Le storie di vita, i chicchi del Granaio
11. Quando l’errore cede il passo alla verità
Una volta riconosciuta alle fonti orali la dignità e dunque la fondatezza che si attribuisce alle fonti tradizionali, lo studioso accorto deve fare interagire le prime con le seconde. L’incrocio sistematico tra fonti storiografiche tradizionali e fonti orali può originare tre fenomeni:
• le fonti orali possono contribuire a meglio spiegare ciò che è già emerso dalle fonti tradizionali650;
• le fonti orali possono fornire una spiegazione altra rispetto a quella dedotta sino ad allora dalle fonti tradizionali;
• le fonti orali possono essere smentite da quelle tradizionali.
I primi due casi sono così evidenti che non è neppure il caso di soffermarcisi.
Decisamente più interessante si presenta il terzo caso, quello in cui le informazioni desunte dalle fonti orali sono inequivocabilmente confutate dalle fonti tradizionali. In questo caso insomma si dimostra la fallacia dell’informazione dedotta dalle fonti orali. Tale deformazione, distorsione, falsificazione, però, non deve portarci a mettere in discussione la bontà delle fonti orali tout court. Lungi dall’essere scorato, l’oralista sa bene che dietro quella fallacia vi è qualcosa che parla e che spetta a lui comprendere. Dietro una bugia si cela una verità, tutto sta nel trovarla e saperla interpretare.
Capita talvolta di imbattersi in soggetti che, in assoluta buon fede, sono portatori di ricordi di eventi che non possono essersi svolti nelle modalità con cui sono rievocati. Sbaglierebbe chi giudicasse frettolosamente tali ricordi errati come privi di importanza. È infatti noto che, pur nella loro infedeltà, anzi proprio per la loro infedeltà questi ricordi contribuiscono a scoprire e spiegare aspirazioni, sogni, speranze e timori inconfessati, fornendo elementi utili a comprendere l’incidenza avuta da determinate vicende nella coscienza e nell’azione del ricordante. Insomma, sono la strada maestra per cogliere ciò che gli studiosi delle mentalità definiscono «inconscio collettivo»651. La critica delle fonti, come ben sostenuto da Philippe Joutard, «scopre gli oblii, le confusioni, gli errori
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Carlo Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 1998, p. 173.
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«Le fonti orali permettono di spiegare ciò che veniva solo descritto dalle fonti tradizionali, infatti le fonti orali sono per loro natura pedagogiche ed esplicative mentre le fonti demografiche si prestano più alla descrizione e quantificazione». Giovanni Contini, L’interpretazione dell’intervista, in Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba
manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, op. cit., p. 32.
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«Ma cosa è l’inconscio collettivo? Sarebbe forse meglio dire il non-cosciente collettivo. Collettivo: comune a tutta una società in un dato momento. Non-cosciente: non percepito o scarsamente percepito dai contemporanei, in quanto spontaneo, facente parte dei dati immutabili della natura, delle idee ricevute e delle idee che sono nell’aria, luoghi comuni, norme di convenienza e di morale, conformismi e proibizioni, espressioni ammesse, imposte o escluse dai sentimenti e dai fantasmi. Gli storici parlano di “struttura mentale”, di “visione del mondo”, per indicare le componenti coerenti e rigorose di una totalità psichica che si impone ai contemporanei senza che lo sappiano. Può darsi che gli uomini di oggi provino il bisogno di portare alla superficie della coscienza i sentimenti un tempo nascosti in una memoria collettiva profonda. Ricerca sotterranea delle saggezze anonime: non saggezza o verità atemporale, bensì saggezze empiriche che regolano i rapporti familiari delle collettività umane con ogni individuo, con la natura, con la vita, con la morte, con Dio e l’aldilà». Philippe Ariès, Storia delle mentalità, in Jacques Le Goff (a cura di), La nuova
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del discorso orale, ma ciò che potrebbe sembrare una messa in luce delle debolezze è in realtà, al contrario, una valorizzazione degli aspetti più significativi della fonte orale»652.
