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Comunicare per formarsi: aver cura di sé

2. La cura di sé

Le profonde analisi del sé che sono state accennate, preceden- temente, si inquadrano in un contesto di studi pedagogici che guar- dano alla centralità della nozione di cura e, in modo particolare, di cura di sé. Tale paradigma è tornato all’attenzione delle ricerche fi losofi che grazie al lavoro intenso di archeologia del sapere che Michel Foucault ha condotto, a partire dagli anni Ottanta del No- vecento, prima, con una serie di lezioni tenute nell’anno accademi- co 1981-1982, presso il Collège de France, sul tema della cura di sé, raccolte successivamente in un volume dal titolo L’ermeneutica

to postumo, La cura di sé (Foucault, 1984, trad. it. 1985). La cura viene qui intesa come l’insieme delle pratiche fi losofi che, ma vis- sute nella quotidianità degli esercizi, delle tecniche, degli addestra- menti, che permetteva all’uomo dell’antichità greca e latina di farsi soggetto etico, portatore di una conoscenza personale, fi nalizzata alla vita buona e/o ben condotta. Dunque, la cura di sé, innanzi- tutto, attiene al modo in cui è possibile, per l’uomo antico, darsi una forma eticamente connotata. Dove, appunto, darsi forma o formarsi signifi cava costruirsi eticamente, per sé, ma anche sempre

con l’altro e per il mondo. La cura non è solo cura medica. Nella

modernità si è diffusa con questa accezione e, oggi, se parliamo di cura la identifi chiamo con la pratica medica della cura del corpo. Non così era nell’antichità, quando da Socrate in avanti, la cura del corpo era in stretta connessione con quella dell’anima, che si identifi cava con la mente.

La cura di sé, che Michel Foucault ha contribuito a diffondere come nuovo sapere sull’uomo, già era stata centrale nel pensiero fi losofi co di Martin Heidegger che, nel suo testo più importante

Essere e tempo (1927, trad. it. 2005), aveva innalzato la Cura a

categoria dell’essere. Proprio Heidegger aveva ricordato il nesso stringente fra cura e formazione attraverso una esemplifi cazione narrativa:

La “Cura”, mentre stava attraversando un fi ume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa avesse fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere lo spirito a quello che aveva formato. Giove acconsente volentieri. Ma quando la “Cura” pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva formato, Giove glielo proibì e pretendeva che fosse imposto il proprio. Mentre la “Cura” e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato formato fosse imposto il proprio nome, perché gli aveva dato una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò loro la seguente equa decisione: “Tu, Giove, poiché hai dato lo spirito, alla morte riceverai lo spirito; tu, Terra, poiché hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per pri- ma diede forma a questo essere, fi ntanto che esso vivrà lo possiederà la Cura. Poiché però la controversia riguarda il suo nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)”. (Ivi, p. 241)

In questa favola del II secolo d.C., raccolta da un autore latino di nome Igino, la forma dell’uomo, ovvero la sua costruzione, il suo divenire, prendono il nome di Cura a signifi care che la cura è proprio la connotazione più autentica dell’essere che si dà forma umana. Se trascriviamo questo sapere, nei termini delle conoscenze sull’origine delle relazioni interpersonali, non possiamo far altro che sottolineare come la cura sia densamente appartenente al cam- po di signifi canza delle relazioni intersoggettive e, dunque, come innervi la costituzione dell’uomo attraverso le medesime relazioni. La cura, allora, è cura della relazione interpersonale, del legame di attaccamento, ma anche del rapporto intersoggettivo di tipo edu- cativo, come quello che intercorre fra genitori e fi gli o fra docenti e allievi. Per estensione, tuttavia, possiamo affermare che la cura permea ogni livello della formazione umana dell’uomo, giacché una formazione senza cura implicherebbe il venir meno della for- mazione autentica medesima.

