insomma,

«l’esistenza di uno stereotipo relativo al cattivo funzionamento della memoria nella persona anziana può influenzare l’auto percezione della stessa, nel senso che la porta ad accorgersi, ora, di dimenticanze che in realtà sono sempre state presenti nella sua esistenza ma alle quali in passato non aveva attribuito alcuna importanza»194.

Dunque, appurato che in situazioni normali non vi sono “crolli” mnemonici, cerchiamo di capire a che età la memoria comincia a mostrare segni di cedimento, frutto della naturale, progressiva riduzione della funzionalità cerebrale.

«Quand’è che l’invecchiamento comincia a influenzare la labilità? – si chiede Daniel Schacter –. Da recenti studi sulle capacità mnemoniche riferite a diverse fasce d’età è emerso che le difficoltà a ricordare una vicenda emergono verso i 45 anni, mentre le difficoltà a ricordare le parole incominciano verso i 50 anni; però nessun gruppo presentò un grave deterioramento mnestico: quello dei più anziani in genere ricordava dal 10 al 15% in meno di quello dei più giovani. Varcata la soglia dei 60 e dei 70 anni il fenomeno della labilità si fa più marcato e costante. Ma anche nei soggetti più anziani il calo della memoria non è una inevitabile conseguenza dell’invecchiamento: la labilità presenta notevoli variazioni all’interno di questa fascia d’età [… e comunque bisogna sempre distinguere] tra il normale deterioramento mnestico che accompagna l’invecchiamento (a volte definito smemoratezza senile benigna) e un deterioramento più spiccato che si accompagna a una vera e propria patologia, come il morbo di Alzheimer»195.

Tutto ciò vale, ovviamente, solo ove non si verifichino traumi temporanei o permanenti che alterino le capacità mnemoniche normali causando “vuoti”, noti con il nome di amnesie.

A questo proposito, neurologi e neuro scienziati in genere distinguono tra amnesia anterograda e amnesia retrograda.

La prima connota quei pazienti amnesici che ricordano con difficoltà esperienze quotidiane e apprendimenti successivi al verificarsi del danno cerebrale.

L’amnesia retrograda riguarda invece la difficoltà a ricordare i fatti anteriori al danno cerebrale e l’insorgere della patologia, compresi avvenimenti accaduti molto tempo prima. In questo ambito, il caso clinico più noto è quello del tenente Zasetskij studiato dal neurologo Lurjia [cfr. capitolo 1, Appendice].

In entrambi i casi siamo in presenza di «memorie infrante», per citare il titolo del fortunato libro di Ruth Campbell e Martin Conway (1995)196.

La situazione è ancora peggiore quando la mente è intaccata dal morbo di Alzheimer, la cui prima manifestazione, tra l’altro, è data proprio dall’insorgere di problemi mnemonici. Il morbo di Alzheimer è degenerativo e irreversibile e pone gravi e crescenti problemi cognitivi, relazionali e affettivi causati proprio dallo smantellamento della memoria semantica (la conoscenza del mondo) e autobiografica197.

       

significativa di neuroni nel prosencefalo basale contribuisce ai problemi mnestici legati all’età». Citato in Daniel L. Schacter, Alla ricerca della memoria umana. Il cervello, la mente e il passato, op. cit., p. 312.

192

Dario Salmaso, Paolo Caffarra (a cura di), Normalità e patologia delle funzioni cognitive dell’invecchiamento, Franco Angeli, Milano 1990, passim; Douwe Draaisma, L’età della memoria. Nostalgia, ricordi, dimenticanza, op. cit., pp. 23-37.

193

Cesare Cornoldi, Metacognizione e apprendimento, op. cit., pp. 137-159.

194

Anna M. Longoni, La memoria, op. cit., p. 59.

195

Daniel L. Schacter, Il fragile potere della mente. Come la mente dimentica e ricorda, op. cit., pp. 26-27.

196

Ruth Campbell e Martin Conway, Broken Memories, Wiley-Blackwell, Chichester 1995.

197

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«Per un paziente che soffre di una delle due forme di amnesia, non importa quale, il tempo è racchiuso dunque in una sola dimensione. Mentre una volta, per usare un’immagine di William James, era seduto a cavalcioni sul tempo e poteva guardare in avanti o indietro con la medesima facilità, adesso invece è seduto con le spalle costantemente rivolte al passato o al futuro. Lo sventurato che venga colpito da entrambe le forme di amnesia, come accade nel caso della demenza [cioè dell’Alzheimer], conclude la propria vita in un segmento del tempo che comincia a chiudersi in entrambe le direzioni e, infine, si riduce a un presente senza ampiezza, a un adesso senza sguardo retrospettivo o prospettivo»198.

Ciò avviene in coloro che si trovano in particolari condizioni patologiche. In condizioni normali, invece, cosa succede? Perché, là dove la ricerca ci dice che non vi è un particolare decadimento mnestico, in realtà si avverte qualcosa del genere? Un contributo a una maggiore chiarezza in questo ambito può venire dai sempre più numerosi studi che la psicologia della memoria dedica alle capacità mnestiche degli anziani199.

Bisogna innanzitutto ricordare che, anche negli anziani, elementi necessari e fondamentali nei processi di memorizzazione sono la percezione sensoriale (cioè il rapporto con il mondo esterno), l’attenzione prestata a tale percezione (cioè le modalità con cui è trasformata in ricordo), la ripetizione delle realtà percepite trasformate in ricordi, l’associazione/ripetizione e il valore emotivo.

Con l’età le facoltà percettive, in particolare modo uditive e visive, diminuiscono e, con loro, l’attenzione perché è evidente che, alla lunga, si presta minore attenzione a ciò che si percepisce sempre meno. Quanto alla ripetizione funzionale, questa, che si è visto essere un eccellente mezzo per il mantenimento dei ricordi, tende a scompare nelle persone più anziane, vuoi per la loro espulsione dalla vita attiva vuoi per il venir meno della loro centralità sociale. Si aggiunga che gli eventi emotivi a una certa età sono quasi inesistenti, anche perché l’incontro con cose nuove e il verificarsi di esperienze nuove, cariche di affetto, sono meno frequenti. Infine, andando avanti con gli anni, l’associazione, altro elemento importante della memorizzazione, viene fatta con il passato più che con il presente. Dal momento che il passato sembra migliore del presente, le persone di una certa età avranno scarsa tendenza a engrammare nuovi ricordi, visto che questi paiono loro meno interessanti di quelli vecchi.

Eccoci arrivati al punto per noi interessante: gli anziani tendono a non memorizzare più nel presente ma hanno un crescente rapporto mnemonico con il passato.

«Mi studio di ripercorrere la mia esperienza per ravvisarvi un piano, per individuare una vena di piombo o d’oro, il fluire di un corso d’acqua sotterraneo, ma questo schema fittizio non è che un miraggio della memoria. Di tanto in tanto, credo di riconoscere la fatalità di un incontro, in un presagio, in un determinato susseguirsi degli eventi, ma vi sono troppe vie che non conducono in alcun luogo». Marguerite Yourcenar200