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Il ricordo, realtà creativa (ma non infondata)

Le storie di vita, i chicchi del Granaio

10. Il ricordo, realtà creativa (ma non infondata)

Più volte abbiamo evidenziato il carattere inevitabilmente creativo (ma mai gratuitamente inventivo) che è proprio delle rievocazioni mnestiche641. Siamo consapevoli che la mente non riesuma un passato ricostruito con una impossibile fedeltà fotografica, bensì, inevitabilmente e spesso inconsciamente, rievoca un passato che almeno in parte è frutto del confronto con il presente642. Ciò alla luce del fatto che, come dimostrato da Ulrich Neisser e Eugene Winogad, una delle principali funzioni della memoria autobiografica, vista come strettamente connessa alla funzione di costruzione del significato, è quella di conferire una continuità e una coerenza individuale, ossia di mantenere l’identità della persona643. E dunque, come esplicitato da uno dei padri della psicologia culturale, Jerome S. Bruner, il ricordo ricostruito attraverso

      

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«[…] dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un’enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio […]. Là dove si parlano ancora hanno perso totalmente ogni loro potenzialità inventiva». Cfr. Pier Paolo Pasolini, 8

luglio 1974. Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Id., Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, p.

54. Pasolini parlò di «umiliazione del dialetto». Cfr. Pier Paolo Pasolini, Ignazio Buttitta: “Io faccio il poeta”, in ivi, p. 181.

638

Giovanni Arpino, “La provincia”, Il Mondo, 13 marzo 1953.

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Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1985, p. 260.

640 P. G. Nosari, “Mi piace il dialetto, c’è dentro la terra”, L’Eco di Bergamo, 10 novembre 2004. 641

Luisa Passerini definisce la memoria «l’atto narrante di un individuo in un contesto sociale, nel tentativo di conferire significati condivisibili a certi eventi o aspetti del mondo ed eventualmente metterne in secondo piano altri. L’atto narrante è sempre nello stesso tempo memoria autobiografica, trasmissione di una esperienza di vita, e tradizione, cioè riformulazione e innovazione di qualcosa – se non altro il linguaggio – che si è ricevuto da generazioni precedenti e che se vuole passare a generazioni future». Cfr. Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, op. cit., pp. 107-108.

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Eric Havelock riflettendo sulla lenta ma continua contaminazione tra passato e presente che caratterizza la cultura orale afferma che «la memoria conserva quanto è necessario per la vita presente. È tuttavia preferisce rimodellare piuttosto che eliminare. Informazioni ed esperienze nuove vengono innestate di continuo sui modelli ereditati». Cfr. Eric Havelock, Civiltà orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Bari 1973, p. 104.

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Ulrich Neisser, Eugene Winograd (a cura di), La memoria. Nuove prospettive secondo gli approcci ecologici e

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un’organizzazione narrativa comporta sempre uno sforzo interpretativo a partire dalla situazione presente. Insomma, l’atto narrativo permette alle persone di dare un senso a ciò che è loro accaduto, di trovare – e costruire – la propria identità644.

Sulla memoria come fenomenale strumento di «stabilizzazione interiore», ha riflettuto in chiave autobiografica Claude Lévi-Strauss arrivando a constatare che

«trascinando i miei ricordi nel suo fluire, il tempo, più che logorarli e seppellirli, ha costruito coi loro frammenti le solide fondamenta che procurano al mio procedere un equilibrio più stabile […]. Fra questi due pilastri che segnano la distanza tra il mio sguardo e il suo oggetto, gli anni che li corrodono hanno cominciato ad ammassare frammenti. Gli spigoli si assottigliano, intere fiancate crollano, i tempi e i luoghi si urtano, si sovrappongono o si capovolgono, come sedimenti scossi dal tremito di una scorza decrepita […] e all’improvviso si immobilizzano in una specie di castello del quale abbia studiato i piani un architetto più sapiente di questa mia storia»645.

