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Il mondo ha per l’uomo due volti, secondo il suo duplice at- teggiamento.

L’atteggiamento dell’uomo è duplice per la duplicità delle paro- le fondamentali che egli dice.

Le parole fondamentali non sono singole, ma coppie di parole. Una di queste parole fondamentali è la coppia io-tu.

L’altra parola fondamentale è la coppia io-esso; dove, al posto dell’esso, si possono sostituire le parole lui o lei, senza che la parola fondamentale cambi.

E così anche l’io dell’uomo è duplice.

Perché l’io della parola fondametale io-tu è diverso da quello della parola fondamentale io-esso.

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Le parole fondamentali non attestano qualcosa che esista al di fuori di esse, ma, una volta dette, fondano un’entità.

Le parole fondamentali sono dette insieme all’essere. Quando si dice tu, si dice insieme l’io della coppia io-tu. Quando si dice esso, si dice insieme l’io della coppia io-esso. La parola fondamentale io-tu si può dire solo con l’intero essere. La parola fondamentale io-esso non può mai essere detta con l’intero essere.

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Non c’è alcun io in sé, ma solo l’io della parola fondamentale io-tu, e l’io della parola fondamentale io-esso.

Quando l’uomo dice io intende uno dei due. Quando si dice io, è presente l’io che egli intende. Anche se dice tu o esso, è presente l’io dell’una o dell’altra parola fondamentale.

Essere io e dire io sono la stessa cosa. Dire io e dire una delle parole fondamentali sono la stessa cosa.

Chi dice una parola fondamentale entra nella parola e la abita. *

La vita dell’essere umano non consiste soltanto nell’ambito dei verbi transitivi. Non consiste soltanto in attività che hanno un

qualcosa per oggetto. Percepisco qualcosa. Provo qualcosa. Mi rap- presento qualcosa. Sento qualcosa. Penso qualcosa. La vita dell’es- sere umano non consiste solo in questo e in cose di questo genere. Tutto questo e cose di questo genere insieme fondano il regno dell’esso.

Ma il regno del tu ha un altro fondamento. *

Chi dice tu non ha alcun qualcosa per oggetto. Poiché dove è qualcosa, è un altro qualcosa; ogni esso confi na con un altro esso; l’esso è tale, solo in quanto confi na con un altro. Ma dove si dice tu, non c’è alcun qualcosa. Il tu non confi na.

Chi dice tu non ha alcun qualcosa, non ha nulla. Ma sta nella relazione.2

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Si dice che l’uomo fa esperienza […] del suo mondo. Che cosa vuol dire? L’uomo percorre la superfi cie delle cose e ne fa esperien- za. Ne trae un sapere sul modo in cui sono fatte, un’esperienza. Fa esperienza di ciò che concerne le cose.

Ma non solo le esperienze portano il mondo all’uomo.

Perché gli portano soltanto un mondo che consiste di esso e sempre ancora di esso, di lui e di lui e di lei e di lei e ancora di esso.

[…]

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Colui che fa esperienza non ha parte al mondo. L’esperienza è “in lui”, e non tra lui e il mondo.

Il mondo non ha parte all’esperienza. Si lascia esperire, ma que- sto non lo riguarda, perché non vi contribuisce per nulla, e non gliene viene nulla.

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2 Con il termine «relazione» (Beziehung) Buber indica esclusivamente il rapporto io- tu, non il rapporto io-esso.

Il mondo come esperienza appartiene alla parola fondamentale io-esso. La parola fondamentale io-tu fonda il mondo della rela- zione.

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Sono tre le sfere in cui si instaura il mondo della relazione […]. La prima è la vita con la natura. Qui la relazione oscilla nel buio, al di sotto della parola. Le creature reagiscono di fronte a noi, ma non hanno la possibilità di giungere fi no a noi, e il nostro dir-tu a loro è fi ssato alla soglia della parola.

La seconda è la vita con gli uomini. Qui la relazione è manife- sta, in forma di parola. Possiamo dare e ricevere il tu.

La terza è la vita con le essenze spirituali. Qui la relazione è avvolta nelle nubi, ma capace di manifestarsi, muta, ma creatrice di parola. Non usiamo alcun tu e tuttavia ci sentiamo chiamati, ri- spondiamo – costruendo, pensando, agendo: diciamo con il nostro essere la parola fondamentale, senza poter dire tu con le labbra.