Portelli, che come nessun altro ha sviscerato ciò che sta dietro e sotto gli “errori” dei suoi interlocutori, ha scritto in proposito parole definitive.
«L’attendibilità delle fonti orali è un’attendibilità diversa. L’interesse della testimonianza non consiste solo nella sua aderenza ai fatti ma anche nella sua divaricazione da essi, perché in questo scarto si insinua l’immaginazione, il simbolico, il desiderio. Perciò non esistono fonti orali “inattendibili”: una volta detto che vanno vagliate criticamente come tutte le altre fonti, la loro diversità consiste nel fatto che anche quelle attualmente “inattendibili” ci pongono seri problemi (e offrono serie opportunità) di interpretazione storica – se non altro, il problema della ragione dell’errore – per cui questi insostituibili, preziosissimi “errori” rivelano a volte cose più importanti che se dicessero la “verità”»653.
Anche Jan Vansina, maestro nell’uso delle fonti orali, sostiene con valide argomentazioni l’interesse storiografico dei cosiddetti errori, o deformazioni delle testimonianze orali.
«Dal momento che una testimonianza non è mai la descrizione imparziale di una realtà, bisogna sempre cercare di scoprire le molte fonti di menzogna o di errore; bisogna tuttavia diffidare di un ipercriticismo che a priori rigettasse tutte le testimonianze. Questa forma di ipercriticismo si potrebbe applicare altrettanto bene a ogni tipo di documento indiretto, come ad esempio le fonti scritte. Essa si basa sul postulato che sia possibile ritrovare la “verità” storica e la sequenza esatta degli avvenimenti del passato. Ma ciò è impossibile654. Non ci si può che avvicinare a tale verità. […] Ogni deformazione è in se stessa una fonte, sia per la storia, sia per la cultura contemporanea, e deve essere trattata come tale»655.
Insomma, per dirla ancora con Portelli, «le fonti orali non ci dicono semplicemente quello che le persone hanno fatto, ma anche quello che volevano fare, quello che credevano di fare e quello che oggi pensano di aver fatto»656.
In conclusione,
«diceva Marc Bloch che spesso proprio l’errore, le false credenze, le “fausses nouvelles”, diventano euristicamente fertili quando siano riconosciute come false, perché ci consentono di ricostruire non solo la serie dei fatti, ma la mentalità degli uomini che li agivano o li subivano. Questo effetto di svelamento di una distorsione culturale, che insieme è però anche apprezzamento e riconoscimento della cultura che ha operato la distorsione, è quanto viene reso possibile dall’incrocio tra fonti orali e fonti tradizionali, quando l’incrocio è possibile e fruttuoso»657.
Dopo aver parlato degli errori che talvolta si riscontrano nei ricordi, accenniamo, sia pur solo en passant, al senso delle omissioni che talvolta riscontriamo nelle storie di vita. Riflettendo sulla potenzialità euristica di queste, George Duby afferma che,
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Philippe Joutard, Le voci del passato, op. cit., pp. 211-212.
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Alessandro Portelli, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, op. cit., p. 13. Il corsivo è nel testo.
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Circa la consapevolezza della pratica impossibilità di poter ricostruire il passato come questo si è svolto classica è l’ammonizione di Gustav Droysen sul cui manuale si sono formate generazioni di storici: «Due cose dovevano risultare chiare. La prima è che noi non disponiamo, come le scienze naturali, del mezzo dell’esperimento: che indaghiamo e non possiamo far altro che indagare. L’altra, che l’indagine più approfondita non può contenere se non un’immagine frammentaria del passato; che la storia e la nostra conoscenza di essa differiscono immensamente. […] Otteniamo così non un’immagine dell’accaduto in sé ma della nostra concezione ed elaborazione intellettuale di esso. È il nostro surrogato». Gustav Droysen, Istorica. Lezioni sulla enciclopedia e sulla metodologia della storia, Ricciardi, Napoli 1966, p. 330. A questo proposito Michel Foucault sosteneva che lo studioso deve «ricostruire, a partire da quello che dicono questi documenti […] il passato da cui emanano e che ormai si è perduto dietro di loro; il documento va sempre trattato come il linguaggio di una voce ormai ridotta al silenzio, come la sua traccia tenue, ma per fortuna ancora decifrabile». Michel Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 13.
