• Non ci sono risultati.

L’ attenzione e l’empatia

Comunicare per formarsi: aver cura di sé

3. L’ attenzione e l’empatia

La cura non è esercizio solamente per il sé. La cura non è esercizio solamente della relazione. La cura è esercizio anche del politico, dei modi di fare politica, delle maniere in cui la demo- crazia governa gli stati e le nazioni. Un settore interessante degli studi sulla cura, sviluppati nell’attualità novecentesca, in un ambi- to disciplinare diverso da quelli fi losofi co e pedagogico-educativo, è quello che riguarda la scienza della poltica. In particolare, una autrice statunitense Jean Tronto affronta il tema della cura a parti- re dal presupposto che tale categoria possa uscire dagli ambiti del privato personale e possa affrontare declinazioni pubbliche. Come è già stato sottolineato, questo discorso non è estraneo all’anti- ca rifl essione ellenistica, anzi, sappiamo adesso che ne riprende la valenza più interessante, quella di una possibilità di universalizza-

zione della medesima nozione sviluppata per il sé. Tronto propone un modello della cura (Tronto, 1993, trad. it. 2006) che può essere applicato a contesti di vita diversi, partendo dal presupposto, però, che la cura possa essere considerata una categoria che permea tutte le azioni umane che gli uomini compiono per mantenere, conti- nuare e riparare il mondo della vita, in modo tale da averne in cambio il benessere esistenziale (Ivi, p. 118). La cura, secondo que- sta accezione, è sia una pratica che una disposizione. La cura non riguarda solamente ciò che facciamo, ma anche come lo facciamo. Esattamente, come le indicazioni che già Hadot ci ha consegnato, la cura riguarda le relazioni che ogni essere umano intrattiene con il proprio simile, ma riguarda in eguale misura e importanza le relazioni che gruppi sociali intrattengono con altre comunità, ri- guarda il governo delle società e riguarda la cittadinanza.

Jean Tronto propone di analizzare il processo della cura in quattro fasi:

1. l’interessarsi a, ovvero il caring about: questo passaggio com- porta il riconoscimento del bisogno di cura e avere la capacità di comprendere che la cura è necessaria. In termini etici ha una corrispondenza con una azione molto interessante, ma anche disattesa e sottovalutata dalle attuali dinamiche educative, qua- le è quella dell’attenzione.

2. il prendersi cura di, ovvero il taking care of: questo passaggio comporta l’assunzione di responsabilità nei confronti del desti- natario della cura. Implica uno stadio successivo a quello del riconoscimento del bisogno, signifi ca, infatti, prendersi la re- sponsabilità di agire per migliorare le condizioni dell’oggetto della relazione.

3. il prestare cura, ovvero il care-giving: questo passaggio compor- ta che i bisogni di cura siano effettivamente soddisfatti. Implica una azione effettiva per il raggiungimento del benessere richie- sto. Implica la capacità di riuscire a portare la cura.

4. il ricevere cura, ovvero il care-receiving: questo passaggio at- testa che anche il destinatario della cura deve partecipare al processo in maniera attiva. Il secondo membro della relazione risponderà alla cura che riceve e ciò implica il senso della re- attività. Nel caso delle cure genitoriali questo aspetto è molto importante e viene indicato con il termine di responsività. (Ivi, pp. 121-123).

Ogni passaggio, fra quelli indicati, è necessario per l’espressio- ne di un processo di cura che riesca a interpretare la profondità della relazione educativa e formativa. Tuttavia, fra questi, il primo passaggio, quello inerente l’attenzione, lo ritroviamo in pari ma- niera sia negli scritti stoici, sia in quelli neurobiologici, alla Siegel, sia in quelli di Tronto che nelle teorizzazioni di fi losofe come Edith Stein, Simone Weil, Maria Zambrano. Colpisce la trasversalità de- gli approcci e l’unicità dell’atteggiamento.