Ma come possiamo rapportare al mondo della parola fonda- mentale ciò che è al di fuori della parola […]?

In ogni sfera, attraverso ogni cosa che ci si fa presente, lancia- mo uno sguardo al margine del Tu eterno, in ognuno ve ne coglia- mo un soffi o, in ogni tu ci appelliamo al Tu eterno, in ogni sfera secondo il suo modo.

[…]

Il tu mi incontra per grazia – non si trova nella ricerca. Ma è un’azione del mio essere, una mia azione essenziale, che io gli rivol- ga la parola fondamentale.

Il tu mi incontra. Ma io entro con lui in una relazione imme- diata. Così la relazione è al tempo stesso essere scelti e scegliere, patire e agire. Allo stesso modo un agire dell’intero essere deve divenire simile al patire, quando si sospende ogni agire particolare e insieme a esso ogni sensazione attiva che si fondi solo nei limiti di quell’agire […].

Solo con l’intero essere si può dire la parola fondamentale io- tu. L’unifi cazione e la fusione con l’intero essere non può mai av- venire attraverso di me, né mai senza di me. Divento io nel tu; diventando io, dico tu.

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La relazione al tu è immediata. Tra l’io e il tu non vi è alcuna conoscenza concettuale, alcuna precomprensione, alcuna fantasia; e persino la memoria si trasforma, poiché precipita dalla partico- larità alla totalità. Tra l’io e il tu non vi è alcun fi ne, alcun deside- rio, alcuna anticipazione; e persino l’anelito si trasforma, poiché precipita dal sogno nell’apparizione: ogni mezzo è impedimento. L’incontro avviene dove è caduto ogni mezzo.

[…]

[…] All’inizio è la relazione: categoria dell’essere, disponibilità, forma che comprende, modello dell’anima; è l’a priori della rela- zione, il tu innato […].

Le relazioni dell’esperienza vissuta realizzano nel tu che incon- trano il tu innato; trova fondamento nell’a priori della relazione il fatto che il tu, afferrato come ciò che ci sta di fronte, colto nell’e- sclusività, possa essere appellato con la parola fondamentale.

Il tu innato produce molto presto i suoi effetti nell’istinto del contatto (dapprima istinto del “toccare” tattile, e poi di quello vi- sivo, di un altro essere), così che sempre più chiaramente viene a signifi care la reciprocità, la “tenerezza”. Ma anche l’istinto della creatività, che compare più tardi […], si determina per mezzo del tu innato, così che ne deriva una “personifi cazione” del prodotto, un “discorso”. L’evoluzione dell’anima nel bambino è inseparabil- mente congiunta all’evoluzione del desiderio del tu, soddisfatto o deluso, al gioco dei suoi esperimenti e alla tragica serietà del suo di- sorientamento. Il tentativo di ricondurre questi fenomeni ad ambiti limitati ne pregiudica l’autentica comprensione; si può pretendere di comprendere solo se, osservandoli ed esaminandoli, si indugia nel ricordo della loro origine cosmica e metacosmica: di quel pro- tendersi dall’indiviso mondo preformale originario, da cui è uscito sì l’individuo, nato al mondo con un corpo fi sico, ma non è ancora completamente emerso l’essere vivente, in atto; da quel mondo da cui l’essere si deve anzi sciogliere poco per volta, entrando nelle relazioni.

L’uomo diventa io a contatto con il tu. Ciò che sta di fronte vie- ne e si dilegua, eventi di relazione si condensano e si disperdono, e in questo scambio, ogni volta accresciuta, si fa chiara la coscienza di quell’elemento che rimane uguale fra i due, la coscienza dell’io. Certo, essa appare ancora solo nella trama del rapporto, nella rela- zione con il tu, come farsi riconoscibile di ciò che si protende verso il tu, ma non è il tu, pur prorompendo con sempre più forza, fi no al punto in cui il legame si spezza e, per un istante, l’io sta di fronte a se stesso, a quello che è stato separato, come di fronte a un tu, per prendere possesso di sé e da allora in poi entrare consapevolmente nelle relazioni. […].

