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Il problema della conservazione delle fonti sonore, ieri…

Dal nastro magnetico al digitale, possibilità e limit

2. Il problema della conservazione delle fonti sonore, ieri…

Negli anni Cinquanta e Sessanta gli autori delle prime, pionieristiche registrazioni sonore su nastro non si posero il problema della conservazione, e dunque perpetuazione nel tempo, della fonte in questione. Altre erano le urgenze. A tal proposito con la consueta acutezza Luisa Passerini ha evidenziato che il ricercatore di storia orale («che è insieme prodotto e specchio del disfacimento della coscienza contemporanea e dell’aspirazione a una identità»)

«di fronte alla scomparsa a ritmo accelerato di istituzioni, tradizioni, rapporti sociali vecchi di secoli, cerca di sottrarre documentazione agli “archivi della tomba” [formula di G. Ewart Evans] ma è incalzato dall’ossessione di avere troppo poco tempo prima della distruzione definitiva e della scomparsa dei testimoni. Ne segue una macabra riduzione della coscienza storica a registrazione e dello storico ad archivista»395.

Peraltro, non premurandosi della conservazione delle proprie fonti, il ricercatore affannato e precipitoso si rivela archivista imperfetto. A discolpa di questi pionieri va però ricordato che allora, alla metà del Novecento, non era ancora divenuta patrimonio comune la percezione di quella che Portelli avrebbe in seguito definito la «irriducibile diversità dell’oralità»396, che consiste proprio nella traccia sonora, che va dunque salvata. All’epoca ci si limitava alla trascrizione della traccia senza preoccuparsi troppo del venire meno della fonte originale.

La situazione non mutò neppure negli anni Settanta quando la ricerca orale crebbe tumultuosa e, per alcuni aspetti, disordinata, spesso producendo in chiave militante materiali da utilizzare a fini immediati di politica culturale (dalla didattica alla controinformazione). È evidente che nel ribollente crogiuolo di quegli anni non poteva che esservi una generalizzata esclusione dai propri orizzonti problematici della dimensione conservativa e di salvaguardia della documentazione che si andava raccogliendo. La scarsità di risorse finanziarie a disposizione, la bassa qualità della strumentazione utilizzata di cui peraltro spesso non si conoscevano appieno le potenzialità e le caratteristiche tecniche, accompagnata da un diffuso e allo stesso tempo generoso dilettantismo portarono a una grande proliferazione delle ricerche molte delle quali però oggi perse del tutto.

Negli anni Settanta, con la sola eccezione della rete degli Istituti storici della Resistenza e dell’Istituto De Martino397, i cultori della storia orale hanno dato vita a ricerche tanto capillari

      

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Gianni Bosio, L’Italia nelle canzoni, in Cesare Bermani (a cura di), Bosio oggi: rilettura di una esperienza, Mantova 1986, p. 253.

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Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, op. cit., pp. 37-38.

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Alessandro Portelli, Sulla diversità della storia orale, op. cit., pp. 54-60.

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Per la verità Gianni Bosio fin dagli anni Sessanta aveva colto e posto il problema della conservazione delle tracce sonore e, in anticipo sui tempi, di quelle audiovisive: «La possibilità di fissare con il magnetofono modi di dire, porsi e comunicare (così come la pellicola permette di fissare in movimento feste, riti e spettacoli) ridona alla cultura delle classi oppresse la possibilità di preservare i modi della consapevolezza, cioè della propria cultura. Si tratterà da ora in

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quanto frammentarie: migliaia di esperienze condotte in ogni angolo della Penisola, piccole e grandi ricerche condotte in comunità rurali e metropolitane, scarne raccolte di bobine e cassette, della maggior parte delle quali è andata persa ogni traccia. Buona parte di quel materiale è andato perso non solo perché banalmente dimenticato in chissà quale cassetto398 ma anche e soprattutto perché non aver affrontato allora il problema della conservazione delle tracce audio ha, ipso facto, determinato la loro scomparsa.

I braccianti di Cerignola o i mezzadri mantovani che avevano riacquisito un provvisorio diritto alla parola ora tacciono nuovamente. Il passare degli anni, il venire meno delle realtà che avevano raccolto con il magnetofono quel frammento di vita e di mondo, il non aver affrontato a suo tempo lo snodo della conservazione delle tracce sonore sono fattori che, sommatisi, hanno privato di voce i “cafoni” della Marsica e gli immigrati inurbati nelle grandi città del Nord.

Nella migliore delle ipotesi resta, se effettuata allora, la trascrizione delle loro interviste. Nella peggiore neppure ciò.

È giocoforza ammettere che resta ben poco del patrimonio documentario ampio, articolato, diffuso sul territorio, certo di difforme qualità ma di indubbio interesse storiografico e scientifico raccolto fino ai primi anni Ottanta, e talvolta anche dopo. Appena migliore è la situazione del materiale sonoro, ma anche audiovisivo, raccolto negli anni Ottanta e primi anni Novanta. Si tratta di un patrimonio che se non sarà oggetto in tempi brevi di interventi tecnici adeguati rischia di scomparire rapidamente o di essere in gran parte inutilizzabile per la deperibilità dei supporti.

