• Non ci sono risultati.

Daniel Pennac, Diario di scuola

Il testo che viene qui presentato ha una forte predisposizione autobiografi ca, ma la capacità dell’autore è quella di rendere i temi dei capitoli profondamente universali. Daniel Pennac è uno scrit- tore francese, non accademico, che per ventotto anni ha insegnato nelle scuole francesi, di cui, perciò, è profondo conoscitore. La sua versatilità di scrittore emerge dai passaggi tra generi letterari che attraversano la sua opera, dai primi tentativi degli anni Settanta del Novecento, come scrittore di romanzi di fantascienza, alla saga del signor Benjamin Malaussène, di professione capro espiatorio, che ha ispirato Pennac per tutti gli anni Novanta, con la pubblicazione di numerosi volumi sulla storia della famiglia, sui generis, del Si- gnor Malaussène. Nel 1993 esce in Italia il fortunatissimo Come

un romanzo (1992) sul compito familiare della lettura e sul diritto

a imparare la lettura a casa come a scuola. Diritto che gli adulti sottraggono ai bambini e agli adolescenti, privandoli del piacere più importante, quello alla libertà di imparare a usare la lettura per sé e non per gli altri.

X — W

3.

Insomma, andavo male a scuola. Ogni sera della mia infan- zia tornavo a casa perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l’ulti- mo della classe, ero il penultimo. (Evviva!) Refrattario dapprima all’aritmetica, poi alla matematica, profondamente disortografi co, poco incline alla memorizzazione delle date e alla localizzazio- ne dei luoghi geografi ci, inadatto all’apprendimento delle lingue straniere, ritenuto pigro (lezioni non studiate, compiti non fatti), portavo a casa risultati pessimi che non erano riscattati né dalla musica, né dallo sport né peraltro da alcuna attività parascolastica.

“Capisci? Capisci o no quello che ti spiego?”

5 Pennac D., Diario di scuola, (2007), trad. it. Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 15-16; 111-133.

Non capivo. Questa inattitudine a capire aveva radici così lon- tane che la famiglia aveva immaginato una leggenda per datarne le origini: il mio apprendimento dell’alfabeto. Ho sempre sentito dire che mi ci era voluto un anno intero per imparare la lettera a. La lettera a, in un anno. Il deserto della mia ignoranza cominciava al di là dell’invalicabile b.

“Niente panico, tra ventisei anni padroneggerà perfettamente l’alfabeto.”

Così ironizzava mio padre per esorcizzare i suoi stessi timori. Molti anni dopo, mentre ripetevo l’ultimo anno delle superiori in- seguendo un diploma di maturità che si ostinava a sfuggirmi, farà questa battuta: “Non preoccuparti, anche per la maturità alla fi ne si acquisiscono degli automatismi...”.

O, nel settembre del 1968, quando ho avuto fi nalmente in tasca la mia laurea in lettere: “Ti ci è voluta una rivoluzione per la lau- rea, dobbiamo temere una guerra mondiale per il dottorato?”. Det- to senza alcuna particolare malignità. Era la nostra forma di com- plicità. Mio padre e io abbiamo optato molto presto per il sorriso. Ma torniamo ai miei inizi. Ultimogenito di quattro fratelli, ero un caso a parte. I miei genitori non avevano avuto occasione di fare pratica con i miei fratelli maggiori, la cui carriera scolastica, seppur non eccezionalmente brillante, si era svolta senza intoppi.

Ero oggetto di stupore, e di stupore costante poiché gli anni passavano senza apportare il benché minimo miglioramento nel mio stato di ebetudine scolastica. “Mi cadono le braccia”, “Non posso capacitarmi” sono per me esclamazioni familiari, associate a sguardi adulti in cui colgo un abisso di incredulità scavato dalla mia incapacità di assimilare alcunché.

A quanto pareva, tutti capivano più in fretta di me. “Ma sei proprio duro di comprendonio!”

Un pomeriggio dell’anno della maturità (uno degli anni della maturità), mentre mio padre mi spiegava trigonometria nella stan- za che fungeva da biblioteca, il nostro cane venne quatto quatto a mettersi sul letto dietro di noi. Appena individuato, fu seccamente mandato via: “Fila di là, cane, sulla tua poltrona!”.

Cinque minuti dopo, il cane era di nuovo sul letto. Ma si era preso la briga di andare a recuperare la vecchia coperta che proteg- geva la sua poltrona e vi si era steso sopra. Ammirazione generale, ovviamente, e giustifi cata: tanto di cappello a un animale in grado di associare un divieto all’idea astratta di pulizia e trarne la conclu-

sione che occorresse farsi la cuccia per godere della compagnia dei padroni, con un vero e proprio ragionamento! Fu un argomento di conversazione che in famiglia durò per anni. Personalmente, ne trassi l’insegnamento che anche il cane di casa afferrava più in fret- ta di me. Credo di avergli bisbigliato all’orecchio: “Domani ci vai tu a scuola, leccaculo!”.

[…]

16.

