Dopo aver trattato le più rilevanti problematiche e le diverse modalità di applicazione dei limiti legali e negoziali alla concorrenza contenuti nel Codice Civile, è possibile trarre delle conclusioni circa l’attualità di queste norme.
Com’è stato rilevato, una loro analisi è senz’altro legata ad una nozione importante e ampia come quella di “ordine pubblico economico”.
Elaborato in Francia durante la metà del secolo scorso, il concetto di “ordine pubblico economico” ha conquistato il suo spazio sotto l’ombra della più tradizionale nozione di “ordine pubblico”. Si sostiene315, infatti, che “il diritto contemporaneo nell’ordine pubblico comprende l’ordine economico”.
In Italia, molti autori si sono occupati di questo concetto definendolo, dal punto di vista economico, come “il fine che l’azione dei pubblici poteri, nella sfera economica, mira a conseguire ed il limite all’attività economica degli imprenditori”316 e, dal punto di vista giuridico, come “la previsione costituzionale di un’insieme di limiti generali
315 Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1991, p.255 316 Paladin, “Ordine pubblico”, in N.D.I., XIV, Torino, 1965, p. 135
all’autonomia dei soggetti privati e di esplicazione delle fondamentali direttive del sistema economico”317.
Tuttavia quanto detto dev’essere inserito nel più ampio panorama europeo, stante la contemporanea esistenza di due ordinamenti che si intersecano tra loro. Il tipo di economia che stava alla base dello spirito del Codice Civile è, naturalmente, diversa da quella attuale: la stessa Carta Costituzionale ha contribuito a dare uno slancio diverso e ulteriore ai fenomeni economici, senza dimenticare che nel corso del tempo è mutata la realtà sociale e, con lei, interessi e obiettivi. Si è passati da un’economia che guardava più “a sé stessa” e posta originariamente in funzione degli “interessi dell’economia nazionale”, ad una economia che necessariamente si è dovuta confrontare con altri mercati ponendo, allo stesso tempo, come pilastro e faro, la tutela del mercato interno dell’Unione Europea.
Lo scenario europeo, volto alla coesione economica e sociale tra gli Stati membri, sta determinando l’evoluzione del concetto di ordine pubblico economico; tutti i principi riguardanti le quattro grandi libertà (di circolazione delle persone, delle merci, dei capitali e della concorrenza) sono alla base della creazione di un ordine pubblico
317 Bianco, Considerazioni su ordine pubblico economico, Costituzione economica e
diritto comunitario della concorrenza, Archivio Giuridico “Filippo Serafini”, 1995,
comunitario, come sostenuto dalla stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea318.
Negli ultimi anni il legislatore italiano, ha preferito far propri i principi economici che sono alla base dell’ordinamento comunitario, indipendentemente dalla legislazione derivata europea.
Nello specifico, tra i tanti esempi, si ricordano i citati articolo 31, 2° comma della legge n.27 /2012 (legge di conversione del decreto “Salva Italia”) e articolo 1, 1° e 2° comma della legge n. 62/2012 (legge di conversione del decreto “Cresci Italia”)319.
Dall’analisi di queste norme appare chiara la volontà del legislatore di percorrere maggiormente la strada maestra della libera concorrenza. Tuttavia meno chiara è la reale portata dell’intervento normativo. Infatti l’aver previsto un’abrogazione espressa di norme genericamente identificate per il loro contenuto (previsione di limiti numerici, autorizzazioni, licenze, per l’avvio di attività economiche) oltre all’obbligo di interpretare in senso tassativo e restrittivo le disposizioni che contengono divieti, restrizioni, oneri o condizioni per l’accesso o l’esercizio di attività economiche, non appare (a modesto parere di chi scrive) una tecnica legislativa efficace.
Ecco che allora i limiti alla concorrenza, siano essi legali o convenzionali, ricadono sotto la scure del nuovo intento legislativo. 318 Corte di Giustizia U.E.: 1 giugno 1999 “Eco Swiss China Time Ltd v. Benetton
International NV”
Sarà, quindi, indispensabile un accurato lavoro d’interpretazione che, partendo dai principi costituzionali e da quelli che informano l’ordinamento economico europeo, consenta un’applicazione delle norme codicistiche adeguata all’attuale realtà.