Nel sottolineare la natura degli «alimenti» cui attinge la memoria per nutrirsi, con acutezza Antonella Tarpino ha notato che

«attraverso le superfici calde del ricordo, o per meglio dire, del racconto di sé nel tempo, la memoria si fa spettacolo di un passato sempre più contiguo, quotidiano. Ricompone frammenti di un mondo sommerso eppure emotivamente ancora vigile: quasi a ricercare, nei segni di antiche memorie invisibili, rassicurazioni sulla nostra incerta esistenza. È quella memoria del quotidiano che si alimenta in forma bulimica dei mondi vitali del passato: indifferente sempre più agli scenari algidi della retorica politica e anche della storia, ma non per questo refrattaria (anzi, direi incontinente) ai suoi racconti interiori, domestici, famigliari, alle piccole epopee dei luoghi o alle trine dei cassetti della bisnonna»646.

Ovviamente le storie di vita sono documenti che, unitamente a infiniti altri, consentono alla studioso, sia esso storico, antropologo, sociologo, di lavorare alla ricostruzione del passato e in particolare ai legami che ancora lo uniscono al presente. Tuttavia, nota Sergio Luzzato, agli studiosi

«dilettanti capita di commettere – soprattutto rispetto al secolo appena trascorso, il Novecento – un errore di metodo tanto marchiano quanto grave: confondere la memoria con la storia. È ciò che avviene quando si scambia una “fonte d’informazione” (secondo il comune linguaggio giornalistico) per una fonte di verità, cioè si scambia il testimone di determinati eventi per un interprete giocoforza attendibile di quegli stessi eventi, e si assumono i ricordi del suo assunto di allora come criteri guida della nostra interpretazione di oggi. Errore di metodo imperdonabile perché il buono storico è esattamente colui che distingue con attenzione i piani temporali ed elegge il vissuto retrospettivo dei suoi personaggi (il travaglio della loro memoria) non già a facile criterio di verità ma a ulteriore e difficile materia di studio»647.

In tal senso e a tal proposito sono definitive le parole scritte da Jacques Le Goff nel suo poderoso Storia e memoria.

«Così come il passato non è la storia, ma il suo oggetto, così la memoria non è la storia ma, insieme, uno dei suoi oggetti e un livello elementare di elaborazione storica. La rivista “Dialectiques” ha pubblicato (1980) un numero speciale dedicato ai rapporti fra la memoria e la storia: Sous l’histoire, la mémoire. Lo storico inglese Ralph Samuel, uno dei principali iniziatori degli “History Workshop”, vi espone considerazioni ambigue sotto un titolo non meno ambiguo: Déprofessionaliser l’histoire (1980). Se con questo vuol dire che il ricorso alla storia orale, alle autobiografie, alla storia soggettiva allarga la base del lavoro scientifico, modifica l’immagine del passato, dà la parola ai dimenticati della storia, allora ha perfettamente ragione e sottolinea uno dei grandi progressi della produzione storica contemporanea. Se invece vuol mettere sullo stesso piano “produzione autobiografica” e “produzione professionale”, quando aggiunge che “la pratica professionale non costituisce né un monopolio né una garanzia”, allora il pericolo mi pare rilevante»648.

      

644

Jerome Bruner (1990), La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino 1992,

passim.

645

Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici, il Saggiatore, Milano 1982, p. 42.

646

Antonella Tarpino, Geografia della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, op. cit., p. 24.

647

Sergio Luzzato (a cura di), Prima lezione di metodo storico, op. cit., p. 10.

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Dunque, per dirla con Carlo Ginzburg, storia di vita «significa res gestae, non historia

rerum gestarum: un’esperienza vissuta del passato, non una conoscenza distaccata del passato»649,

obiettivo che dovrebbe essere degli studiosi. Siamo allora in presenza di materiale vivo e pulsante che parla alla sensibilità dello studioso affidandosi alla sua acutezza e abilità in assenza delle quali è destinato ad ammutolire o, peggio, a essere frainteso.