Per dare un’idea della dimensione del problema è sufficiente dire che alla fine degli anni Novanta Cesare Bermani quantificò in 56 mila le ore di sonoro presenti in archivi pubblici e privati italiani, cifra certamente sottostimata perché di alcuni materiali si sono perse le tracce399. Quante di quelle 56 mila ore di registrato/girato possono ancora essere salvate? Nessuno lo sa.

3. … e oggi

A partire dagli anni Novanta tutto è mutato. Nessun ricercatore serio oggi può operare ignorando i suoi doveri di archivista. Si può dire che oggi non sia possibile pensare la ricerca con le fonti orali senza immediatamente e contemporaneamente porsi il problema della loro conservazione. Questo fa sì che l’attenzione agli aspetti tecnici e formali delle registrazioni sonore e audiovisive abbia assunto un valore ben più rilevante rispetto al passato, accentuando l’attenzione sulla qualità delle registrazioni, sulla necessità di trasferire sollecitamente gli originali su supporti in grado di garantire nel tempo la conservazione dei documenti registrati, oltre che sui luoghi di conservazione.

Parallelamente alla conservazione delle fonti il mondo scientifico ha riflettuto sempre più intensamente sulla necessità della loro consultabilità. In Italia (e non solo) si è infatti determinata la situazione paradossale per la quale fino a pochi anni fa in genere la fonte orale, oltre a essere prodotta dal ricercatore, era da questi fruita in modo quasi esclusivo. La difficoltà della sua reperibilità e della sua fruizione la sottraeva alle possibilità di verifica e studio da parte di altri ricercatori. Invece di essere patrimonio collettivo la fonte orale si imponeva come mera proprietà privata usufruibile quasi esclusivamente dal suo creatore e detentore. Questa situazione quasi mai era frutto di una scelta. Nella quasi totalità dei casi era il risultato delle storture conseguenti alle modalità approssimative e abborracciate con cui in Italia nei decenni si era diffusa e consolidata la

       

poi di preparare gli strumenti di conservazione di questo materiale, la catalogazione, l’utilizzazione». Gianni Bosio,

Elogio del magnetofono, in Id., L’intellettuale rovesciato, op. cit., p. 171.

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Per comprendere meglio lo stato dell’arte nel 1993 il Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, segnatamente l’Ufficio centrale per i beni archivistici, ordinò un censimento degli archivi sonori e audiovisivi esistenti. Giulia Barrera, Alfredo Martini, Antonella Mulè (a cura di), Fonti orali. Censimento degli studi di conservazione, Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, Roma 1993.

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Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit., volume I, p. 58.

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produzione di fonti orali. Si aggiunga che, quand’anche disponibili, le fonti orali erano dotate di apparati critico-informativi spesso così lacunosi da non consentire una adeguata fruizione del documento sonoro in questione400.

Oggi si è imposta una sensibilità nuova, dovuta anche al fatto che lo studioso, che ormai opera con strumentazione audiovisiva oltre che sonora, sa di produrre documenti che sempre più spesso e con crescente facilità potranno essere usati da altri studiosi. Ragion per cui la traccia che un tempo sarebbe stata prodotta pensando solo ed esclusivamente alla propria ricerca ora viene co- creata pensando anche ad altri possibili fruitori. Ha scritto in proposito Pietro Clemente che

«l’assumere la produzione documentaria orale sotto l’ottica della conservazione produce una specie di riorganizzazione gestaltica del campo; come tale è sia banale che rivelatrice; ovvia perché mai negata da alcuno, innovativa perche mostra improvvisamente la ricerca di fonti orali nella forma di una mappa, contrassegnata da segni che indicano aree, quantità, tipi di documenti che – si suppone – tutti gli studiosi vorrebbero conoscere e confrontare con i propri»401.

Al di là degli auspici di Clemente, è noto che anche oggi spesso le fonti conservate, soprattutto quelle scampate fortunosamente alla mannaia del tempo, non sono consultabili, non foss’altro che per i rischi di usura e dunque di possibile, definitiva perdita delle tracce in questione.

Si è così imposta l’esigenza di trovare soluzioni tecniche adeguate che consentano l’accesso agli archivi di fonti orali e, al contempo, un utilizzo metodologicamente corretto dei documenti, ragionato e il più possibile semplificato, attraverso la costruzione di inventari e l’individuazione di sistemi di schedature in grado di garantire la maggiore comprensione possibile nonché comparabilità e integrabilità di indagine. In questo senso la tecnologia digitale mai come oggi può venire incontro alle esigenze della conservazione, dell’archiviazione e della fruizione delle tracce sonore e audiovisive. Non possiamo che concordare con Alfredo Martini quando afferma che

«non esistono dubbi sul fatto che i sistemi informatici con la loro rapidità di evoluzione, così come la diffusione di reti e meccanismi di scambio telematico e virtuale, ad iniziare da Internet, offrano opportunità impensabili fino a pochissimi anni fa all’archivistica e alla consultazione o all’elaborazione documentaria. Oggi la documentazione stessa vive su supporti totalmente diversi rispetto a quelli del passato e la dimensione multimediale costituisce un fattore centrale della vita e della produzione espressiva, culturale, amministrativa. Le fonti del futuro saranno sempre meno caratterizzate dal supporto cartaceo, così come breve è stata la stagione di quelle magnetiche o similari, mentre si afferma ovunque il digitale. Il futuro mai come in questi anni è sempre più presente»402.

