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La natura del rapporto intervistato-intervistatore

Le storie di vita, i chicchi del Granaio

3. La natura del rapporto intervistato-intervistatore

Organizzare e raccogliere una testimonianza proficua è più complesso di quanto possa apparire di primo acchito a chi, esterno alle complesse problematiche qui trattate, vive immerso nella «società dell’intervista» e dunque la ritiene cosa alla portata di chiunque594.

In realtà l’intervista riesce solo e soltanto se tra testimone e interlocutore si stabilisce quell’impalpabile alchimia che consente al flusso dei ricordi di sgorgare impetuoso.

      

589

Giovanni Contini, L’interpretazione dell’intervista, in Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba manent. L’uso delle

fonti orali per la storia contemporanea, op. cit., pp. 29-30.

590

Citato in Giovanni De Luna, La passione e la ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo, op. cit., pp. 45- 46.

591

Elena Pulcini, Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. XVI.

592

Carlo Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Einaudi, Torino 1991, p. 13.

593

Stefania Stame, Narrazione e memoria, in Roberta Lorenzetti, Stefania Stame (a cura di), Narrazione e identità.

Aspetti cognitivi e interpersonali, op. cit., p. 3.

594

La definizione è di Roberta Garruccio. Cfr. Roberta Garruccio, Memoria: una fonte per la mano sinistra. Letteratura

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Riflettendo sul ruolo dell’intervistatore e sul rapporto intrattenuto con l’intervistato, relazione da cui scaturisce la fonte, mi sovviene la celebre asserzione del medievalista George Duby circa le modalità con cui studiò i soldati che combatterono nella battaglia di Bouvines nel XIII secolo: «Li ho osservati come Margaret Mead aveva osservato i Manus. Disarmato come lei, ma non di più»595. L’intervistato forse deve essere così: disarmato, nel senso che non deve molestare l’intervistato, ma fino ad un certo punto, oltrepassato il quale, può e deve saperlo pungolare.

In realtà, Ronald Grele, con Michael Frisch protagonista dell’oral history statunitense contemporanea, ha dimostrato che il modus operandi può e deve essere di ben altra natura. Egli ha tipizzato e sintetizzato i tre modi generali in cui può svolgersi la conversazione596:

• la conversazione fin dall’inizio fondata sul “conflitto” rende impossibile ogni dialogo e porta a un rapido esaurirsi della conversazione stessa, talvolta in modo brusco;

• la conversazione fondata su un sostanziale “accordo” (il che avviene quanto i soggetti appartengono entrambi allo stesso universo mentale e sociale) impedisce che emergano elementi significativi (magari appellandosi alla formula, giustificata tra interlocutori simili per esperienze passate e presenti: «Cosa ne parliamo a fare? Tu lo sai meglio di me»);

• la conversazione fondata sulla “contrarietà”, cioè sulla “diversità” che esclude sia “conflitto” sia “accordo” è la più proficua. Per Grele «sono queste le conversazioni che producono il maggior numero di parole, di spiegazioni ed il linguaggio più ricco […]. Nonostante ci sia disaccordo e discussione, c’è anche un tacito accordo secondo il quale vale la pena continuare la discussione»597.

Questo terzo tipo di intervista è l’unico realmente efficace perché è il solo a consentire una vera interazione tra intervistato e intervistatore, con quest’ultimo che forse è «insieme ostetrica e magistrato inquirente», per riprendere, sia pur in altro contesto, la celebre definizione di Marcel Griaude598. In questo tipo di intervista, archiviata la modestia iniziale di prammatica («Non ho nulla di particolare da raccontare…»), l’intervistato, se pungolato adeguatamente dal suo interlocutore, comincia a interrogarsi come forse mai aveva fatto in precedenza, analizzando aspetti che fino a quel momento aveva dato per scontati e ovvi. Insomma, il testimone giunge a problematizzare quella che sino ad allora gli era parsa la normalità del suo passato.

Ovviamente siamo coscienti che

«la cosiddetta “storia di vita” (life history) è una forma narrativa che non esiste in natura. […] Questo tipo di racconto è, di fatto, il prodotto dell’intervento di un ascoltatore e interrogatore specializzato, uno storico orale con un suo progetto, che dà inizio all’incontro e crea lo spazio narrativo per un narratore che ha una storia da raccontare ma che non la racconterebbe in quel modo in un altro contesto o a un altro destinatario»599.

Ciò nonostante, questo tipo di intervista rivela tutte le sue potenzialità maieutiche nei soggetti che non hanno confidenza con la scrittura, moltissimi nell’Italia afflitta da quella specie di

      

595

Citato in Maurice Bloch, Memoria autobiografica e memoria storica del passato più remoto, in Silvana Borutti, Ugo Fabietti (a cura di), Fra antropologia e storia, op. cit., p. 53. Negli anni Venti e Trenta, l’americana Margaret Mead aveva raggiunto grande notorietà studiando l’adolescenza femminile a Samoa caratterizzata, a suo dire, da permissività sessuale e mancanza di senso di colpa. In realtà, tempo dopo, la sua ricerca fu attaccata e la sua autrice duramente censurata perché fu dimostrato che non aveva operato con la necessaria acribia metodologica. Margaret Mead,

L’adolescenza in Samoa, Giunti, Firenze 1980; Walter G. Runciman, L’animale sociale, il Mulino, Bologna 2004, p.

31.

596

Ronald Grele, Private memories and public presentation, in Id., Envelopes of sounds-The art of oral history, Chicago 1985, pp. 258-259.

597

Ibidem.

598

Citato in James Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, op. cit., p. 96.

