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L’importanza della domanda

Le storie di vita, i chicchi del Granaio

7. L’importanza della domanda

Uno dei rischi insiti nel recente exploit delle fonti orali (ma in realtà insito nell’uso approssimativo di qualunque fonte) è che generi «una massa crescente di polverose storie erudite, di monografie estremamente specialistiche e di sedicenti storici che sapevano sempre di più a proposito di sempre meno, annegati senza lasciare traccia di sé in un oceano di fatti»621.

        L’invenzione dell’io: l’autobiografia e le sue forme, in David R. Olson, Nancy Torrance (a cura di), Alfabetizzazione e oralità, Raffaello Cortina, Milano 1995, pp. 135-157; Elinor Ochs, Laura Sterponi, Analisi delle narrazioni, in

Giuseppe Mantovani, Anna Spagnolli (a cura di), Metodi qualitativi in psicologia, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 131- 158.

618

Roberta Lorenzetti, Tempo e spazio nella narrazione autobiografica, in Roberta Lorenzetti, Stefania Stame (a cura di), Narrazione e identità. Aspetti cognitivi e interpersonali, op. cit., pp. 29-30.

619

Cfr. Ervin Goffman, Forme del parlare, il Mulino, Bologna 1987.

620

Fabrizio Bercelli, Identità e narrazione: di sé e di altri, in Roberta Lorenzetti, Stefania Stame (a cura di), Narrazione

e identità. Aspetti cognitivi e interpersonali, op. cit., pp. 89-90.

621

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«D’altronde – si chiede Sergio Luzzato – nella lingua italiana, la parola “fonte” non rimanda forse al concetto di “sorgente”, una vena d’acqua che sgorga spontaneamente e continuamente da una apertura nel terreno? […] Questo non significa che lo storico possa, o voglia, o debba raccogliere dal fiume del passato ogni singola goccia. […] Al contrario, il fascino del suo mestiere consiste nella possibilità di selezionare dall’inesausta sorgente della storia quanto interpella il presente, lasciando cadere quanto non lo interpella più»622.

Ovviamente le ricerche, quale che sia la loro natura e l’ambito disciplinare di appartenenza, possono evitare il rischio della autoreferenzialità e, in definitiva, dell’inutilità, possono sventare il rischio che «il tempo della storia in briciole sia arrivato»623, solo se si pongono una domanda, anzi «la» domanda che tutto origina, un interrogativo del quale partire e per sciogliere il quale condurre la ricerca. Al di fuori di questo ambito non vi è nulla di realmente produttivo.

«Uno studio monografico limitato nello spazio e nel tempo può essere un eccellente lavoro storico se pone un problema e si presta alla comparazione, se è condotto come un case study. Sembra condannata soltanto la monografia chiusa in sé stessa, senza orizzonti, che è stata la figlia prediletta della storia positivista e non è affatto morta»624.

Insomma, bisogna evitare quelle ricerche al termine delle quali «si sono contati tutti gli alberi, ma senza capire nulla della foresta»625.

In definitiva, dunque, direbbe Paul Veyne, «è impossibile improvvisarsi storici […]. È infatti necessario sapere quali quesiti porsi, e anche quali problematiche sono superate: non si scrive la storia politica, sociale o religiosa con le opinioni rispettabili, realistiche o avanzate che siano, che possediamo su questi argomenti a titolo privato»626.

Per ricorrere alla celebre massima degli annalisti francesi, pas de problem pas d’historie. O, per dirla con le più brutali parole di Lucien Febvre, «se non c’è il problema, significa che non c’è niente»627. Insomma, concludiamo con George Duby, i documenti, di per sé, «non dicono nulla a un orecchio ingenuo, parlano, come Pasteur diceva della natura, solo a coloro che li interrogano “con un’idea in testa”»628.

Dunque, per operare proficuamente, occorre porsi «la» domanda dalla quale partire, alla luce della quale condurre la ricerca e per risolvere la quale arrivare alla conclusione629. Ovviamente tutto ciò richiede che lo studioso, a monte, possieda la gramsciana «cassetta degli attrezzi» (o la foucaultiana «borsa degli attrezzi»)630, rispetti la metodologia della ricerca, conosca le «tecniche della critica», in definitiva, faccia sue, per dirla con Marc Bloch, «le forze della ragione che operano nelle nostre umili note, nei nostri piccoli minuziosi rimandi, che oggi tanti begli spiriti disprezzano, senza comprenderli»631. Tutto ciò vale per le scienze umane e dunque anche per l’oralistica.

