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Il Granaio «glocale» nell’era di Internet

2 Il ritorno al locale

Torniamo allora a focalizzare la nostra attenzione sulle identità locali che perdurano, e anzi si rafforzano, in un’epoca impregnata di globalizzazione. A tal proposito Regis Debray è giunto ad affermare, con formula divenuta proverbiale, che oggi mentre «gli oggetti si mondializzano, i soggetti si tribalizzano»462. E nel tribalizzarsi tentano di riscoprire «il locale», spesso però senza rendersi conto che, per così dire, «il locale» stesso non è più quello di un tempo, come viene acutamente evidenziato da diversi analisti, in primis da Anthony Giddens:

«nelle condizioni di modernità il luogo diventa sempre più fantasmagorico: ciò significa che i luoghi sono pervasi e modellati in misura crescente da influenze sociali relativamente distanti da essi […]. La forma visibile della località nasconde relazioni distanziate che ne determinano la natura»463.

Ciò nonostante, spesso assistiamo al recupero del “locale” che, nella consueta contrapposizione al “globale”464, assume nella mente di chi se ne fa paladino fattezze fantasiose,

      

459

Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, op. cit.

460

Renata Salvarani, Storia locale e valorizzazione del territorio. Dalla ricerca ai progetti, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 61.

461

Già Fernard Braudel si chiedeva retoricamente «cos’è una civiltà se non una sistemazione antica di una certa unità all’interno di un certo spazio?». Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 1953, p. 765

462

Citato in Marco Aime, Eccessi di cultura, Einaudi, Torino 2004, p. 124.

463

Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna 1994, pp. 29-30.

464

La distinzione – e contrapposizione – tra localismo e cosmopolitismo fa parte del vocabolario dei sociologi fin da quando Robert Merton negli anni Quaranta la teorizzò studiando i «modelli d’influenza» in una piccola città della costa orientale degli Stati Uniti. A quell’epoca e in quel luogo la distinzione aveva un orizzonte esclusivamente nazionale: i cittadini cosmopoliti erano coloro che pensavano e vivevano le proprie esigenze nel quadro nazionale anziché esclusivamente locale. Da allora, ovviamente, tutto è cambiato. Robert Merton, Teoria e struttura sociale, il Mulino, Bologna 1992, passim.

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spesso inventate di sana pianta. Così nascono le «comunità immaginate», formula di Benedict Anderson molto fortunata (e altrettanto fraintesa)465.

Ha scritto Ulf Hannerz che,

«a dispetto di tutte le sue caratteristiche concrete, il “locale” in termini culturali assume talvolta connotati mistici e romanzati: mi ricorda un certo animale della mitologia vichinga, il succulento cinghiale Sarinmner, che gli eroi guerrieri potevano mangiare tutte le sere solo per ritrovarselo vivo e pimpante, pronto per essere scannato di nuovo, il giorno dopo. Voglio dire che in certi commenti sul globale e il locale, la tradizione locale sembra esserci da sempre, in quantità illimitata. Il globale è in superficie, il locale in profondità»466.

Dunque, afferma Hannerz, «il “locale” in termini culturali assume talvolta connotati mistici e romanzati». Muovendosi in questo solco, anzi anticipandolo, Eric Hobsbawm e Terence Ranger hanno brillantemente dimostrato come spesso si vada ben oltre, tanto che talvolta, e non da oggi, è lecito parlare di «invenzione della tradizione»467.

Tuttavia, anche quando attinge a un passato in largo parte rimaneggiato se non addirittura creato di sana piana, la tradizione assolve alla fondamentale funzione di dare risposta a bisogni sentiti dalla comunità che la plasma e l’introietta. In questo senso ha notato Marco Aime:

«affermare che molte forme di identità collettive sono prive di fondamenti storici reali, frutto di tradizioni inventate, e che pertanto non costituiscono dati essenziali inscritti nel carattere degli individui, può avere un valore nei dibattiti accademici ma non ne attenua gli effetti pratici. I richiami all’origine e alla purezza sono in realtà proiezioni all’indietro di aspirazioni quanto mai attuali (richieste di autonomia, interessi locali, ambizioni di certi leader, ecc.). Per dirla con Jean Pouillon sono delle “retro-proiezioni camuffate”»468.