655
Jan Vansina, La tradizione orale. Saggio di metodologia storica, op. cit., p. 169.
656
Alexander Stille, “La storia e la memoria”, la Repubblica, 14 marzo 2001.
657
Giovanni Contini, L’interpretazione dell’intervista, in Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba manent. L’uso delle
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«le scoperte più sconvolgenti che si può sperare di compiere possono verificarsi cercando di analizzare, in questi discorsi, ciò che essi tacciono, volontariamente o involontariamente; ciò che, coscientemente e inconsciamente, è stato occultato. Occorre dunque forgiare gli strumenti di una nuova erudizione, che saranno meglio in grado di far apparire il negativo di quanto ci viene mostrato, ciò che gli uomini mascherano volontariamente e che, talvolta, appare bruscamente, in modo del tutto accidentale; ma che è necessario decifrare, nella maggior parte dei casi, negli interstizi di quello che viene detto»658.
Dunque, anche attraverso la menzogna è possibile attingere a un brandello di verità.
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George Duby, Il sogno della storia. Un grande storico contemporaneo a colloquio con il filosofo Guy Lardreau, op. cit., p. 99.
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12 Conclusione e auspicio finale
Nell’Introduzione abbiamo evidenziato come spesso siano stati i letterati i primi e più acuti critici delle conseguenze del «tempo a-cronico»659 che caratterizza la fredda contemporaneità.
Tra questi spicca Vincenzo Consolo:
«Sentiva d’essere legato a quel paese, pieno di vita, storia, trame, segni, monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo tra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania. E corrompeva il linguaggio, stracangiava le parole, il senso loro – il pane si faceva pena, la pasta peste, la pace pece, il senno sonno… Egli pure, Petro, sapeva d’essere assalito spesso dai maligni attacchi d’una febbre, di sprofondare nell’assenza, nel vaneggiare. Ma cosa è accaduto, cosa accade? si chiese spaventato»660.
«Cosa è accaduto, cosa accade? si chiese spaventato».
È accaduto, per dare una risposta a Petro di Nottetempo, casa per casa, che il tempo «non è più ciclico ma casuale, non ricorsivo ma incursivo, insomma un tempo senza tempo»661, difficile se non impossibile da sostenere.
Ma accade anche che è nata e si sta irrobustendo una pratica virtuosa di amorevole raccolta e attento stoccaggio delle memorie del nostro essere ed essere stati. Una buona pratica di cui si sono incaricati – facendosene portatori sani – ricercatori certificati e non che hanno trovato il loro coagulo nell’esperienza Granai della Memoria che, nata in provincia di Cuneo, ha per sua natura un afflato universale. Questa esperienza ha assunto le sembianze di una calamita in grado di attrarre e aggregare la limatura di ferro delle singole esperienze di ricerca che qui possono essere affinate, trovare collocazione definitiva e fruizione mondiale.
È un lavoro, quello che caratterizza i Granai, che si dispiega nel presente pensando al futuro, nella consapevolezza che solo storie di vita criticamente ed esaustivamente vagliate possono trasmettere alle generazioni attuali e prossime un frammento del nostro passato. E forse, in tal modo, assicurare a noi «qualche giro di stagione», l’unica, precaria immortalità che Cesare Pavese riconosceva agli uomini662.
659
Joel Candau, La memoria e l’identità, Ipermedium libri, Napoli 2002, p. 110.
660
Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa, Mondadori, Milano 1992, p. 144.
661
Manuel Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi, Milano 2002, p. 495.
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