Si chiede: come stanno le cose nel rapporto io-tu tra gli uomi- ni? Questo rapporto è sempre nella piena reciprocità? È capace di esserlo, può esserlo sempre? Non è, come tutto ciò che è umano, consegnato alla limitatezza della nostra insuffi cienza? Non è sot- toposto anche alla limitatezza delle leggi interne del nostro vivere comune?

Il primo di questi impedimenti è suffi cientemente noto. Dal tuo stesso sguardo rivolto giorno dopo giorno agli occhi sorpren- dentemente alzati verso di te del tuo “prossimo” che ha ancora bisogno di te, fi no al malinconico sguardo dell’uomo santo, che volta a volta inutilmente ti offre il grande dono: tutto ti dice che la piena mutualità non è intrinseca alla vita in comune dell’uomo. È una grazia a cui si deve essere costantemente preparati e che mai si ha la garanzia di ottenere.

Tuttavia c’è anche più di un rapporto io-tu che, per com’è fatto, non può dispiegarsi a piena mutualità, se deve durare così com’è. Altrove […] ho caratterizzato come un rapporto di questo tipo il rapporto dell’educatore autentico nei confronti del suo educando. Per poter favorire la realizzazione delle migliori possibilità del pro- prio allievo, il maestro deve vedere in lui questa particolare per- sona, nella sua potenzialità e nella sua attualità; più esattamente, non deve conoscerlo come somma di qualità, desideri, inibizioni; deve diventare consapevole di lui come di una totalità e in questa sua totalità confermarlo. Ma questo gli riesce soltanto se, volta a volta, lo incontra come compagno in una situazione bipolare. E, affi nché la sua infl uenza su di lui sia unitariamente signifi cativa, egli deve di volta in volta vivere questa situazione, in ogni suo mo- mento, non semplicemente a partire dal proprio polo, ma anche da

quello di colui che gli sta di fronte; deve esercitare quella forma di realizzazione che io chiamo di ricomprensione. Tuttavia, benché la cosa che importa sia che l’educatore risvegli anche nell’educando il rapporto io-tu e che questi intenda l’educatore e lo confermi a sua volta come persona determinata, la particolare relazione educativa non potrebbe avere luogo se l’educando esercitasse a sua volta la ricomprensione, e quindi facesse esperienza della parte dell’educa- tore nella situazione comune. Che la relazione io-tu abbia termine, o che acquisti il carattere totalmente diverso dell’amicizia: ciò di- mostra che alla relazione specifi catamente educativa è, in quanto tale, interdetta la piena mutualità.

La relazione tra un vero psicoterapeuta e il suo paziente ci offre un altro esempio, non meno istruttivo, della limitatezza normativa della mutualità. Se il terapeuta si accontenta di “analizzare” il pa- ziente, cioè di portare alla luce dal suo microcosmo fattori inconsci e di impiegare le energie, trasformate dall’analisi che le ha fatte emergere, in un consapevole lavoro vitale, può darsi che gli riesca di riparare parecchio. Nel migliore dei casi può aiutare un’anima dispersa, carente di struttura, a raccogliersi e a ordinarsi in qualche modo. Ma non compirà quanto gli viene specifi camente richiesto, la rigenerazione di un centro personale atrofi zzato. Ciò riesce solo a colui che, con lo sguardo acuto del medico, comprende l’uni- tà latente e sepolta dell’anima sofferente, e ciò si ottiene soltanto nell’atteggiamento partecipante da persona a persona, non nell’os- servazione e nell’esame di un oggetto. Per promuovere coerente- mente la liberazione e l’attualizzazione di quell’unità a un nuovo accordo della persona con il mondo, il medico, come quell’educa- tore, non deve a sua volta fermarsi lì, al proprio polo della rela- zione bipolare, ma porsi all’altro polo con la potenza del rendere presenza, e fare esperienza dell’effetto della sua stessa azione. Ma, ancora una volta, la relazione specifi ca, “salvifi ca”, cesserebbe nel momento in cui il paziente acconsentisse, e gli riuscisse, di esercita- re a sua volta la ricomprensione, di vivere l’avvenimento anche dal polo del medico. Guarire, come educare, riesce solo a colui che si pone di fronte come vivente, e che tuttavia si sottrae. […]

Ogni rapporto io-tu all’interno di una relazione, che si specifi ca come un mirato operare da una parte sull’altra, esiste grazie a una mutualità destinata a non divenire mai piena. […]