Sul valore epistemologico delle fonti oral
3. Nonostante tutto, «all’onore del mondo»
Il fatto che studiosi di discipline anche molto diverse le une dalle altre si interroghino non più sulla fondatezza e utilità delle «storie orali», portato ormai acquisito, ma sullo status e sulla natura di queste ultime è la migliore dimostrazione di quanta strada è stata percorsa.
Quanta acqua sotto i ponti è passata da quando, ancora negli anni Ottanta, Gwin Prins, che pur simpatizzava con le fonti orali, scriveva sconsolatamente che
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Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, La Nuova Italia, Firenze 1988, p. 42.
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Claude Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 262.
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«In testa al corteo, prestigiosi, ecco gli archivi di stato, manoscritti o stampati, documenti unici, espressione del potere dello stato, di quello delle case regnanti, dei parlamenti, delle corti dei conti; segue il drappello dei testi a stampa non più segreti, in primo luogo testi giuridici e legislativi, poi giornali e pubblicazioni che non emanano soltanto dal potere statuale ma dall’intera società colta. Le biografie, le fonti di storia locale, i racconti dei viaggiatori formano la coda del corteo […], occupano una posizione più modesta nell’elaborazione della tesi; la storia è compresa dal punto di vista di coloro che nel tempo hanno assunto la direzione della società, uomini di stato, diplomatici, magistrati, imprenditorie e amministratori». Paul Virilio, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1998, p. 28.
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Peter Burke, La storiografia contemporanea, in Peter Burke (a cura di), La storia contemporanea, Laterza, Roma- Bari 1993, pp. 17-18.
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Jan Vansina, La tradizione orale. Saggio di metodologia storica, Officina Edizioni, Roma 1976.
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«nelle moderne società industriali dell’alfabetizzazione di massa gli storici – cioè la maggiore parte degli storici di professione – sono in genere piuttosto scettici circa il valore delle fonti orali nella ricostruzione del passato. “Su tale questione sono uno scettico quasi totale” – ha sarcasticamente osservato A. J. P. Taylor –. “Vecchi che sbavano sulla loro giovinezza? No!”.
Ora molti di loro sono forse più generosi e ammettono la storia orale – vale a dire la storia ricostruita sulla base delle testimonianze delle persone viventi piuttosto che scritte – come un’utile e piacevole esemplificazione, ma pochi sarebbero disposti a riconoscere a tale materiale un ruolo centrale nello studio delle società moderne, così ricche di documenti»242.
Pur alla luce di queste difficoltà, oggi in gran parte superate a trent’anni di distanza, tali riflessioni ci dicono molto dell’accidentato cammino che le fonti orali hanno dovuto percorrere prima di riuscire ad affermarsi, conquistando un «posto al sole» non già in sostituzione di quelle scritte – pretesa inaccettabile e peraltro quasi mai avanzata – bensì al loro fianco243. C’è voluto del bello e del buono a svellere quella sorta di monopolio sulla fondatezza scientifica di cui le fonti scritte hanno goduto così a lungo in qualunque ambito di ricerca. A proposito del «feticismo» per le fonti scritte – ma anche alludendo alla loro insoddisfacente finitezza, cosa che avrebbe dovuto indurre a superare tale monopolio – Edward Carr nel suo classico Sei lezioni sulla storia scrive:
«Il feticismo ottocentesco per i fatti era integrato e garantito dal feticismo per i documenti. I documenti costituivano l’Arca del Patto nel tempio dei fatti. Lo storico si avvicinava ad essi in atto riverente, con animo sottomesso, e ne parlava in tono colmo di rispetto. Se una cosa si trova nei documenti, allora è così, e basta. Ma che cosa ci dicono i documenti, i decreti, i trattati, i libri mastri, i libri azzurri, i carteggi ufficiali, le lettere private, i diari allorché ci accostiamo a loro? Nessuno documento è in grado di dirci di più di quello che l’autore pensava – ciò che egli pensava fosse accaduto, ciò che egli pensava che avrebbe dovuto accadere o che sarebbe accaduto, o forse soltanto ciò che egli voleva che altri pensassero che egli pensasse, o anche semplicemente ciò che egli pensava di pensare»244.
