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L’irriducibile centralità dell’intervistatore…

Le storie di vita, i chicchi del Granaio

1. L’irriducibile centralità dell’intervistatore…

È noto che gli antropologi a lungo hanno usato la nozione, oggi declinante, di «osservatore partecipante», cioè immerso nella realtà che intende indagare e, al contempo, distaccato da essa583: «Bronislaw Malinowski ci dà l’immagine del nuovo “antropologo”: accovacciato accanto al fuoco dell’accampamento; che osserva, ascolta e pone domande; che registra e interpreta la vita trobiandese»584. Non fa qualcosa di simile anche l’oralista quando si relaziona con il suo interlocutore?

È evidente dunque la natura intimamente creativa che l’antropologia attribuisce al ricercatore, aspetto questo che ha sempre messo in sospetto gli storici che, fino a ieri o l’altro ieri, hanno giudicato con circospezione le fonti orali stigmatizzate come inevitabilmente e irriducibilmente “soggettive”, dal valore dunque inficiato rispetto alle fonti tradizionali, in primo luogo scritte, «maschera di una oggettività storica che sarebbe nascosta nei “fatti” e verrebbe scoperta contemporaneamente a essi»585. Il che talvolta ha indotto i detrattori dell’oralistica a tentare di depurare le fonti orali dalla presenza creativa di chi le ha prodotte. Atteggiamento che, declinato concretamente, ha fatto sì che, volendo puntare il fascio di luce solo sull’intervistato, a lungo si è auspicata la scomparsa dell’intervistatore-ricercatore. Spesso si è tentato di farlo eliminando le domande e trasformando una informazione inevitabilmente intermittente, spesso sollecitata e talvolta contraddetta o interrotta dall’intervistatore, in un flusso informativo regolare e coerente, cosa che quasi certamente non è successa, almeno non con la scioltezza e la naturalezza che spesso si suppone.

      

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Ovviamente il testimone deve essere individuato con grande attenzione perché è il protagonista assoluto della intervista e non già mera e quasi anonima entità quali spesso sono i singoli che costituiscono ciò che Bailey riferendosi alla sociologia definisce «campione a valanga». Cfr. Kenneth D. Bailey, Metodi della ricerca sociale, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 121 e segg.

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Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, op. cit., p. 109.

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Sul tema della «osservazione partecipante» e sul suo ruolo nell’antropologia novecentesca si veda Ugo Fabietti,

Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 34-41.

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James Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 43.

585

Francois Furet, Il quantitativo in storia, in Jacques Le Goff, Pierre Nora (a cura di), Fare storia. Temi e metodi della

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Ma “l’intervistatore-produttore di fonti” che in questo modo si vorrebbe bandito riappare nella veste del “ricercatore-autore della ricerca” che (talvolta) trascrive e (quasi sempre) reinterpreta le interviste trascritte, utilizzandole per la stesura di un testo finalmente “suo”.

Le problematiche insite nell’uso delle fonti orali, così grandi e dibattute da aver a lungo precluso un loro più ampio e fecondo utilizzo, sono almeno parzialmente superate nell’esperienza Granai della Memoria. Qui, infatti, le testimonianze orali sono disponibili senza sostanziali interventi da parte dell’intervistatore. Certo, quest’ultimo non è e non potrà mai essere solo un passivo archivista della traccia orale in questione se non altro perché egli è pur sempre perlomeno il co-autore (con il testimone) dell’intervista avendola, in vari modi e con diversa incisività, suscitata, sollecitata e orientata mediante le domande che sono sottese alla sua ricerca. Ma la possibilità che il Granaio offre di ascoltare direttamente la voce e di vedere negli occhi il testimone consente di avere un approccio quasi diretto e senza mediazioni al testimone, cosa in precedenza pressoché impossibile a soggetti diversi dal ricercatore coinvolto in prima persona.

2. … e dell’intervistato

Abbiamo detto che nella creazione di fonti orali il ricercatore e la sua soggettività svolgono un ruolo fondamentale586. Ovviamente, ça va sans dire, l’intervista ha un primo protagonista, che molti, sbagliando, ritengono essere l’unico: il testimone. L’intervista è dunque il frutto dell’interazione creativa tra intervistato e intervistatore.

«Una “inter/vista” – chiosa Portelli – è uno scambio di sguardi: assai più di altre forme di arte verbale, la storia orale è un genere plurivocale, risultato del lavoro comune di una pluralità dialogante di autori»587.