Come scrive Foucault nel volume La cura di sé, ciò che emerge dall’accurata analisi dei testi greci e latini dei primi secoli, dopo la nascita di Cristo, è una attenzione a se stessi perseguita con am- piezza, costanza e puntualità (Foucault, 1984, trad. it, 1985, pp. 44-45) e ciò che colpisce è l’inquietudine per un corpo che deve celare e modifi care il ricorso al proprio piacere, non per “un raf- forzamento del codice che defi nisce gli atti proibiti, bensì [per] una intensifi cazione del rapporto con se stessi attraverso il quale ci si costituisce come soggetto dei propri atti” (Ibidem). Foucault sot- tolinea, ancora, come la riaffermazione dell’individualismo impli- chi fondamentalmente tre aspetti della soggettività antica che poi pervaderanno anche la matrice cristiana dell’uomo occidentale: il primo aspetto riguarda, proprio, l’atteggiamento individualistico caratterizzato dal valore attribuito al soggetto/uomo, nella doppia specifi cità di cittadino pubblico e privato, il secondo aspetto attiene alla valorizzazione della sfera privata di contro a quella pubblica, tipica della polis greca, e infi ne il terzo aspetto riguarda l’intensità dei rapporti con se stessi (Ivi, p. 46), implicando il ricorso a serie di pratiche e di conoscenze sul sé con il fi ne della purifi cazione e dell’edifi cazione della propria salvezza (Ibidem). Affi nché questa cultura del sé, o arte dell’esistenza, possa diffondersi e sopravvivere diventerà necessario “occuparsi con molta dedizione di se stessi”. Non con fi ni egoistici o strumentali, ma per ben vivere ovvero per salvare se stessi. Anche Plutarco, come attesta Foucault, affermava

che colui che desidera salvarsi deve curare se stesso in continuazio- ne (Ivi, p. 49).

La cura di sé è sottolineata da Seneca nel De brevitate vitae (62 d.C.), quando afferma che gli unici a vivere sono coloro che dedicano il tempo alla saggezza (Seneca, De brevitate vitae, XIV, 1). Questi uomini non agiscono solamente per sé, ma anche per gli altri, nessuno fra loro non avrà tempo per l’altro, e nessuno fra loro lascerà partire il visitatore a mani vuote, saranno disponibili all’incontro di notte e di giorno (Ivi, XIV, 5); permetteranno ad ognuno di attingere dai loro insegnamenti e condivideranno i loro beni (Ivi, XV, 4). Infatti, continua Seneca, molto breve e molto an- siosa è la vita di coloro che dimenticano il passato, non si curano del presente e hanno timore del futuro, poiché, giunti al termine della loro ora, comprenderanno molto tardi di essere stati assorti in occupazioni vacue e vane (Ivi, XVI, 1). Certamente, queste indi- cazioni riguardano proprio insegnamenti di vita che attengono alla sfera della formazione umana dell’uomo (Foucault, 1984, trad. it., 1985, p. 53) dove, però, si rende evidente il fatto che tali pratiche di cura non siano indirizzate al sé, ovvero consacrate a se stessi, non costituiscano un esercizio di solitudine, ma di apertura all’al- tro ovvero si dimostrano una reale pratica sociale.

Il termine greco epimeleia, che può essere tradotto con ‘cura’, non sta a indicare solamente la cura di sé, ma la cura del padrone di casa verso i propri dipendenti, la cura di un malato, la cura del governante verso i cittadini; è una cura che richiede tempo all’in- terno dell’arco della giornata, è un tempo del fare che ha origine da una attività di meditazione ben precisa (Ivi, p. 54). Pitagorici, stoici, scettici analizzano le pratiche della cura di sé. Seneca, Epitte- to e Marco Aurelio fanno tutti riferimento a un momento, di ogni giornata della vita, per poter trovare il giusto modo della cura di sé e per la cura dell’altro (Ibidem). Infatti, la cura di sé appare dalle

