Dal nastro magnetico al digitale, possibilità e limit
1. Le fonti sonore: ascoltarle o trascriverle?
Quando la tecnologia consentì una ampia diffusione del magnetofono (inventato nel 1948) i cultori della storia orale, che a rigor di logica prese avvio solo in quel momento384, gioirono di fronte al nuovo prodigio della tecnica. Per la prima volta era possibile fissare e perpetuare la traccia sonora di una testimonianza. La registrazione consentiva di raggiungere un duplice risultato: salvare il contenuto parola per parola e, al contempo, l’infinita gamma delle varietà espressive (l’inimitabile unicità della voce intessuta di suono e silenzio, di inflessioni dialettali e di incertezze linguistiche, di cambiamenti di timbro, di fremiti d’emozione o d’indignazione, di foga torrentizia o di pudica ritrosia). L’elogio del magnetofono di Bovio consisteva anche in ciò.
Tuttavia fu presto evidente che se la registrazione consentiva di fissare su supporto esterno la voce umana, dall’altra non vi erano ancora le condizioni per un uso diffuso della traccia stessa. Dunque gli studiosi di allora furono costretti a limitare l’utilizzo delle tracce orali alla loro trascrizione, operazione di cui non sempre si coglie la grande complessità385. Affidiamoci allora alle parole di Alfredo Martini.
«Al fine di rendere più chiaro il discorso esemplifichiamo alcune possibili soluzioni di trascrizione sulla base di esigenze differenti […]:
- con testo base intendiamo una trascrizione che tende a rilevare attraverso la scrittura ogni particolare sonoro e parlato, riproducendolo in una forma la più aderente possibile alle forme orali prodotte dal testimone;
- il testo adattato contiene alcune varianti volte a correggere elementi impuri o non chiari, introducendo informazioni esterne al parlato e pulendo il testo dagli appesantimenti sonori più evidenti (intercalari ridondanti, suoni non trascrivibili, ecc);
- il testo normalizzato è invece una trascrizione che già contiene un intervento soggettivo del ricercatore più rilevante, le espressioni dialettali sono esplicitate, così come le parole tronche completate: si tratta sostanzialmente di una operazione di “lifting linguistico”;
- il testo tradotto è invece un passo sostanziale verso l’alterazione formale del testo, ma si limita a trasferire una forma in un’altra, dal dialetto e dal disorganico all’italiano e all’organico, con tutte le ambiguità e distorsioni che una operazione di questo tipo comporta;
- infine la ritrascrizione, ovvero un testo del tutto nuovo che il ricercatore riedita utilizzando il testo base, ma arricchendolo della propria soggettività che tiene conto delle sensazioni e dell’acquisizione di informazioni raccolte nel complesso dell’intervista, e di elementi emozionali e “occulti” rispetto a qualunque trascrizione letterale»386.
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«Se prima dell’invenzione del registratore magnetico il termine “fonti orali” può essere usato con beneficio d’inventario […] dagli anni Cinquanta in poi a me sembra che non si possa più a ragion veduta usare in ambito storico il termine “fonti orali” se non si fa riferimento a ricerche compiute mediante il magnetofono o altro mezzo di ripresa sonora o audiovisiva. E questo non per una sorta di feticismo dello strumento tecnologico o per una ingenua fiducia nella “cattura della realtà” da parte dello stesso, ma unicamente per l’esigenza scientifica di poter controllare la documentazione raccolta, di poterla verificare ed, eventualmente, confrontare. Ragioni che attengono quindi allo statuto reale di “fonte” del documento orale, per superare, appunto, lo stadio arcaico del “si dice” o del “mi è stato detto”». Franco Castelli, Fonti orali e scienza folklorica. Fonti orali e parola folklorica: storicità e formalizzazione, in Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit., volume I, p. 170.
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Sul modo di procedere nella trascrizione il dibattito e la discussione sono stati articolati e vivaci soprattutto negli anni Settanta. Si vedano in ambito letterario Franco Ferrarotti, Storia e storie di vita, Laterza, Roma-Bari 1981 e, in ambito antropologico, Glauco Sanga, Sistema di trascrizione semplificata secondo la grafia italiana, in “Rivista di dialettologia”, I, 1977, pp. 167-175. Sulla complessità dell’operazione e sul peso della soggettività del redattore nella scelta dei criteri trascrittivi si veda Luciano Giannelli, Introduzione alla lettura. Il testo come documento di lingua.
Problemi di rappresentazione, in Valeria Di Piazza, Dina Mugnaini, Io so’ nata a Santa Lucia. Il racconto autobiografico di una donna toscana tra mondo contadino e società d’oggi, Società storica valdelsana, Castelfiorentino
1988, pp. 43-62.
