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Vivere e apprendere da adolescent

Gli anni della scuola: media e formazione

3. Vivere e apprendere da adolescent

Un piccolo volume uscito in edizione italiana a metà di questa prima decade degli anni Duemila reca un titolo intenso e fulminan- te, L’epoca delle passioni tristi (Benasayag, Schmidt, 2003, trad. it. 2004). I due autori, due neuropsichiatri che lavorano nei servizi territoriali di base parigini, dunque, a stretto contatto con bambini e adolescenti che quotidianamente chiedono aiuto, si interrogano sulla necessità dirompente che viene manifestata dai loro giovani interlocutori. Una affermazione, in particolare, colpisce l’udito di chi sa ascoltare ed è la pressante necessità di evadere un desiderio,

bambini alle loro console e i più grandi, ma già prematuramente adolescenti, ai social network o ai giochi virtuali e di ruolo, cova un desiderio di ascolto che è un desiderio di certezze, di conferme, di progetti a lungo termine che prima c’erano e adesso non più.

Nella nostra società come in tutte le altre, l’educazione, la trasmissio- ne dei valori e dei principi che assicurano la continuità di una cultura si basano sulla riproduzione e sulla trasmissione dei suoi miti fondan- ti. Così, nella cultura occidentale, educare signifi ca invitare l’altro, il giovane, a intraprendere con impegno un determinato cammino: quello della promessa che conduceva a quel futuro che attendeva e che consentiva di sentirsi parte integrante, ognuno nel suo ambito, di un progetto comune. E allora come è possibile ormai educare, tra- smettere e integrare i giovani in una cultura che non solo ha perduto il proprio fondamento principale ma l’ha visto trasformarsi nel suo contrario, nel momento in cui il futuro-promessa è diventato futuro-

minaccia? Alla fi ne la cosa più strana è che questo cambiamento pas-

si pressoché inosservato. Le diverse istituzioni deputate a educare, a trasmettere e a curare ciò che va male agiscono come se non ci fosse nessuna crisi, come se ci fossero solo delle diffi coltà da superare, con l’aiuto della tecnica e un po’ di buona volontà (Ivi, pp. 39-40).

I media e il loro uso “oltre la soglia” rappresentano il futuro, lo sono già per certi versi, ma non è un futuro quotidiano da vivere realmente, per questo, come afferma Galimberti (2007) è necessa- rio scendere nei meandri delle emozioni, altrimenti anestetizzate, è necessario affacciarsi sul davanzale dei sentimenti che rimango- no, troppo spesso, chiusi oltre le fi nestre, è importante diventare adulti in ascolto. Perché l’ascolto permette agli uomini di esercitare una cambiamento nella relazione, permette di adattare situazioni, permette di trasformare individui in persone. “L’individuo [...] è il prodotto di quell’ordine sociale che pensa che l’umanità sia com- posta da una serie di esseri separati gli uni dagli altri, che stabili- scono contatti con il loro ambiente e con gli altri. […] La persona è l’alternativa all’individuo. [...] La persona indica ognuno di noi come essere multiplo, intessuto di molteplicità e che accetta il fat- to di non conoscere i propri limiti e la propria molteplicità. Le persone, al contrario degli individui-contratti, hanno un rapporto di apertura con il mondo” (Ivi, p. 107). L’ascolto crea un legame, l’ascolto crea una relazione, infatti non è possibile parlare di una

legame affettivo intenso e buono, di una sana relazione educativa, senza che all’interno del rapporto non ci sia un ascolto reciproco. L’ascolto crea la libertà che, attualmente, è preclusa ai bambini che non sanno più giocare, agli adolescenti che non sanno più sperare. Ascoltare signifi ca, in primo luogo, fare silenzio. Spegnere il rumore di sottofondo, farne a meno, imparare a ignorarlo e comin- ciare a sentire suoni diversi. Da qui potrebbe partire l’educazione a imparare le emozioni. Gli adulti sono anestetizzati, i bambini impa- rano presto ad esserlo, gli adolescenti non si pongono più il proble- ma, per non soffrire, si annientano (Galimberti, 2007). La scuola può fare molto, anche attraverso i saperi e attraverso le discipline, attraverso la vita di relazione che a scuola è così densa, così com- pressa, e lontano dai media può essere così vera.

Ascoltare signifi ca, in secondo luogo, far spazio alla differen- za. Ognuno è diverso dal proprio compagno o dal proprio amico, quasi mai a scuola impariamo che l’ascolto ci insegna la diversità, anche da noi stessi, dai nostri io multipli. Apprendere la differenza vuol dire iniziare a capire i nostri comportamenti, i nostri dolori, e le nostre sofferenze, ma anche le nostre gioie. Di nuovo, anche qui si tratta di un percorso all’educazione delle emozioni, che ci guidano in ogni azione, e che hanno una importanza determinante per la ricerca del ben-vivere e del con-vivere.

Ascoltare signifi ca, in terzo luogo, imparare a capirsi. Adesso, apprendere questo sapere di sé non è solamente un’arte per l’adulto, infatti; fi n dalla originaria relazione, il cammino che percorriamo come uomini è proprio quello di imparare a capirsi. Capirsi è curar- si. Ogni relazione vissuta con intensità emotiva è un percorso di edu- cazione alla comprensione di sé. È cura di sé e comunicazione con sé.