La domanda da cui tutto origina non è mai il capriccio privato e narcisistico del ricercatore. Se questi è, come dovrebbe essere, parte del suo tempo, non può che rifletterne ansie e bisogni,

      

622

Sergio Luzzato (a cura di), Prima lezione di metodo storico, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 8. La stessa metafora è usata da George Duby: «Tutte le fonti sono rappresentative […] vi sono fonti abbondanti e fonti che non lo sono. Vi sono fonti zampillanti, isolate, che d’un sol colpo fanno sgorgare un’enorme quantità di cose, e poi, al contrario, fonti piccole, minuscole, poche gocce che bisogna cogliere, drenare, unire le une alle altre, trattare insieme». George Duby, Il

sogno della storia. Un grande storico contemporaneo a colloquio con il filosofo Guy Lardreau, op. cit., p. 65.

623

Jacques Le Goff, Storia e memoria, op. cit., p. 124.

624

Ivi, p. 33.

625

R. Giachetti, “La storia? Inventiamola come un romanzo”, la Repubblica, 19 marzo 1992.

626

Paul Veyne, Come si scrive la storia. Saggio di epistemologia, Laterza, Bari-Roma 1973, p. 384.

627

Lucien Febvre, Problemi di metodo storico, op. cit., pp. 73-74.

628

George Duby, Il sogno della storia. Un grande storico contemporaneo a colloquio con il filosofo Guy Lardreau, op. cit., p. 53.

629

Per Paul Ricoeur, «qualsiasi traccia lasciata dal passato diviene per lo storico un documento, nella misura in cui sa interrogarne le vestigia, metterle in questione». Paul Ricoeur, Il tempo raccontato, in Id., Tempo e racconto, Jaca Book, Milano 1988, p. 179.

630

James Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, op. cit., pp. 37-38.

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timori e speranze. E, non ultimo, interrogativi in grado di interloquire con l’Altro comunque inteso. Per dirla con Marrou

«la domanda che egli si accinge a porre, la domanda che determina l’intero sviluppo della ricerca, se solleva un problema vero, ricco di valori esistenziali, esprimerà necessariamente, oltre a una preoccupazione propria dello storico, un’esigenza comune a tutti gli uomini del suo ambiente, della collettività alla quale appartiene»632.

A prescindere da queste considerazioni, la griglia di domande che sempre il ricercatore utilizza nel condurre l’intervista ha una immediata ed evidente utilità quando l’intervistato manifesta la tendenza a innocue ma dispersive divagazioni. A tal proposito i lettori de Il giovane Holden di J. D. Salinger ricordano la propensione di Richard Kinsella, compagno di scuola del protagonista, a perdere rapidamente il filo del discorso:

«Il fatto è che lui, Richard Kinsella, lui cominciava a parlare di tutte quelle cose – poi all’improvviso si metteva a dire della lettera di suo zio a sua madre, e che suo zio aveva preso la polio eccetera quando aveva 42 anni, e non voleva che nessuno lo andasse a trovare in ospedale perché non si voleva far vedere con l’apparecchio addosso. Non c’entrava niente [con l’argomento su cui era stato interpellato], l’ammetto; ma era carino»633.

«Era carino», ci informa l’autore-protagonista. Ma, al contempo, tale flusso di ricordi doveva risultare certamente molto dispersivo e confuso, con una sequenza di parentesi tonde che diventavano quadre e infine graffe, senza mai chiudersi. Il ricercatore è certo in grado di leggere ciò che è sotteso a questa catena associativa estemporanea ma ha anche l’obbligo di ottimizzare il tempo a disposizione richiamando, quando è il caso, l’interlocutore a una maggiore adesione al focus tematico individuato.

8. Le fotografie

Spesso nel corso dell’intervista si rivela utile ricorrere alle fotografie, “pezza mnemonica” di grande importanza. Ciò che il cantautore Gian Maria Testa con afflato romantico e minimalista ha definito «il lampo, soltanto il lampo di una fotografia»634 in realtà permette all’intervistato e all’intervistatore di riallacciarsi con naturalezza a un passato che, lungi dall’essere astratto e generalizzato, diventa subito, grazie a quelle lontane istantanee, concreto e individualizzato.

La foto si rivela essere medium perfetto tra passato e presente, superando la barriera temporale che vorrebbe tenere distinti e distanti ieri e oggi. La foto con i suoi frammenti visivi, famigliari al narratore quanto inaspettati per l’interlocutore, è un appiglio mnemonico formidabile per l’intervistato e fonte di stimoli impensati e impensabili per l’intervistatore.

In questo senso aveva ragione lo scrittore olandese Gerrit Krol a definire le foto «paletti del ricordo»635.