ovvero «elogio del magnetofono»
2. La fase aurorale
Negli anni Cinquanta tre fattori molti diversi tra loro (il progressivo ammutolire del magistero crociano, il rinnovamento nelle scienze umane spesso verificatosi in ambito extra- accademico e la diffusione del magnetofono) consentono anche in Italia la nascita e diffusione di un numero crescente di ricerche fondate sulle “storie di vita’”. Si va «da quelle meridionaliste e di versante sociologico-letterario di Rocco Scotellaro e Danilo Dolci sul mondo contadino del Sud a quelle di Franco Cagnetta sulla cultura barbaricina; da quelle di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola
283
Edoardo Grendi, Polanyi. Dall’antropologia economica alla microanalisi storica, Etas libri, Milano 1978, p. 165.
284
Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit., volume I, p. 4.
285
Marc Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino 1969, p. 78.
286
Tra le altre vanno ricordate Silvio Micheli, I giorni di fuoco, Editori Riuniti, Roma 1955; Marco Cesarini Sforza,
Modena M Modena P, Editori Riuniti, Roma 1955; Raimondo Luraghi, Il movimento operaio torinese durante la Resistenza, Einaudi, Torino 1958; Romano Battaglia, Risorgimento e Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1963; Cesare
Bermani Pagine di guerriglia, Sapere, Milano, s. d.
287
Luigi Lombardi Satriani, L’intervista: ascolto e cecità, in A.a V.v., L’intervista strumento di documentazione.
Giornalismo, antropologia, storia orale. Atti del convegno, Roma, 5-7 maggio 1986, op. cit., p. 103.
288
A.a. V.v., L’intervista strumento di documentazione. Giornalismo, antropologia, storia orale. Atti del convegno,
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sui boscaioli e minatori maremmani, a quelle di Edio Vallini, ex operaio, che raccolse 200 storie di vita di operai»289.
Come si può intuire siamo dunque in presenza di una crescita, presto divenuta tumultuosa, di opere intessute di oralità, ricerche spesso originate da un esplicito intento politico: dare voce a coloro che finora erano rimasti senza voce, almeno agli occhi della cultura paludata. Renderli consapevoli che anche loro erano portatori di una storia che meritava di essere indagata: «la storia dal basso aiuta a convincere quanti di noi sono nati senza cucchiaini d’argento in bocca del fatto che abbiamo un passato, che proveniamo da qualche luogo!»290. Per dirla con Mario Isnenghi, per molti aspetti l’oralistica fu «una forma di recupero o di riscatto dei vinti e dei senza storia»291. A molti parve che per la prima volta gli uomini irrompessero nella Storia, che per la prima volta le storie di cui erano protagonisti e portatori fossero in grado di innervare, vivificare e talvolta correggere la grande Storia. Insomma a molti parve che si fosse a un passo della «umanizzazione della Storia»292. Ovviamente le inusitate sfide metodologiche di tale rinnovamento disciplinare erano evidenti e subito percepite dagli studiosi più acuti.
«Come sappiamo, le persone non sono libri, non si possono studiare come libri, e non si possono nemmeno mettere nei libri. C’è una relazione complicata tra le persone, le storie che raccontano, e i libri che leggiamo, che studiamo, che scriviamo. Per ragionarci sopra dobbiamo inoltrarci in un territorio relativamente inesplorato che sta all’incrocio tra storia, antropologia, linguistica e letteratura. Il nome di questo territorio è storia orale»293.
A prescindere dalle necessarie innovazioni teoriche e pratiche, va evidenziato che non estranea alla «umanizzazione della Storia» era la pregressa – o allora ancora in corso – militanza politica di buona parte di coloro che operavano con le fonti orali.
«Negli anni dopo la Liberazione Ernesto De Martino, Raniero Panzieri, Gianni Bosio hanno militato tutti in “Quarto stato”, corrente del Psiup che aveva per leader Lelio Basso […]. Danilo Montaldi e Romano Alquati erano nel gruppo di Unità proletaria di Cremona e lavoravano con Panzieri a “Quaderni rossi”. Questa è l’area politica che conduce inchieste in quegli anni, e non consterà [inizialmente] che di poche decine di militanti. Tuttavia è in quest’area, che non presentava certo caratteri di omogeneità, continuamente percorsa da dissensi teorici e politici, che si sviluppano le esperienze culturali più innovative e significative di quel decennio»294.
Dunque il gruppo, dapprima esiguo ed ereticale e poi sempre più numeroso e influente, che lavorava con le fonti orali era caratterizzato da una più o meno marcata militanza politica, spesso legata alla sinistra socialista295, che non poteva non influenzare gli ambiti di ricerca scelti.
«Il carattere fortemente impegnato, “militante”, dell’esperienza italiana con le fonti orali, aveva orientato il lavoro di ricerca sostanzialmente in tre direzioni principali: la storia della Resistenza e delle forme del conflitto di
289
Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit., volume I, p. 17.
290
Jim Sharpe, La storia dal basso,op. cit., p. 48.
291
Mario Isnenghi, Parabola dell’autobiografia. Dagli archivi della “classe” agli archivi dell’“io”, in “Rivista di storia contemporanea”, nn. 2-3, aprile-luglio 1992, p. 382.
292
Citato in Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, op. cit., p. 58.
293
Alessandro Portelli, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, op. cit., p. 75.
294
Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit., volume I, pp. 16-17.