In modo particolare, l’attenzione di matrice greco-ellenistica, uno fra gli esercizi spirituali che abbiamo elencato, è la prosoché, “l’atteggiamento spirituale fondamentale dello stoico” (Hadot, 2002, trad. it., 2005, p. 34). L’attenzione è la vigilanza, l’atteggia- mento dell’esser desto, dell’aver piena consapevolezza dello spirito tensionalmente disposto all’attualità più immediata. La vigilanza è una concentrazione sul momento presente, libera dalle passioni di- pendenti dagli stati del passato e del futuro, molto spesso svincolati dalla nostra stessa possibilità di controllo. La vigilanza ci permette di padroneggiare l’esiguità della minima azione, nostra ed altrui; ci permette di aprirci al valore infi nito di ogni istante e di rispondere alle domande più immediate che la vita ci porge. L’attenzione, an- che per Tronto, è il punto più elevato da cui iniziare ad orientare il nostro atteggiamento di cura per sé e per il mondo. Come potremo occuparci del bisogno degli altri, se non ne siamo consapevoli, se non siamo attenti al riconoscimento degli stati di indigenza morale, materiale, psichica e affettiva?

Il primo passo è l’esercizio continuato e sostenuto dell’atten- zione, intesa come a-tendere, secondo l’insegnamento di Edith Stein che, con occhi pieni di stupore, indica il modo con cui dob- biamo avvicinarci al mondo e scoprirne le intime bellezze, appunto con lo sguardo stupito di colui che a-tende che va verso, che si orienta a, che si tende verso l’altro. Esattamente, come Simone Weil richiama a disporre il pensiero: l’attenzione è sospensione del pensiero, concentrazione esterna, svuotamento, per far posto a ciò che entrerà della verità più piena. L’attenzione è un modo di essere, è una disposizione etica, non si impara l’attenzione una volta per tutte, ma la si esercita in un continuum di passaggi e metamorfosi. L’attenzione è trasformazione piena dell’uomo, poiché, abbando- nati i propri sguardi, diveniamo pieni dello sguardo altrui, ci ri- empiamo dello sguardo e dell’oltre che l’altro-da-noi ci consegna. Il cammino educativo è molto intenso se desidereremo giungere

all’atto di attenzione più pieno, quello appunto che si dà con lo svuotamento della propria persona. Al contrario, come ben illustra Tronto (Tronto, 1993, trad. it. 2006, pp. 147-148), l’incapacità di prestare attenzione è descritta da Hannah Arendt nel volume La

banalità del male (Arendt, 1958, trad. it. 2001), dove l’impossibi-

lità di prestare attenzione al destino altrui è stata personifi cata da Adolf Eichmann, amministratore del male, tanto efferato, quanto banale, nell’interpretazione quotidiana di atti, di pensieri, di com- portamenti scissi dalle dimensioni profonde dell’esistenza. Il male emerge dall’ignoranza, dalla non conoscenza, dall’adeguatezza ai sistemi conformanti, laddove l’insensibilità diviene la cifra della mancanza di umanità.

L’attenzione si lega all’ascolto e all’empatia, anzi, è il primo movimento attraverso cui è possibile ascoltare l’altro e provare em- patia. La comunicazione inizia dove comincia l’atto dell’attenzio- ne. La comunicazione formativa, che implica una trasformazione degli uomini che la vivono, ha inizio da un movimento di attenzio- ne per l’altro.

L’attenzione è il primo movimento dell’empatia, il luogo del sentire l’altro, il livello più elevato della qualità comunicativa che contraddistingue una relazione interpersonale. Se l’empatia permea la relazione, allora le dimensioni educative e formative emergeran- no dall’intenzionalità del sentire più profondo. Usando la metafo- ra neurobiologica potremo dire che l’attenzione è la mindfulness del soggetto contemporaneo. L’uso che ne potremo fare è proprio quello di una qualifi cazione delle relazioni e delle comunicazioni, in ogni ambito vitale, nella famiglia, a scuola, come sul luogo di lavoro. Anche l’empatia richiede un esercizio elevato di sé, potrem- mo dire. Perché l’empatia può ben rappresentare il termine, il fi ne della disposizione attentiva?

Per mezzo dell’attuazione dei gradi dell’empatia è possibile ar- rivare all’altro e agire uno stato di sintonizzazione intenzionale, di comunicazione congruente e profonda. Per agire con atteggiamen- to empatico è necessario istruire un percorso di cura: l’empatia stessa è la cura della comunicazione e vede nell’altro il termine di questa disposizione che non è mai per sé, ma sempre per l’aper- tura al mondo. L’empatia trattiene il valore etico che ci permette di affermare l’apertura disinteressata, emancipativa e trasformnati- va. Da qui, appunto, il passaggio a considerare queste disposizioni umane come strumenti della cura, da apprendere, da insegnare, da

comunicare, da diffondere per cambiare, radicalmente il modo del- le relazioni interpersonali, proprio oggi, in un’epoca della velocità, del disinteresse, della dis-attenzione esistenziale.