Lettere a Lucilio di Seneca, dai Ricordi di Marco Aurelio, dalle Dia- tribe di Epitteto come una vera e propria attività di intensifi cazione

dei rapporti sociali: “Pur essendo in quel momento in esilio, Sene- ca rivolge alla madre parole di conforto per aiutarla a sopportare quella circostanza sventurata e, forse, sciagure più grandi in futuro; il Serenus cui rivolge la lunga disquisizione sulla pace dello spirito è un giovane parente di provincia che egli tiene sotto la sua prote- zione [...]” (Ivi, p. 57). La cura di sé è una attività spirituale e ma- teriale, è legata a scambi comunicativi con l’altro-da-sé, impegna a una donatività reciproca (Ibidem).

A tal proposito, un autore che ha messo a fuoco, in maniera particolarmente acuta, la dimensione della cura di sé come impe- gno pratico alla vita, espressa dagli scrittori, dai poeti, dai fi loso- fi da Socrate in poi, e con evidenza maggiore durante il periodo dell’ellenismo greco e latino, è stato Pierre Hadot. In un volume dal titolo emblematico Esercizi spirituali e fi losofi a antica (Hadot, 2002, trad. it. 2005), uscito in una nuova edizione nel 2002, Ha- dot dimostra che gli esercizi spirituali, di cui quelli di Ignazio di Loyola rappresentano la versione cristiana, provengono da una tra- dizione greco-romana ampia e pervasiva, sono arrivati fi no a noi e sono stati, appunto, divulgati come pratiche della cura di sé. Il concetto e l’espressione di esercizio spirituale, afferma Hadot (Ivi, p. 30-31), già diffusi nell’antico cristianesimo latino, derivano dal termine greco askesis usato negli ambienti del cristianesimo greco, laddove non indicavano pratiche di ascesi, bensì di esercizi spiri-

tuali, appunto, diffusi nella tradizione della fi losofi a antica greca e

romana. Qui, il termine spirituali rende il senso profondo di queste pratiche che non erano rivolte alla cura della dimensione cogniti- va, del pensiero, ma riguardavano una conversione del corpo, del- la mente, delle emozioni. Lo spirituale rivela la vera origine degli esercizi che, al pari delle pratiche della cura di sé, precedentemen- te citate con Foucault, erano rivolti all’elevazione dell’uomo nella prospettiva di un ricongiungimento con il Mondo. Da qui, l’idea che la cura di sé che, abbiamo visto, è sempre cura dell’altro, sia anche una cura indisgiungibile dal mondo, sia una cura dell’oltre ovvero del Tutto. Il senso della cura di sé che Hadot sottolinea, con enfasi particolare in dissonanza da Foucault, riguarda il fatto che gli esercizi, e la scrittura è uno di questi, non permettono sola- mente di “costituirsi un’identità spirituale, [ma trattano] di liberar- si della propria individualità per elevarsi all’universalità. È quindi inesatto parlare di “scrittura di sé”; non solo non si scrive di se stessi, ma la scrittura non costituisce il sé; come gli altri esercizi spirituali, essa muta il livello dell’io, lo universalizza. Il miracolo di questo esercizio, praticato nella solitudine, è che esso apre l’ac- cesso all’universalità della ragione nel tempo e nello spazio. […] Il valore terapeutico della scrittura consiste proprio in questo potere universalizzante” (Ivi, p. 175).

Quali sono allora gli esercizi che permettono all’uomo di ele- varsi tramite la pratica della cura di sé? La fi losofi a come arte di vivere impegna tutta l’esistenza, seguire la regola non signifi ca ap-

plicare una conoscenza, ma convertire il senso dell’essere, modifi - care radicalmente i motivi del vivere medesimo, darsi altri traguar- di, altri fi ni, altre destinazioni. Sempre Hadot si sofferma su due elenchi di esercizi che ci provengono da un autore alessandrino, Filone di Alessandria, del I sec. d.C., e ci illustrano un panora- ma abbastanza completo della terapia fi losofi ca della cura di sé. La prima lista comprende: “la ricerca [...], l’esame approfondito (skepsi), la lettura, l’ascolto, l’attenzione (prosoché), il dominio di sé (encrateia), l’indifferenza alle cose indifferenti” (Ivi, p. 34). La seconda lista ha un carattere più strumentale, forse, più vicino a ciò che i moderni hanno recepito degli strumenti della cura di sé e comprende: “le letture, le meditazioni (meletai), le terapie delle passioni, i ricordi di ciò che è bene, il dominio di sé, il compimento dei doveri” (Ibidem).