Chi erano, i miei allievi? Alcuni di loro il genere di allievo che ero stato io alla loro età e che si trova un po’ in tutti gli istituti dove approdano i ragazzi e le ragazze eliminati dai licei rispettabili. Molti erano ripetenti e avevano scarsa stima di se stessi. Altri si sentivano semplicemente tagliati fuori, esclusi dal sistema. Alcuni. avevano perduto del tutto il senso dello sforzo, della durata, della costrizione, insomma dell’impegno; lasciavano semplicemente che la vita se ne andasse, dedicandosi, a partire dagli anni ottanta, a un consumismo sfrenato, non sapendo avvalersi di loro stessi e affi -

dandosi solo a ciò che era loro estraneo (la rifl essione di Rousseau,

trasferita sul piano materiale, non li aveva lasciati indifferenti). E tutti, ovviamente, erano casi particolari. Uno, ottimo studen- te nel suo liceo di provincia, si era ritrovato ultimo a bordo del transatlantico in partenza per le grandi università in cui era stato ammesso grazie al suo curriculum; l’esperienza era stata talmente dolorosa che perdeva i capelli a chiazze: depressione, a quindici anni! Una, un po’ suicida, si tagliuzzava le vene (“Perché l’hai fat- to?” “Tanto per provare!”), un’altra fl irtava a turno con l’anoressia e la bulimia, un altro scappava di casa, un altro ancora, venuto dall’Africa, era traumatizzato da una rivoluzione sanguinosa, uno era il fi glio di una portinaia infaticabile, un altro il rampollo linfati- co di un diplomatico assente, alcuni erano annientati dai problemi famigliari, altri ci marciavano spudoratamente, quella vedova goti- ca con le orbite nere e le labbra viola aveva giurato di non stupirsi di nulla, mentre il tizio in giubbotto di pelle, ciuffo a banana e stivaletti, fuggito da un istituto tecnico di Cachan per passare al liceo da noi, scopriva con incanto la gratuità della cultura. Erano ragazzi e ragazze della loro generazione, bulli di periferia degli anni settanta, punk o dark degli anni ottanta, neoalternativi degli anni

novanta; si beccavano le mode come uno si becca i microbi: mode vestimentarie, musicali, alimentari, ludiche, elettroniche, purché si consumasse.

Metà degli allievi dei miei esordi, quelli degli anni settanta, riempivano le classi dette “differenziali” di una scuola superiore di Soissons, classi di cui ci avevano precisato, con un umorismo alquanto professionale, che più che differenziali erano “delinquen- ziali”. Alcuni erano sotto sorveglianza giudiziaria. Gli altri erano fi gli di mezzadri portoghesi, di commercianti locali o di quei gran- di proprietari terrieri i cui campi coprivano le immense pianure dell’Est, concimate da tutti i giovani immolati nel suicidio europeo della Grande Guerra. I nostri randa condividevano gli stessi locali degli allievi “normali”, la stessa mensa, gli stessi giochi, e tale feli- ce miscuglio era merito della direzione. Poiché l’analfabetismo di ritorno non è nato oggi, a quei ragazzi e a quelle ragazze “differen- ziali” io dovevo, in terza media o in prima superiore, reinsegnare a leggere e a scrivere, con loro svisceravamo quel ci cui non si arriva mai perché si ignora che è un esser qui, un esser ora, un essere in- sieme e, così facendo un essere insieme.

Il professore di matematica e io gli avevamo insegnato anche a giocare a scacchi. E, parola mia, non se la cavavano affatto male. Avevamo costruito una grande scacchiera murale che mi regala- rono quando me ne andai (“Ne faremo un’altra”), e che conservo religiosamente. Le loro prodezze in questo gioco ritenuto diffi cile – era l’epoca del famoso campionato Spasskij-Fischer – e la fi ducia che avevano acquisito battendo alcune classi del liceo vicino (“Ab- biamo battuto i latinisti, prof!”) contribuirono sicuramente ai loro progressi in matematica, quell’anno, e alla loro promozione. […]

Dal 1969 al 1995, tranne due anni passati in un istituto i cui allievi erano selezionatissimi, la maggior parte dei miei studenti era composta da bambini e adolescenti, come fui io, con maggiore o minore diffi coltà scolastica. I più gravi presentavano su per giù i miei stessi sintomi alla loro età: mancanza di fi ducia in sé, rinuncia allo sforzo, incapacità di concentrazione, distrazione, mitomania, creazione di bande, a volte alcol, e anche droghe, leggere a sentir loro, l’occhio però un po’ liquido, certe mattine...

Erano i miei studenti. […] Una parte del mio mestiere consi- steva nel persuadere i miei studenti più abbandonati a loro stessi che la gentilezza più del ceffone invita alla rifl essione, che la vita in comunità ha delle regole, che il giorno e l’ora della consegna di

un compito non sono negoziabili, che un compito malfatto è da rifare per l’indomani, che questo, che quello ma che mai e poi mai né i miei colleghi né io li avremmo abbandonati in mezzo al guado. Affi nché avessero una possibilità di farcela, occorreva reinsegnare loro il concetto stesso di sforzo, restituire loro il piacere della so- litudine e del silenzio, e soprattutto il controllo del tempo, quindi della noia. Sì, qualche volta ho consigliato loro esercizi di noia, per collocarli nella durata. Li pregavo di non fare niente: non distrar- si, non consumare niente, nemmeno conversazione, né tantomeno studiare, insomma non fare niente, niente di niente.

“Oggi pomeriggio, esercizio di noia, venti minuti a non fare niente prima di mettervi a studiare.”

“Nemmeno ascoltare musica?” “Assolutamente no!”

“Venti minuti?”

“Venti minuti. Orologio alla mano. Dalle 17.20 alle 17.40. Tor- nate diritti a casa, non rivolgete la parola a nessuno, non vi fermate in nessun bar, ignorate l’esistenza dei fl ipper, non riconoscete i vo- stri amici, entrate in camera vostra, vi sedete sul letto, non aprite la cartella, non vi mettete il walkman sulle orecchie, non guardate il vostro gameboy e aspettate venti minuti, fi ssando il vuoto.”

“Per fare cosa?”

“Per curiosità. Concentratevi sui minuti che passano, non per- detevene neanche uno e domani mi raccontate.”

“E come farà, lei, a verifi care che l’abbiamo fatto?” “Non posso.”

“E dopo i venti minuti?”