Questo è più vero che mai in un’epoca in cui i vorticosi cambiamenti imposti dalla globalizzazione scuotono le certezze dei singoli che vogliono e debbono trovare un appiglio, come i marinai che nella tradizione classica quando la nave è in balia della tempesta, disperando di approdare in un porto salvifico, si stringono intorno all’albero maestro. Fuor di metafora, è la tradizione, vera o fittizia che sia, l’albero maestro cui si stringe l’uomo contemporaneo cui è stata strappata di mano la bussola esistenziale. È la tradizione che gli conferisce identità e «ravviva la speranza di contribuire […] a rispondere all’esigenza, che oggi si accentua, di ricostruire una visione non mutila della realtà umana»469. Ovviamente nell’assolvere a questa funzione, la tradizione (e, ancor più, la creazione della tradizione) non sono alieni da limiti e rischi tutt’altro che secondari.

È noto infatti che indossare una «casacca culturale» senza mai dismetterla e neppure porla in discussione se, da un lato, è rassicurante, dall’altro, impedisce la contaminazione, il meticciato, in

      

465

Per Benedict Anderson, che muove da una acuta analisi dell’interazione tra tecnologia e organizzazione sociale, le «comunità immaginate» sono le nazioni in età moderna. L’autore sostiene che fu la crescente e pervasiva diffusione della stampa che ha caratterizzato l’emergere degli stati nazionali a moltiplicare in modo esponenziale il numero di uomini consapevoli dell’esistenza di altri uomini simili a loro al di là dei ristretti orizzonti della comunità basata sul contatto faccia a faccia. In questo senso, superando i limiti del villaggio o dell’area regionale, si è imposto un «noi» che ha assunto la fattezza di «comunità immaginaria» superiore (cioè lo stato-nazione). Benedict Anderson, Comunità

immaginate, op. cit.

466

Ulf Hannerz, La diversità culturale, op. cit., p. 38.

467

Eric Hobsbawm, Terence Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1987.

468

Marco Aime, Eccessi di cultura, op. cit., pp. 40-41. «Il fatto che l’etnicità sia un artefatto, un modello, una finzione o un criterio di classificazione non significa che le categorie che definisce siano caselle vuote. Al contrario, sono categorie investite di una grande carica affettiva ed emotiva, e percepite come dati reali da coloro che in esse si riconoscono». Anna Maria Rivera, Etnia-etnicità, in Serge Latouche (a cura di), Mauss I. Il ritorno dell’etnocentrismo, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 39.

469

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definitiva, il progresso470. Per dirla con lo scrittore Salman Rushdie «il mélange, il guazzabuglio, un po’ di questo e un po’ di quello, è così che il nuovo penetra il mondo»471.

Il rischio della sclerotizzazione è tanto più inaccettabile quando le comprensibili esigenze che sottendono a tali atteggiamenti vengono biecamente sfruttate per ragioni bassamente commerciali e/o politiche mediante «farmacopee per i mali della nostra società propinate in questa svolta di millennio da fabbricanti di pozioni magiche»472. La memoria, insomma, deve essere

«una tutela all’altezza delle sfide e dei bisogni del nostro tempo, non una sterile mummificazione. E neppure, ovviamente, può essere l’occasione per ritagliarsi patrie artificiali nutrite dall’odio contro i vicini, o contro chi parla un’altra lingua, porta l’orgoglio di un’altra origine, di una diversa storia. La memoria – come sappiamo dalla guerra civile nell’ex Jugoslavia – può farsi promotrice di violenza e di morte se non è accompagnata dalla equanime serenità della storia»473.