Come è ben evidente, ci sono alcune pratiche che sono giunte fi no a noi e che, anzi, soprattutto, la pedagogia italiana ha contri- buito in modo determinante a diffondere, si pensi ai testi autore- voli di Rita Fadda (1997), Franco Cambi (2010), Luigina Mortari (2006; 2009). Fra queste è possibile ricordare l’ascolto, la lettura, la scrittura, il dialogo, la ricerca intesa come rifl essività e sapere critico. In un certo senso, la pedagogia ha assunto e accolto i sa- peri cognitivi, ma non ha suffi cientemente approfondito la ricerca sulle pratiche di conversione del sé, quelle pratiche che in real- tà rappresentano il cuore pensante di ogni uomo, quelle pratiche senza le quali anche la cura di sé non avrebbe né luogo, né signi- fi cato. Hadot sottolinea quest’ultimo aspetto affermando che gli esercizi, precedentemente elencati, possono essere suddivisi in tre distinti gruppi: il primo, che contiene l’attenzione, la meditazione e il ricordo; il secondo gruppo, composto da esercizi di carattere intellettuale, che contiene l’ascolto, la lettura, la ricerca, la scrittu- ra e l’esame approfondito, altresì chiamato pratica di rifl essività; infi ne, il terzo gruppo, composto da esercizi più attivi sul sé, quali il dominio di sé, il compimento dei doveri, l’indifferenza alle cose indifferenti. Come è rilevabile, questo terzo gruppo ha caratteristi- che di ordine etico-morali molto più marcate del secondo gruppo (Ibidem).

Ciò che ci interessa rilevare, riguardo all’importanza del tema della cura di sé, indissolubilmente connesso con la formazione del sé e dell’uomo, per tutto l’arco della vita, è il fatto, come afferma Hadot, di contro a Foucault, che il “movimento di interiorizza-

zione sia indissolubilmente legato a un altro movimento, grazie al quale ci si eleva a un livello spirituale superiore, in cui si ritrova un tipo diverso di esteriorizzazione, un’altra relazione con l’esteriori- tà, un nuovo modo di essere al mondo, che consiste nel prendere coscienza di sé come parte della Natura. […]. Non si vive più nel mondo umano, convenzionale e abituale. […]. Si pratica la “fi si- ca” come esercizio spirituale. Ci si identifi ca così con un “altro” che è la Natura, la Ragione universale, presente in ogni individuo” (Ivi, p. 175). C’è un ribaltamento di prospettive in questo richiamo all’interiorizzazione, alla discesa nelle proprie profondità. Non è solamente una cura di sé, quella che viene richiamata, ma una aper- tura nuova al mondo, attraverso l’altro. La comprensione del sé, la lettura del sé, la capacità di sé, potremo dire, è “superamento di sé e universalizzazione” (Ibidem).

Questi ultimi passaggi svelano il denso signifi cato del cammino di formazione che la cura del “qui e ora” ci impone. Il messaggio a cui siamo giunti ci fornisce una traccia di percorso per la forma- zione umana dell’uomo: a partire dalla relazione con il sé, la cura dei propri stati, diremmo oggi mentali, psichici, emotivi, affetti- vi, corporei, attua nella comunicazione con l’altro una apertura al mondo. L’uomo è per sé, ma essendo per sé è anche per l’altro e per il mondo. Relazione, comunicazione e cura si saldano in un’eterna ghirlanda brillante.