295
I molti ricercatori oralisti che nei Cinquanta e Sessanta erano organici o vicini alla sinistra del Psi puntavano a «una storiografia dal basso, che avrebbe dovuto risalire alla vitalità culturale e creativa dei “ceti subalterni”, puntando soprattutto sugli aspetti sociali e folclorici e sulla raccolta di documenti d’archivio e fonti materiali. La storia generale avrebbe dovuto essere il frutto dell’accostamento di indagini specifiche locali. Significativa in questo senso fu l’esperienza della rivista “Movimento operaio” nel periodo in cui fu diretta da Gianni Bosio. La rivista “Quaderni storici” segnò invece l’apertura della speculazione in prospettiva marxista alle scienze sociali e soprattutto all’antropologia». Renata Salvarani, Storia locale e valorizzazione del territorio. Dalla ricerca ai progetti, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 32.
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classe; le interconnessioni e le trasformazioni della cultura contadina in seguito all’incontro con la cultura urbana e di massa; lo studio dei gruppi marginali e delle ideologie minoritarie all’interno della storia del movimento operaio»296.
In questo frangente si dimostra quanto nell’homo histyoricus, felice classificazione quasi linneana della figura del ricercatore che dobbiamo a Paul Veyne297, il portato esistenziale abbia un peso ineludibile298. Il che conferma, a maggior ragione, il noto adagio crociano secondo il quale «ogni storia è storia contemporanea» perché, «remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni»299.
È questo l’ambito nel quale emergono figure e opere destinate “a fare scuola” nell’oralista italiana.
3. I patriarchi
Negli anni Cinquanta e Sessanta il campo vieppiù fecondo delle fonti orali è stato presidiato da due dioscuri che, pur muovendo da diverse premesse e approdando a esiti diversissimi, hanno indicato inedite linee di ricerca e plasmato nuovi fondamenti metodologici, il tutto spesso sorretto da coinvolgenti suggestioni che, se non sempre si sono tramutate in realtà, certo hanno plasmato più di una generazione di ricercatori. Stiamo parlando ovviamente di Ernesto De Martino e Gianni Bosio, cui va affiancato Danilo Montaldi. Loro hanno impersonato la cosiddetta «prima ondata» dell’oralistica italiana che, tesa a coniugare rigore scientifico e ispirazione umanistica, aveva alcune caratteristiche distintive: forte carica politica, elementi di denuncia sociale, distanza dalla tradizione storiografica a favore del retaggio folklorico e letterario.
A loro il merito, oltre quelli appena ricordati, va ascritto avere contribuito in modo decisivo anche in Italia a un generale rinnovamento tematico nella ricerca avendo «barattato i duchi con i barboni, il gran mondo con quello della gente comune, i grandi uomini con i piccoli, le imprese rilevanti con la vita quotidiana»300. Merito che andò di pari passo alla promozione e sviluppo di nuovi e fecondi rapporti tra discipline umane che sino ad allora si erano quasi ignorate: «È lecito sognare il campo dello storico senza frontiere e legato da un’unione doganale con i suoi vicini nobili come l’etnologia, la linguistica, la geografia umana, sospetti come la sociologia o la scienza politica, un tantino spregevoli come il giornalismo»301.
Ovviamente, perché tale innovativo approccio potesse diffondersi fu necessario ingaggiare una dura lotta contro l’establishment accademico, contro prassi consolidate, in definitiva contro les idée recu, abbattendo quelli che l’economista e sociologo Francois Simiand definiva «gli idoli della tribù degli storici»302. La scuola oralista italiana cominciò a lavorare alacremente, dissodando un
296
Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, pp. 84-85.
297
Paul Veyne, Come si scrive la storia, Laterza, Bari-Roma 1973, p. 331.
298
«In realtà, a dispetto di qualsiasi atto di purificazione e contrariamente all’asserzione di Fénelon, secondo cui “non appartiene ad alcun tempo né ad alcun paese”, lo storico rimane una creatura del proprio tempo e della propria cultura, che può guardare al passato e comprenderlo solo alla luce del presente; nel proprio lavoro trasporta le sue credenze, i suoi interessi, il complesso della sua esperienza biografica: addirittura lega alla propria indole la decisione di aver intrapreso quel mestiere piuttosto che un altro». Giovanni De Luna, La passione e la ragione. Fonti e metodi dello
storico contemporaneo, op. cit., p. 47.
299
Benedetto Croce, Storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938, p. 5. Per Lucien Febvre il ricercatore «raccoglie sistematicamente, classificando e raggruppando i fatti passati, in funzione dei suoi bisogni presenti. Solo in funzione della vita essa interroga la morte […]. Organizzare il passato in funzione del presente: tale si potrebbe definire la funzione sociale della storia». Cfr. Lucien Febvre, Problemi di metodo storico, op. cit., pp. 185-186.
300
Francois Furet, Il laboratorio della scienza, il Saggiatore, Milano 1985, p. 43.
301
Jean Lacouture, Storia immediata, op. cit., p. 215.
302
L’economista e sociologo Francois Simiand, annalista ante litteram, denunciava «i tre idoli della tribù degli storici»: l’idolo politico (la storia politico-militare prima di tutto), l’idolo individuale (che impediva di considerare l’uomo come
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terreno incolto eppure potenzialmente fecondo, aspirando al rinnovamento delle scienze sociali e, non da ultimo, al riconoscimento scientifico di quanto andava facendo.
«Questo sherpa dell’operazione storica, che traccia faticosamente la pista […], non merita forse che gli si proponga di piantare una bandiera sulla cima della montagna? Aggrappato alla parete, egli scruta le rocce, fissa ramponi, pianta picchetti. Ci sarà per lui un posto sotto la tenda nell’ora della sosta?»303.