Ma tali considerazioni, se ulteriormente sviluppate, ci porterebbero molto lontano dal fuoco tematico di questo contributo. Dunque qui ci fermiamo.

Tornando alla tradizione, quella fondata, non già quella artificiosa, è necessario evidenziare che non si limita ad assolve a un compito in negativo. Lungi dall’avere mera funzione consolatoria, grazie alla memoria, osserva Piero Bevilacqua,

«i processi continui di trasformazione, che costituiscono la stoffa del nostro presente, possono essere filtrati, accolti o rifiutati con consapevolezza, non passivamente subiti. La tradizione può dialogare con l’innovazione e accogliere ciò che l’arricchisce, combattere ciò che le fa violenza. Che cosa sono in effetti le culture locali se non i dialetti che interagiscono costantemente con la lingua universale della storia vivente? È il possesso di un proprio dialetto, vale a dire la coscienza di ciò che si è, che rende possibile la partecipazione alla storia quotidiana del mondo senza capitolare, senza subire in silenzio l’omologazione indifferenziata»474.

Dunque, la memoria non solo ci consente un ri-orientamento individuale e collettivo ma ci permette di guardare al mondo senza paura.

«A pensarci bene, infatti, questo modo di difendere le realtà locali costituisce anche un presupposto irrinunciabile della nostra capacità di conoscere. È ciò che di fatto costituisce la nascita stessa delle culture. Nel suo modello si conserva il segreto delle civiltà. Solo chi custodisce un’Itaca in fondo alla propria memoria è l’Ulisse che sa esplorare le diverse terre del mondo. Il viaggiatore che riesce a stupirsi di tutto ciò che è nuovo rispetto all’isola da cui è partito. Chi non ha punti di partenza è solo un girovago, che consuma vanamente il tempo e lo spazio, senza approdi e senza mete»475.

Ecco ribadita, se ancora ve ne fosse bisogno, l’insopprimibile necessità di possedere memoria di sé, esigenza questa che ha trovato una suggestiva esemplificazione in un passo di A occhi bassi, romanzo dello scrittore algerino Tahar Ben Jelloun: qui è tratteggiata la figura del «venditore di ricordi», che, dietro modesto obolo, narrando fornisce ricordi a chi se ne ritrova improvvisamente privo476.

Il Granaio della Memoria è, mutatis mutandis, una comunità di raccoglitori di ricordi. E, questo, può contribuire ad assolvere alla funzione sociale insopprimibile e insostituibile di

      

470

«Mentre farsi una identità è un’esigenza fortemente sentita e un esercizio incoraggiato da ogni autorevole medium culturale, avere un’identità solidamente fondata e restarne in possesso “per tutta la vita” si rivela un handicap piuttosto che un vantaggio, poiché limita la possibilità di controllare in modo adeguato il proprio percorso esistenziale». Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, il Mulino, Bologna 1999, p. 67.

471

Citato in Ulf Hannerz, La diversità culturale, op. cit., p. 106.

472

Paolo Prodi, Introduzione allo studio della storia moderna, Il Mulino, Bologna 1999, p. 18.

473

Piero Bevilacqua, L’utilità della storia. Il passato e gli altri mondi possibili, Donzelli, Roma 2007, pp. 88-89. «Le frontiere? – ha affermato il grande viaggiatore norvegese Thor Heyerdhal – Esistono eccome. Nei miei viaggi ne ho incontrate molte e stanno tutte nella mente degli uomini». Marco Aime, Eccessi di cultura, op. cit., p. 6.

474

Piero Bevilacqua, L’utilità della storia. Il passato e gli altri mondi possibili, op. cit., p. 91.

475

Ibidem.

476

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perpetuare il ricordo di ciò che si è stati e forse, almeno in parte e non del tutto consciamente, di ciò che si è ancora.