Insomma, per dirla con Gianni Sciola,

«molto nastro magnetico è passato attraverso le testine dei registratori dalla fase un po’ populista degli esordi da parte della storia orale nel nostro paese che si è sentita paga del fatto di restituire attraverso le interviste “la voce agli oppressi e ai ceti subalterni”»403.

La piattaforma informatica Granai della Memoria è forse la più avanzata esperienza in questo senso, essendo il grado di ottimizzare le straordinarie potenzialità della multimedial

      

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Ragione questa che ha indotto gli addetti ai lavori ad attivarsi per dotare le tracce sonore di quel corredo di informazioni basiche (chi ha condotto l’intervista, come e quando è stata realizzata, presenza di mediatori) che solo l’autore del documento può fornire in modo esaustivo.

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Pietro Clemente, Voci su banda magnetica: problemi dell’analisi e della conservazione dei documenti orali. Note

italiane, in Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Gli archivi per la storia contemporanea. Organizzazione fruizione. Atti del seminario di studi, Mondovì 23-25 febbraio 1984, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Roma 1986,

pp. 190-191.

402

Alfredo Martini, La conservazione delle fonti. Dalla conservazione delle fonti orali a un archivio multimediale, in Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit., volume I, p. 145.

403

Gianni Sciola, Memoria e multiculturalismo. Note sull’VIII Congresso di Storia orale, in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, Bergamo, n. 40, dicembre 1994, p. 104.

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4. L’audiovisivo

Negli ultimi vent’anni sono maturate le condizioni per una nuova rivoluzione applicata alla oralità: la videoregistrazione. Le riprese audiovisive infatti consentono di salvare il sonoro ma anche il video e, dunque, di documentare il “non detto”: la mimica facciale e gestuale, le informazioni non verbali che fluiscono in doppio senso tra i due attori404. Ovviamente nella video intervista ai due attori d’un tempo (l’intervistato e l’intervistatore) se ne aggiunge un terzo, l’operatore, in grado cogliere anche gli oggetti e altre persone presenti nella stanza. La videoripresa dunque consente di affiancare all’udito un altro senso, altrettanto se non più importante ancora, la vista. Infatti, scrive a questo proposito Franco Castelli,

«alla registrazione magnetofonica sfugge un livello importante che si connette ed integra con i codici linguistici: è il linguaggio del corpo, sono i gesti che accompagnano la parola, i codici gestuali e di prossemica che accompagnano la produzione-esecuzione del testo. Come ha scritto Lidia Beduschi [in assenza di videoripresa] “si studia il testo trascritto, a volte (ancora troppo frammentariamente o episodicamente) il testo gestuale, ma di esso non si coglie a fondo il carattere di sistema di convenzioni, di codice”»405.

Un tempo i mezzi di registrazione visiva erano costosi, difficili da usare e avevano uno svantaggio immenso: richiedevano una grande illuminazione che poneva non pochi problemi. Infatti l’intrusione di un mezzo di ripresa così ingombrante rischiava spesso di compromettere la possibilità stessa di procedere alla intervista. Succedeva infatti che testimoni che si erano rivelati oltremodo loquaci nelle interviste su solo supporto sonoro ammutolissero intimoriti di fronte alla telecamera e alle luci.

Questo almeno fino alla fine degli anni Novanta quando l’analogico ha ceduto il posto al digitale, ben più economico, pratico e maneggevole. Infatti proprio a partire dagli anni Novanta sul mercato dell’audiovisivo sono state immesse apparecchiature via via sempre più accessoriate, in grado di buone e persino ottime prestazioni, acquistabili a prezzi sempre più contenuti e, fondamentale ai nostri fini, poco o per nulla intrusive tanto da rendere in molti casi superfluo l’operatore di ripresa sostituito dall’intervistatore stesso. Grazie a questa rivoluzione tecnologica oggi si possono realizzare video interviste di buona qualità con strumentazioni miniaturizzate (che possono stare nella tasca di una giacca!) con tutti i vantaggi intuibili nel mettere a suo agio l’interlocutore. La possibilità di reperire videocamere di buona resa, semplici da usare e a prezzi accessibili ha posto le condizioni per una diffusione virale delle videointerviste di cui il Granaio della Memoria ha colto e capitalizzato i risvolti positivi, come avremo modo di vedere.