L’attenzione è il primo movimento, implica il riconoscimento delle emozioni corporee, una sorta di condivisione degli stati af- fettivi: la madre riconosce il pianto del proprio fi glio, l’educatore percepisce l’atteggiamento del bambino che soffre, il docente si rende conto del disagio degli allievi. Molti sono i segni, di carattere corporeo, manifestazioni emotive, il piangere, il sorridere, l’arros- sire, lo sbiancare in volto. Senza una attenzione ben indirizzata, ma anche esercitata con costanza e desiderio di riconoscimento, non sarà facile accorgersi degli stati mutevoli delle espressioni o degli atteggiamenti dei nostri interlocutori.

La memoria è il secondo movimento: implica la consapevolezza dei propri stati mentali, il ricordo del proprio passato, la memoria di un sentire antico che, però, ha educato il soggetto del presente. Siamo ciò che siamo a causa e per gli eventi e le esperienze vissute. Avere memoria dei fatti, una memoria coerente, non sfumata o alterata, signifi ca saper mantenere un’immagine del proprio sé non fusa con l’ambiente esterno, una rappresentazione di sé matura e non invischiata con stati affettivi ed emotivi non propri.

La re-attività, la responsività, l’auto-regolazione sono modi di affermare il senso del terzo movimento del costrutto empatico. In questo terzo passaggio, i soggetti della relazione sono consapevoli del legame che li unisce e hanno un sentimento comune di com- prensione degli stati emotivo-affettivi e corporei dell’altro. Questo terzo movimento impegna i soggetti a un riconoscimento attuato a

causa e per i precedenti movimenti. È l’insieme dei tre passaggi che

permette, ai soggetti che si trovano a relazionarsi empaticamente, di provare una nuova esperienza di sentire e, così facendo, permet- te di arricchire il sapere sul mondo e la conoscenza personale.

L’empatia, al modo in cui è stata descritta, fu per la prima vol- ta studiata da Edith Stein nel 1917 (1917, trad. it. 1984). Oggi, risultano confermate quelle scoperte fi losofi che che riguardavano

il sentire l’altro e che si legarano, da subito, al modello etico che

sentire l’altro comportava.

Questa è la sfi da futura da diffondere. La cura di sé attiva sem- pre una dimensione empatica, ecco, gli uomini delle società con- temporanee devono trovare la via per andare a fondo. Non si tratta solamente di diffondere le capacità comunicative, non si tratta sol-

tanto di saper comunicare per saper entrare in relazione, si tratta di interessarsi all’altro, di fare attenzione agli aspetti del qui e dell’o- ra, di avere la capacità di capire che l’apertura al mondo dell’altro implica un arricchimento di conoscenza personale e universale. Si tratta di avere atteggiamenti empatici per agire con coerenza e con- gruenza nei confronti dei fi gli, degli allievi, dei discenti. L’azione empatica è quell’azione che impegna all’altro almeno quanto impe- gna l’io/sé: è un trasferimento di benessere ambientale. L’ambiente è quello delle relazioni umane. Se non porgeremo lo sguardo a una dislocazione empatica, sarà impossibile agire secondo la virtù morale. Oggi, parlare di virtù è quanto mai arduo, almeno quanto lo è parlare di esercizi spirituali e di ricerca del sentire l’altro per costruire comunità e democrazie.

Siamo giunti alla prospettiva che ci obbliga a fare attenzione, se vorremo vivere con pienezza gli atti della nostra quotidianità di soggetti adulti e in formazione continua. Non potremo esimerci dalla rifl essione etica che la comunicazione e la relazione con l’al- tro ci impongono. Un’etica del vivere in famiglia, come sul luogo di lavoro, è un’etica donativa. Sempre, se vorremo dare continuità ai luoghi delle nostre professioni, agli spazi dei nostri affetti, a ciò che al fondo vale la pena di vivere. In un’epoca di totale incertezza del futuro e di radicale inconsapevolezza del presente, è necessario uscire da sé per trovare la spinta ad agire bene: un bene aperto e attento, un bene non egoistico, ma amorevole e solidale.