Eccoci arrivati a una considerazione critica densa di possibili conseguenze, considerazione tanto più significativa in un autore come Carr mai tenero verso le fonti orali: «Nessuno documento è in grado di dirci di più di quello che l’autore pensava». O, per dirla con le parole di Jacques Le Goff, «il documento non è una merce invenduta del passato, è un prodotto della società che lo ha fabbricato secondo i rapporti delle forze che in essa detenevano il potere»245. Dunque, almeno in prima battuta non ci rivela, torniamo a Carr, «quello che l’autore pensava». Questa lacuna, ci sentiamo di dire, può almeno in parte essere colmata dalle fonti orali. Ma la prudenza che Carr, storico di vecchia formazione, all’inizio degli anni Sessanta felpatamente consigliava di fronte al totem rappresentato dalla fonte scritta era ancora ben lungi dal trasformarsi in patrimonio acquisito. Infatti in ambito storiografico, ma non solo, continuava a rifulgere, più opaca di un tempo ma comunque sempre radiosa, la stella del principe dei metodologi che ben oltre la morte, per quasi un secolo, fino a metà Novecento, riuscì a esercitare una reale egemonia nel suo ambito di azione. Sto parlando, ovviamente, di Leopold von Ranke.
«Nella gerarchia dei dati elaborata da quest’ultimo – scrive ancora Gwin Prins –, quando sono disponibili fonti ufficiali scritte esse vanno preferite alle altre. Se non lo sono bisogna accontentarsi di una soluzione di ripiego, e andare a riempire il proprio secchio oltre la pura fonte del documento ufficiale. In questi termini le informazioni orali costituiscono senza dubbio una soluzione di ripiego o anche peggio»246.
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Gwin Prins, La storia orale, in Peter Burke (a cura di), La storia contemporanea, op. cit., p. 135.
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L’oralistica «vuole basarsi su quegli archivi viventi che sono gli uomini. Non si tratta di privilegiare l’orale, di svilire il documento scritto. Ma perché, d’altra parte, accordare maggiore credito alle memorie di Las Cases che alla voce di Davoust, ammesso che fosse stato possibile intervistare il vincitore di Auerstadt la sera stessa degli addii di Fontainebleau?». Jean Lacouture, Storia immediata, in Jacques Le Goff (a cura di), La nuova storia, Mondadori, Milano 1980, p. 211.
244
Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1966, p. 20.
245
Jacques Le Goff, Storia e memoria, op. cit., p. 452.
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Ecco come sono state viste a lungo le fonti orali, «una soluzione di ripiego o anche peggio», in assenza di fonti scritte. Relegate a un ruolo ancillare, fino a tempi recenti le fonti orali sono state costrette a una «esistenza clandestina», per dirla con la nota formula di Raphael Samuel. Cosa che indusse Alessandro Portelli a sbottare:
«non è chiaro perché, se un operaio racconta l’occupazione delle fabbriche o un partigiano la Resistenza, la loro memoria debba essere considerata meno fedele di quella di Ugo La Malfa quando parla sul dopoguerra o di Giorgio Amendola che racconta l’avvento del fascismo. Qui non è tanto questione di un pregiudizio diretto di classe, quanto del primato sacrale della scrittura»247.
In verità, alcuni padri della metodologia storica non meno ossequiosi verso la sacralità del documento scritto lasciarono leggermente socchiusa la porta dello studio del ricercatore a fonti di altra natura, incluse quelle orali. Lo stesso Fustel de Coulanges, che come pochi altri aveva privilegiato il documento scritto, nel lontano 1862 afferma che, in sua assenza, «la storia deve scrutare le favole, i miti, i sogni della fantasia, tutte queste vecchie falsità al di sotto delle quali deve scoprire qualcosa di reale, le credenze umane. Là dove è passato l’uomo, dove ha lasciato qualche impronta della sua vita e della sua intelligenza, là sta la storia»248. Ma al di là di questa ruvida concessione, sarebbe vano in lui e negli austeri padri della metodologia ottocentesca cercare e trovare una traccia di considerazione per l’oralità.
L’unico campo disciplinare in cui a lungo fu ammesso e valutato positivamente un uso pieno, ampio e articolato delle fonti orali era quello inerente lo studio delle popolazioni e delle culture extra-europee prive di scrittura e dunque, ovviamente, impossibilitate a produrre fonti scritte. Ciò valeva anche quando oggetto di studio erano civiltà in cui era in corso «l’addomesticamento del pensiero selvaggio», per usare la celeberrima definizione di Jack Goody, cioè il passaggio dalla memorizzazione orale a quella scritta249. Henry Moniot ha efficacemente descritto lo sguardo altezzoso e compassionevole con cui in tali ambiti di ricerca si faceva una munifica deroga alla tradizione dando mano libera nell’uso delle fonti orali:
«C’era l’Europa ed era tutta la storia. A monte e a distanza, alcune grande civiltà, che i loro testi, le loro rovine, talvolta i loro legami di parentela, di scambio e di eredità con l’antichità classica, nostra madre, o l’ampiezza delle masse umane che avevano opposto ai poteri o allo sguardo europeo, facevano ammettere ai confini dell’impero di Clio […]. Il resto: tribù senza storia, secondo il giudizio unanime dell’uomo della strada, dei manuali, dell’università. Le cose sono cambiate»250.