Ascoltare crea una dimensione vissuta di gioia interiore a chi ascolta e a chi è ascoltato, dà la forza di credere in sé. Se qualcuno mi ascolta, con gli occhi, con il corpo, con la voce, signifi ca che “io sono importante per lui”. Con la certezza di questo messaggio, la forza del sostegno educativo trasforma l’adolescente e gli permette di avviarsi per il mondo con autenticità. Ascoltare, infatti, vuol dire essere autentici, non possiamo ascoltare davvero qualcuno mancando del senso più vero dell’autenticità. Allora, si impara da giovani il senso dell’autenticità che gli adulti rifi utano. Una società senza autenticità è una società che autoinganna se stessa. Possiamo vivere sulla menzogna, sulla falsità, sull’inautentico legame, sulla distrazione di sé?

Nell’epoca della comunicazione e dell’interattività, della con- nessione come forma di vita, sembra importante, anzi determinan- te, andare alle radici della relazione comunicativa con i bambini e gli adolescenti che si stanno affacciando alla vita. Andare alle radici vuol dire fare spazio, lasciare che il frastuono comunicativo si di- radi, vuol dire cercare la sosta non per il riposo, ma per un lavoro più intenso, il lavoro dell’ascoltare e dell’ascoltarsi per riconoscere la persona umana al posto degli automi che potremmo rischiare di educare e che potremmo inconsapevolmente già essere.

Se l’ascolto è proprio una dimensione della vita diversa, diffe- rente, contraria a quella che ogni adolescente è abituato a vivere, a scuola, come anche in famiglia, le conseguenze dell’educazione all’ascolto sono molto interessanti sul piano educativo, non solo di una educazione per imparare a stare in società, ma di una edu- cazione come formazione all’essere più autentico. Già, perchè le regole, le norme, da cui scaturiscono i diritti e su cui si incardinano i doveri, tutti assi portanti di una società evoluta possono essere seguite se il principio di autenticità inizia ad essere condiviso e ri- conosciuto. In questo senso, gli adolescenti reclamano, per il senso della giustizia che li contraddistingue, lo stato di autenticità dagli adulti. Autentico signifi ca vero, autentico signifi ca in sintonia con la verità etica condivisa con una comunità che accetta norme va- lide e rette. Attualmente, gli adulti reclamano per gli adolescenti l’adesione a norme e regole che per primi gli adulti non seguono. Come è possibile l’educazione al senso del sé, l’educazione alla ve- rità, se per primi gli adulti sono lontani da regole, norme condivise, eticamente raggiunte? Allora, sono proprio il senso di non-verità, la percezione di lontananza dal senso dell’essere, a cui Galimberti (2007) e Pennac (2007, trad. it. 2008) richiamano gli adulti, che devono essere rivisti. Gli adolescenti costruiscono i propri sé a partire dalle esperienze familiari primarie, ma tali esperienze sono trasformate, nell’adolescenza, alla luce di nuovi vissuti, di fronte a nuove relazioni scolastiche che rappresentano per i ragazzi un importante, ancorché trascurato, “pezzo di vita”. La scuola è una terra di mezzo, ma è pur sempre un luogo che potrebbe, potenzial- mente, arginare le derive, educare alle emozioni, creare ponti per capire il mondo. Il ruolo dei docenti è centrale, ma essere un pro- fessionista dell’educazione signifi ca essere autenticamente presen- te, nella scuola, con il desiderio più profondo di costruire relazioni educative per gli studenti, con i ragazzi, insieme alla classe. Essere

presente vuol dire esserci con i propri affetti, il proprio corpo, la propria mente. Dunque, vuol dire, primariamente essersi presi cura delle proprie persone come educatori, vuol dire partecipare costantemente ad un processo di revisione interiore che accoglie le proprie debolezze e i propri punti di forza, ma soprattutto che accoglie gli studenti come altri-da-sé.

Pennac conclude il proprio volume con una struggente metafora che indirizza agli insegnanti, che vale per ogni adulto che, con senso di responsabilità e autenticità, deve insegnare l’educazione con la vita stessa, invita a pensare e a vivere l’insegnamento fuori dai canoni a cui centinaia di anni di cultura occidentale ci hanno istruiti:

“[...] Una parola che non puoi assolutamente pronunciare in una scuo- la, in un liceo, in una università, o in tutto ciò che le assomiglia.” […] “[...] Se tiri fuori questa parola parlando di istruzione, ti linciano.” [...] “L’amore.” [...]

Ecco, la mia metafora vale quel che vale, ma è questo l’amore in ma- teria di insegnamento, quando gli studenti volano come uccelli impaz- ziti. A questo la professoressa G. o Nicole H. hanno dedicato tutta la loro esistenza: salvare dal coma scolastico una sfi lza di rondini sfracel- late. Non sempre si riesce, a volte non si trova una strada, alcune non si ridestano, rimangono al tappeto oppure si rompono il collo contro il vetro successivo: costoro rimangono nella nostra coscienza come le voragini di rimorso in cui riposano le rondini morte in fondo al no- stro giardino, ma ogni volta ci proviamo, ci abbiamo provato. Sono i nostri studenti. […] Nessuno di noi saprebbe dire il grado dei nostri sentimenti verso di loro. Non di questo amore si tratta. Una rondine tramortita è una rondine da rianimare, punto e basta (Pennac, 2007, trad. it. 2008, pp. 239-241).