599

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malattia endemica che Tullio De Mauro definisce «abiblismo nazionale»600. Questi narratori, infatti, solo nell’interazione verbale con un soggetto esterno sono in grado di esprimersi compiutamente ed esaustivamente nella forma a loro più congeniale, quella dialogica e orale appunto. Oppure ricorrono ad aneddoti che altro non sono che esemplificazioni di mondi valoriali tenacemente presenti nell’intervistato, talvolta persino in modo inconscio601.

«L’uso degli aneddoti è, da questo punto di vista, particolarmente significativo: si tratta infatti di un modo discorsivo tipico e ricorrente […], spesso utilizzato con scopi pedagogici/moraleggianti, ed immodificabile; vero fossile-guida, esso si presta molto bene a ricostruire l’ideologia del parlante e del gruppo del quale faceva parte, all’interno del quale è stato elaborato collettivamente; l’aneddoto infatti, piccolo discorso coerente sigillato nel passato, si mostra relativamente impermeabile alle modificazioni del presente»602.

In realtà, anche all’interno della terza tipologia di intervista delineata, certamente la più proficua, è possibile rintracciare tutti e tre gli approcci che abbiamo appena visionato. Nell’intervista, soprattutto nel cosiddetto «colloquio in profondità»603 che Renate Siebert ha definito «un autentico corpo a corpo» tra intervistato e intervistatore, scontro, dialogo e partecipazione, sia pur in proporzioni diverse, sono elementi inevitabili604.

Ovviamente, il risultato finale non è mai garantito. Non ci si illuda di poter disporre di ricette pronte perché siamo in presenza di una materia del tutto speciale. La memoria, il vissuto, la testimonianza, la soggettività costituiscono una realtà magmatica e sfuggente, che prende forma di volta in volta e che muta incessantemente.

Ogni testimone fa storia a sé. Alcuni hanno una memoria prodigiosa, notevole proprietà di linguaggio e, talvolta, sorprendente capacità narrativa. In altri non si rintraccia nulla di tutto ciò. Nel primo caso poiché il narrante possiede una memoria spazialmente e cronologicamente organica l’intervistatore deve limitarsi, se e quando necessario, ad accompagnarlo. In questi casi il testimone generalmente non ha bisogno di particolari stimoli esterni, il che, ovviamente, non significa rinunciare a chiedere precisazioni ove opportuno o lumi su aspetti che non ha trattato in modo esaustivo. Nel secondo caso, invece, quello in cui non esiste un percorso mnemonico autonomo ed affidabile, spetta all’intervistatore porre domande in grado di far parlare un interlocutore altrimenti impacciato. Ovviamente i quesiti saranno diversi a secondo delle finalità sottese alla ricerca. Nel caso delle storie di vita della comunità braidese raccolte dal sottoscritto le domande afferivano in primo luogo ai riti di passaggio che scandiscono la progressione d’età nella vita sociale, ai cicli che punteggiano la vita individuale e collettiva, ecc. Diverse le domande quando all’intervistato si richieda non già una storia di vita ma una testimonianza tematica (ad es. a proposito di un savoir faire comunque inteso).

Una volta che la storia di vita, modalità narrativa ricercata del sottoscritto nelle videointerviste poi confluite nel Granaio, è nata, sotto gli occhi e sempre, consciamente o meno, con il concorso del ricercatore, quest’ultimo come opera?

Fino a un recente passato, come sottolinea Franco Crespi in una riflessione di alcuni anni fa sulle storie di vita destinate alla pubblicazione editoriale,

      

600

Tullio De Mauro, Quale formazione per vivere e lavorare in una società complessa, in Nicola Rossi (a cura di),

L’istruzione in Italia: solo un pezzo di carta?, il Mulino, Bologna 1997, p. 505.

601

Su questo tema si veda Maurizio Gribaudi, Storia orale e struttura del racconto autobiografico, in “Quaderni storici”, n. 39, settembre-dicembre 1979, pp. 1131-1146.

602

Giovanni Contini, L’interpretazione dell’intervista, in Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba manent. L’uso delle

fonti orali per la storia contemporanea, op. cit., pp. 31-32.

603

William H. Banaka, L’intervista in profondità, Franco Angeli, Milano 1981.

604

Renate Siebert, Una generazione di orfani, in Donatella Barazzetti, Carmen Leccardi (a cura di), Responsabilità e

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«i testi registrati delle interviste […] venivano in seguito sottoposti a un’analisi di contenuto secondo una griglia interpretativa predisposta dal ricercatore, che, individuando le unità di analisi considerate significative, consentiva di porre in evidenza sia aspetti comuni, che dimensioni legate alla singolarità dell’esperienza individuale»605.

Howard Schwartz e Jerry Jacobs, tra i massimi esponenti della sociologia quantitativa che ha riflettuto a lungo sul tema, indicano i due approcci fondamentali che si è soliti usare nell’interpretazione delle storie di vita: l’orientamento monotetico e quello idiografico606.

L’orientamento monotetico cerca di pervenire a generalizzazioni teoriche che possano essere applicate a un numero consistente di individui, traendo dalle esperienze particolari quegli elementi comuni che appaiono statisticamente frequenti. Tale orientamento è quello che domina in sociologia.

L’orientamento idiografico, invece, si interessa alla vita dei singoli individui, ponendo in secondo piano la frequenza di elementi comuni e sottolineando invece le particolarità proprie della sfera individuale. Tale approccio ha avuto larga diffusione nella cosiddetta microstoria.

In realtà, buona parte delle discipline demo-etno-antropologiche ha adottato un approccio, talvolta ondivago, che si situa a metà strada, oscillando ora verso il primo ora verso il secondo orientamento.

Il Granaio della Memoria, consentendo una libera fruizione e dunque una lettura creativa delle testimonianze caricate, è in grado di soddisfare sia i fautori dell’approccio monotetico (agevolato dall’uso di keywords) che i sostenitori di quello idiografico.