Già, «le cose sono cambiate». E non solo negli studi applicati alle «tribù senza storia». La ricerca intrapresa nei campi disciplinari più diversi da coloro che con maggiore attenzione e più acume hanno interloquito criticamente con le fonti orali è arrivata a riscattare tali fonti. Lungi dall’essere «una soluzione di ripiego o anche peggio», la fonte orale non è affatto una «sostituzione», non va intesa come toppa che deve celare il buco dovuto a mancanza di fonte scritta. Vansina, uno dei titani della riflessione sulle fonti orali, dimostra che il rapporto tra fonti orali e scritte non è
«quello della diva dell’opera e della sua sostituta: quando la stella non può cantare compare la sua sostituta; quando manca la scrittura sale sul palcoscenico la tradizione. Questo è sbagliato. Le fonti orali correggono le altre prospettive nella stessa misura in cui queste ultime correggono le prime»251.
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Alessandro Portelli, Sulla diversità della storia orale, in Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale.
Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, Odradek, Roma 1999, volume I, p. 157.
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Citato in Jacques Le Goff, Storia e memoria, Einaudi, op. cit., p. 91.
249
Jack Goody, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Franco Angeli, Milano 1981.
250
Henry Moniot, La storia dei popoli senza storia, in Jacques Le Goff, Pierre Nora (a cura di), Fare storia. Temi e
metodi della nuova storiografia, Einaudi, Torino 1981, p. 73.
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Le fonti orali testimoniano, esternano e dunque salvano da sicura dispersione un patrimonio cognitivo comunque inteso non diversamente codificabile altrimenti destinato a sicura dispersione. Tanto più, come chiosa Passerini proprio riflettendo su Vansina, che
«la tradizione è profondamente segnata dalle esigenze della società in cui viene trasmessa e di cui conferma i valori; per questo le memorie personali, i racconti privati, seppur privi di sistematicità, sono più veri e credibili di quelli pubblici»252.
In questo senso le fonti orali integrano le informazioni desumibili dal caleidoscopio delle altre fonti, realtà innumerevoli, le più diverse e non sempre immediatamente percepibili, che l’uomo dissemina nel suo passaggio terreno dal momento che, per dirla con Marc Bloch, «la diversità delle testimonianze storiche è quasi infinita. Tutto ciò che l’uomo dice o scrive, tutto ciò che costruisce e che tocca, può e deve fornire informazioni su di lui»253.
Sempre a Bloch dobbiamo una acuta riflessione sulla necessaria pluralità delle fonti, che possono essere e sono le più ampie ed esaustive, parole illuminanti, se non altro perché scritte nei lontani anni Quaranta, tempi in cui appena si cominciava a balbettare di fonti orali ed affini.
«Sarebbe una grande illusione immaginare che a ciascun problema storico corrisponda un tipo unico di documenti, specializzato per quell’uso […]. Quale storico delle religioni si accontenterebbe di consultare i trattati di teologia o le raccolte di inni? Egli lo sa bene: le immagini dipinte o scolpite sui muri dei santuari, la disposizione e l’arredamento delle tombe possono dirgli, sulle credenze e le sensibilità morte, almeno quanto molti scritti»254.
Dunque l’oralità produce documenti che hanno la stessa dignità degli altri documenti prodotti dall’uomo. In questo senso, per tornare ancora una volta a Carr,
«la storia [ma il discorso vale per ogni scienza umana] consiste in un complesso di fatti accertati. Lo storico trova i fatti nei documenti, nelle iscrizioni e così via, come i pesci sul banco del pescivendolo. Lo storico li raccoglie, li porta a casa, li cucina e li serve nel modo che preferisce. […] In realtà i fatti storici non si possono minimamente paragonare a pesci allineati sul banco del pescivendolo. Piuttosto li potremmo paragonare a pesci che nuotano in un oceano immenso e talvolta inaccessibile: e la preda dello storico dipende in parte dal caso, ma soprattutto dalla zona dell’oceano in cui egli ha deciso di pescare e dagli arnesi che adopera: va da sé che questi due elementi dipendono a loro volta dal genere di pesci che si vuole acchiappare»255.
Le fonti orali, le «tracce», sia pur non nel senso ricoeuriano256, sono dunque «pesci» al pari di ogni altra fonte.