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Alfredo Martini, Lavorare con le fonti orali, in Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba manent. L’uso delle fonti
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A questa articolata gamma di trascrizioni va aggiunta la trascrizione fonetica387, così complessa e macchinosa che Antonella Fischetti ha osservato che,
«forzando, o estendendo il richiamo di Umberto Eco che ricordava che “il linguaggio della tesi di laurea è un
metalinguaggio e cioè un linguaggio che parla di altri linguaggi”, per cui “se fate una tesi sul Caravaggio mica vi
mettete a dipingere e se fate una tesi sullo stile dei futuristi non scrivete come un futurista”, allo stesso modo per la trascrizione, con cui si ha la trasposizione su segni scritti (quindi su un mezzo diverso) del parlato, è sufficiente forse il ricorso al normale ambito della grammatica italiana, comprensibile e leggibile, sollecitando l’ascolto del documento originale»388.
A prescindere dalla scelta tra le opzioni in campo e dalla maggiore o minore accuratezza con cui in quegli anni si procede alla trascrizione, vi è comunque negli oralisti più acuti la consapevolezza, come spiega Franco Castelli, che così facendo
«si percepisce una traccia estremamente impoverita e parziale della performance registrata, che ne restituisce solo la trama letteraria-linguistica, perdendo tutta la ricchezza significante dei tratti sovra-segmentali (intonazioni e timbri di voce, pause, imbarazzi, esitazioni, emozioni…)»389.
Insomma, mediante la trascrizione, inevitabilmente si perdeva «la “grana” [della voce] che – scrive Roland Barthes – è la materialità del corpo che parla la sua lingua materna»390.
Alessandro Portelli, per esprimere tutto il suo disappunto per il grave impoverimento che ne derivava, non trova di meglio che istituire un amaro parallelismo tra la trascrizione di queste conversazioni e quelle effettuate dalla commissione Warren incaricata di far luce sull’omicidio di J. F. Kennedy. Scrive Portelli, facendo sue le parole forgiate dallo scrittore americano Don De Lillo in Libra:
«Sta lì [la trascrizione, nda], piatta sulla pagina, pende immobile nell’aria pigra, come una specie di sgocciolio mentale spiaccicato, poesia di vite infangate e colate giù in forma di linguaggio»391.
Per la verità ci furono alcuni anni, tra la fine dei Sessanta e i primi anni Ottanta, in cui, complice la grande diffusione del giradischi, gli oralisti italiani si illusero di poter consentire a un pubblico potenzialmente molto vasto la fruizione diretta di parte del patrimonio raccolto dai «ricercatori scalzi». Fu la stagione dei Dischi del Sole editi dall’Istituto De Martino392 «per documentare in forma sonora la storia d’Italia raccontata dal punto di vista delle classi popolari»393.
I propugnatori di questo progetto, al di là degli intenti militanti, volevano evitare al pubblico l’inevitabile impoverimento dato dalla trascrizione scritta e, al contempo, riconoscere il ruolo fondamentale ancora svolto dall’oralità nella civiltà umana contemporanea. Infatti, come ebbe a scrivere Bovio nel 1968 proprio a proposito dei Dischi del Sole,
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Per quanto attiene la trascrizione fonetica si veda Nullo Minissi, La scrittura fonetica, Roma 1990.
388
Antonella Fischetti, Creazione e gestione della fonte orale, in Cesare Bermani, Antonella De Palma (a cura di), Fonti
orali. Istruzioni per l’uso, Società di Mutuo Soccorso Ernesto De Martino, Venezia 2008, p. 197.
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Franco Castelli, Fonti orali e scienza folklorica. Fonti orali e parola folklorica: storicità e formalizzazione, in Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit., volume I, p. 170.
390
Roland Barthes, “La grana della voce”, in Id., L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1985, p. 260.
391
Alessandro Portelli, Il testo e la voce. Oralità, letteratura e democrazia in America, op. cit., p. 53.
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A partire dalla metà degli anni Sessanta l’ala discografia dell’Istituto Ernesto De Martino comincia ad editare i Dischi del Sole e, nello stesso periodo, cosa assai indicativa della temperie culturale in atto, le Edizioni Avanti!, casa editrice del Partito socialista italiano, pubblicano la rivista “il Nuovo canzoniere italiano” (presto divenuto gruppo musicale di grande successo presso il pubblico militante) e un’opera in più volumi di Roberto Leydi sui Canti sociali
italiani (di cui nel 1964 si edita il primo e unico volume). Cesare Bermani, Una storia cantata. 1962-1997: trentacinque anni di attività del Nuovo Canzoniere Italiano-Istituto Ernesto De Martino, Istituto Ernesto De Martino-Jaca Book,
Milano 1997.
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«la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è colta per mezzo della comunicazione orale. La stragrande minoranza è colta per mezzo della comunicazione scritta. Non diversa la situazione in Italia. La comunicazione orale resa permanente dal disco è di più della cultura scritta. Diventa così giustificato il progetto di una storia d’Italia fatto sui dischi con l’ausilio delle testimonianze orali»394.
Tale esperimento tuttavia, per quanto nobile e generoso, non riuscì mai a raggiungere dimensioni di massa e così la fruizione diretta di fonti orali rimase fenomeno tutto sommato limitato.
Il Granaio della Memoria consente di superare questo limite. Infatti, come vedremo, collegandosi alla piattaforma informatica, una volta individuata una storia di vita, è possibile ascoltare il racconto del testimone e cogliere immediatamente e senza filtri la potenza evocatrice della narrazione.