Alla luce di queste osservazioni e della trattazione svolta, è possibile trarre delle conclusioni su alcuni aspetti specifici.
In primis, la causa come elemento essenziale del patto di non concorrenza. Posto che l’illiceità della causa, ovvero la contrarietà di questa a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, comporta la nullità del negozio giuridico e posto che l’ordine pubblico di riferimento (sopratutto quello economico) è cambiato rispetto al passato, la validità degli accordi trattati può essere inficiata?
Ad esempio, il patto disciplinato dall’art. 2596 c.c. oltre ad essere un istituto nominato, ha una sua causa certamente lecita; del resto, il legislatore, in sede di redazione del Codice Civile, ne ha valuto anticipatamente la funzione economico-sociale, rispetto ai principi che erano alla base dell’ordinamento giuridico in quel determinato momento storico. L’ordine pubblico economico che stava alla base del Codice del 1942 è, in parte, mutato e, con esso, il dinamismo concorrenziale ha guadagnato maggiore spazio e significato.
Un’interpretazione evolutiva di questi istituti dovrà non solo definire la loro attuale portata rispetto all’ordinamento vigente, ma anche svelare
la loro effettiva funzione economico-sociale in termini di compatibilità con il nuovo ordine pubblico economico.
Altro aspetto è quello della concorrenza differenziale: le restrizioni create al fine di arginare il pericolo legato a questa forma di concorrenza, sono senz’altro compatibili sia con le norme costituzionali che con quelle europee. Così, il proteggersi dal rischio che un ex dipendente utilizzi a favore di altre aziende le conoscenze commerciali acquisite durante il rapporto di lavoro, si fonda su ragioni largamente condivisibili e serie.
Parimenti, nell’alienazione d’azienda sussiste un rischio simile in capo all’acquirente che potrebbe vedere diminuito il valore del bene-azienda qualora l’alienante continuasse ad utilizzare il suo know how o la sua vecchia clientela per una nuova attività.
Prendendo i suddetti casi come esempio, è possibile ricordare come la stessa Commissione europea ha ritenuto eccessivo il termine dei cinque anni previsto in tali ipotesi. Infatti, un tale termine, secondo la Commissione, comporta effetti anticoncorrenziali, determinando un profilo d’invalidità del patto stesso. Ecco che allora, nell’ottica di una nuova interpretazione pro concorrenziale delle fattispecie (previste dalle norme codicistiche), potrebbe rendersi se non necessario quanto meno preferibile per la validità della transazione, sostituire il termine quinquennale con un termine più breve, a seconda dei casi. Così, la durata potrebbe essere prevista in tre anni, quando nella cessione
d’azienda sia compreso il trasferimento della clientela e il know-how, mentre potrebbe essere più idoneo il termine ridotto di due anni, quando nella cessione sia compreso il solo avviamento aziendale. Infine qualche considerazione sui cosiddetti accordi de minimis: ci si riferisce a quei patti che coinvolgono operatori che per le loro dimensioni non possono incidere realmente sugli assetti del mercato; accordi di cui l’Antitrust non si occupa considerandoli improduttivi di effetti anticoncorrenziali tali da giustificarne la repressione.
Com’è stato osservato, il patto restrittivo della concorrenza (art. 2596 c.c.) non sembra essere applicabile ai casi interessati dalla disciplina Antitrust; al contrario è stato detto che il patto in questione può trovare un suo spazio nei casi, appunto, de minimis.
Ecco che allora sorge un interrogativo: l’aver inserito un principio di liberalizzazione generale (con riferimento all’obbligo di interpretare in senso tassativo e restrittivo i divieti e le limitazioni alle attività economiche) a livello di legislazione nazionale, potrebbe far venir meno anche il residuo ambito di applicazione dell’art. 2596 c.c.?
Probabilmente è troppo presto per dare una risposta definitiva.
Tuttavia è possibile immaginare che nei prossimi anni il tema sarà oggetto di chiarimento, non solo da parte della dottrina e della giurisprudenza, ma soprattutto da parte dell’Autorità Antitrust nazionale, nell’esercizio della sua attività consultiva recentemente rafforzata ed implementata.
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