Se l’intervistatore ha esigenze precise che attengono al suo piano di ricerca, l’intervistato ne ha altre, diverse ma altrettanto e forse più radicate, che vanno oltre la codificazione e trasmissione di un sapere. A tal proposito Marina Mizzau ha evidenziato che

«in chi narra vi è una richiesta: di attenzione, di essere visto, ammirato, giudicato così e così, per quello che si dice e per come lo si dice. […] In relazione a ciò si pone il problema dell’autenticità dell’autobiografia. Al di là di posizioni estremizzanti che tendono a negare ogni realtà alla narrazione autobiografica riducendola a una totale rielaborazione, inevitabilmente falsificante, è necessario tenere conto che nell’operazione di costruzione della propria storia, per sé e per l’altro, i contenuti e la forma vengono scelti, adattati, modificati in funzione di molte varianti. Alcune hanno a che fare con le inevitabili deformazioni della memoria, o con l’auto censura inconscia; altre con l’adattamento alle strutture linguistiche oggettive e a costrizioni di ordine sociale e culturale (oltre che alla competenza linguistica soggettiva). […] Altri motivi di trasformazione nel raccontare di sé riguardano il bisogno di coerenza, di riduzione della dissonanza, che fa sì che avvengano delle modifiche in direzione della razionalità e della continuità. Vi è, inoltre, l’esigenza di essere confermato nella propria definizione di sé, […] di creare un’immagine positiva, di preservare e gratificare la “faccia”. E, inoltre, vi è l’esigenza di creare un rapporto collusivo con l’interlocutore»588.

Dunque, come accennato da Mizzau, l’intervista lungi dall’essere la riproposizione meccanica di ricordi “fotografici” e dunque immutabili del passato, sogno che sappiamo essere tale, è il prodotto del rapporto complesso e problematico tra l’intervistato e il suo passato.

«Il problema non è quello di una falsificazione, intenzionale o involontaria, dei fatti accaduti nel passato; è quello dell’effetto concreto del passato sul testimone, perché il suo processo vitale lo ha costruito per come è oggi ma, insieme, gli impedisce di fissarlo e ricordarlo punto per punto. Chi parla, infatti, è costruito dalle sue esperienze successive e, proprio per questo, difficilmente riesce a comunicarci il senso del suo vissuto antico: alcune parti del

      

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Sulla centralità del ruolo svolto dall’interlocutore nella realizzazione di un intervista si veda Renata Galatolo, La

narrazione nella conversazione. (Di)mostrare l’ascolto e la comprensione, in Roberta Lorenzetti, Stefania Stame (a

cura di), Narrazione e identità. Aspetti cognitivi e interpersonali, op. cit., pp. 118-119.

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Alessandro Portelli, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, op. cit., p. 60.

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Marina Mizzau, A proposito di (in)verosimiglianza narrativa, in Roberta Lorenzetti, Stefania Stame (a cura di),

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passato sono cancellate, altre sono state metabolizzate nel processo di crescita dell’individuo, talvolta una nuova necessità del presente, sempre mobile, provoca nuovi oblii, mentre quanto si era dimenticato riemerge per costruire quell’esempio di storiografia teleologica, ma in carne ed ossa, che siamo noi in rapporto al nostro stesso passato»589.

Sono proprio questi aspetti che a lungo hanno indotto gli storici a guardare con diffidenza all’oralità: «essi – chiosava Ramon Rémon – conoscono per esperienza la precarietà del ricordo, la fragilità della memoria; essi conoscono per mestiere l’inconsapevole propensione di ognuno a introdurre coerenza e linearità nella propria biografia»590.

Tuttavia ciò non significa condannare la traccia orale alla pura e semplice soggettività, irridere il suo valore testimoniale, negare ogni fondamento al ricordo, se non altro in ragione della «fedeltà a se stesso che si manifesta nella durata e nel potere della memoria»591. Per dirla con Carlo Ginzburg,

«i rapporti che intercorrono tra le testimonianze e le realtà da esse designate o rappresentate […] non sono mai ovvi: definirli in termini di rispecchiamento sarebbe […] ingenuo. Sappiamo bene che ogni testimonianza è costruita secondo un determinato codice. Attingere la realtà storica (o la realtà) in presa diretta è per definizione impossibile. Ma inferire da ciò l’inconoscibilità della realtà significa cadere in una forma di scetticismo pigramente radicale che è al tempo stesso insostenibile da un punto di vista esistenziale e contradditorio dal punto di vista logico»592.

Come abbiamo evidenziato in precedenza, avvalendoci della nota elaborazione di Craig Barclay, è bene distinguere tra la «verità» di un ricordo e la sua «accuratezza». Nella consapevolezza che anche «l’inaccuratezza» di un ricordo (errori, omissioni, ecc.), se scandagliata adeguatamente, può rivelare un impensato valore euristico. Dunque, la ricerca sulla memoria autobiografica, scrive Stefania Stame

«non considera certo le lacune, l’incertezza dei dettagli, le distorsioni come “errori”, né come menzogne. In quest’ottica, un ricordo è una rappresentazione mentale coerente con l’idea – l’immagine, il significato – che una persona ha di una determinata realtà e di se stessa al momento della rievocazione. Né vero né falso»593.

Ecco che allora, lungi dall’inficiare il valore del ricordo, «le lacune, l’incertezza dei dettagli, le distorsioni» agli occhi del ricercatore che ha affinato sensibilità di lettura sono rivelatrici di un frammento di problematica «verità» meritevole di ulteriore analisi. Ma sul tema ci soffermeremo tra poco [cfr. Capitolo 3, parte II. 11].

Ora torniamo al rapporto intervistato-intervistatore.