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Gli effetti del linguaggio sulla relazione Sé-‘altro’ Nuovi modi di ‘essere con’

Secondo Vygotskij il problema dell’acquisizione del linguaggio poteva, semplifi cando molto, essere sintetizzato così: in che modo

possono “penetrare” nella mente del bambino dei signifi cati scam- bievolmente concordati? […] “Il problema concettuale soggiacente è quello della relazione fra sistemi socializzati di mediazione (for- niti prevalentemente dai genitori) e la ricostruzione individuale (da parte del bambino) di tali sistemi secondo una modalità interiore, e forse non pienamente socializzata”. Il problema dell’acquisizione del linguaggio è diventato un problema interpersonale. Il signifi - cato, inteso come un legame tra la conoscenza (o pensiero) del mondo e le parole non è più un dato evidente sin dal principio, ma è qualcosa che deve essere concordato fra genitore e fi glio. La rela- zione esatta tra pensiero e parola “non è una cosa, ma un processo, un continuo va e vieni fra il pensiero e la parola e fra la parola e il pensiero” […]. Il signifi cato risulta da contrattazioni interpersonali riguardanti ciò su cui si può convenire in quanto è condiviso. E questi signifi cati scambievolmente concordati (cioè la relazione fra pensiero e parola) crescono, cambiano, si sviluppano e sono ogget- to di contesa nella relazione fra due persone: essi sono, dunque, proprietà nostra.

Questo punto di vista apre largamente la strada all’emergere di signifi cati che sono proprietà esclusiva della diade o dell’individuo […]. “Buono”, “cattivo”, “felice”, “nervoso”, “stanco”, e una mol- titudine di altre parole che si riferiscono alla valutazione di stati interni, continueranno a lungo (e spesso per tutta la vita) ad avere il signifi cato a suo tempo concordato far quella madre e quel bambino nei primi anni di vita, quando si andava effettuando l’operazione di associare la conoscenza del mondo con il linguaggio. Solo quan- do il bambino comincerà a entrare in una dialettica interpersonale con i coetanei nella funzione di mediatori sociali, questi signifi cati potranno essere riveduti e modifi cati. A questo punto emergeranno nuovi signifi cati “nostri” scambievolmente concordati.

Questo processo di reciproca contrattazione del signifi cato si applica a tutti i signifi cati – “cane”, “rosso”, “bambino”, etc. – ma assume un interesse maggiore ed è meno socialmente condizionato quando si tratta di parole riferite a stati interni. […] Quando il papà dice “bambina buona”, le parole vengono associate all’espres- sione “bambina buona” pronunciata dalla mamma. Coesistono due signifi cati, due relazioni, e la differenza può diventare una grossa fonte di diffi coltà ai fi ni del consolidamento di una identità o di un concetto di Sé. Si presume che i due insiemi di esperienze e pensieri siano coincidenti perché sono espressi dalle stesse parole: “bambi-

na buona”. Nell’apprendere il linguaggio ci comportiamo palese- mente come se il signifi cato risiedesse o dentro il Sé o fuori di esso, “da qualche altra parte”, come se appartenesse a chiunque e fosse lo stesso per tutti. Questo occulta i signifi cati nascosti, esclusivi, legati all’esperienza “noi”. Isolarli e scoprirli diventa molto diffi cile e rappresenta uno dei compiti fondamentali per la psicoterapia.

[…] Per quanto concerne la motivazione primaria a parlare […] si ritiene che i bambini parlino in parte per ristabilire esperienze di “essere con” (secondo la mia terminologia) o per ristabilire l’“ordi- ne personale” […]. Uno dei maggiori vantaggi di questo approccio dialogico al linguaggio sta nel fatto che il processo stesso dell’ap- prendimento viene rimodellato e visto come un modo per forma- re esperienze condivise, per ristabilire l’“ordine personale” o per creare un nuovo modo di “essere con” tra l’adulto e il bambino. Come le esperienze di “essere con” della relazione intersoggettiva richiedevano il senso di due soggettività in parallelo – una parte- cipazione dello stato interno o esperienza interna – così, a questo nuovo livello della relazione verbale, la madre e il bambino creano l’esperienza di “essere con” usando simboli verbali, cioè condivi- dono signifi cati scambievolmente concordati intorno all’esperienza personale.

L’acquisizione del linguaggio è sempre stata considerata un pas- so di fondamentale importanza nel conseguimento della separazio- ne e dell’individuazione, è altrettanto vero l’inverso, e cioè che il linguaggio è un fattore potente per la promozione dell’“unione” e dell’“essere insieme”. Di fatto, ogni parola appresa è il prodotto collaterale dell’unione di due mentalità, in un sistema simbolico comune, del forgiarsi di signifi cati condivisi. Ad ogni parola che pronunciano, i bambini rafforzano la comunione mentale con la madre e più tardi con gli altri membri del loro gruppo linguistico, scoprendo che la loro esperienza di conoscenza personale fa parte di una più ampia esperienza di conoscenza, e che tutti sono uniti in una comune cultura di base.

Dore ha avanzato l’interessante ipotesi che il linguaggio operi all’inizio come una forma di “fenomeno transizionale”. Per adope- rare la terminologia di Winnicott, la parola viene in un certo modo “scoperta” o “creata” dal bambino, nel senso che il pensiero e la conoscenza sono già presenti nella mente, pronti a essere collegati con la parola. La parola viene data dall’esterno al bambino dalla madre, ma dentro di lui esiste un pensiero pronto a essere collegato

con quella parola. In questo senso la parola, in quanto fenomeno transizionale, non appartiene realmente al Sé, e nemmeno all’altro, ma occupa una posizione intermedia fra la soggettività del bam- bino e l’oggettività della madre. Viene “presa in affi tto” da “noi”, […]. È in questo senso profondo che il linguaggio è una esperienza che unisce, permettendo un nuovo livello di relazione mentale at- traverso la partecipazione dei signifi cati. […] Il linguaggio non è fondamentalmente un altro mezzo di individuazione, né un altro mezzo per creare il sentimento dell’ “essere con”. È piuttosto il mezzo per raggiungere il nuovo livello della relazione nel quale verranno affrontati nuovamente tutti i problemi esistenziali della vita.

L’avvento del linguaggio fa infi ne maturare la capacità di narra- re la propria storia, che implica la possibilità di modifi care l’imma- gine di sé. Creare una narrazione non è la stessa cosa che pensare o parlare. Sembra che vi sia implicata una modalità di pensiero diversa dalla soluzione dei problemi o dalla semplice descrizione. Signifi ca pensare in termini di persone che agiscono come soggetti dotati di intenzioni e di scopi che si manifestano in una sequenza causale con un inizio, una parte intermedia e una fi ne. (È possibile che il creare narrazioni si riveli un fenomeno universale, espressio- ne intrinseca del modello della mente umana). Siamo di fronte a una nuova e stimolante area di ricerca; e non è ancora chiaro come, quando e perché i bambini costruiscono delle narrazioni (o magari le costruiscono con l’aiuto di uno dei due genitori) che sono l’inizio di una storia autobiografi ca, quella che diverrà la storia della vita […]. In realtà forse il campo di relazione verbale dovrebbe essere suddiviso in due parti: un senso del Sé categoriale che oggettivizza e classifi ca, e un Sé narrato intessuto di elementi di storia desunti da altri sensi del Sé (il Sé agente, le intenzioni, le cause, gli scopi e così via).