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Rapporti tra art 2596 c.c e legge Antitrust: compatibilità o superamento?

Nel documento I "nuovi" limiti alla concorrenza (pagine 114-121)

Il patto di non concorrenza (art 2596 c.c.)

5. Rapporti tra art 2596 c.c e legge Antitrust: compatibilità o superamento?

L’analisi di questa norma non può certo prescindere da un confronto con la normativa Antitrust237di origine europea successivamente riversatasi nel nostro ordinamento a livello legislativo.

La ragione di questo confronto è presto detta: una norma del Codice Civile e una norma contenuta in una legge ordinaria regolano per buona parte la stessa materia.

L’art. 2596 c.c. ha forse lasciato il posto ad una norma di più ampio respiro e creata per salvaguardare interessi più meritevoli?

In effetti, la disciplina Antitrust della legge n. 287/1990 sembrerebbe occuparsi degli stessi patti238 di cui s’interessa l’art. 2596 c.c.; quindi quest’ultima parrebbe inutile.

Insomma, senza un’analisi accurata, le due norme appaiono sovrapporsi.

Proprio da questa considerazione alcuni autori239ritengono che l’articolo in questione abbia subito una drastica riduzione di importanza, se non addirittura un’abrogazione tacita. In particolare, a supporto di questa tesi, richiamano l’art. 2, 3° comma della legge 237 Legge 10 ottobre 1990 n. 287

238 Tranne quelli che non hanno la finalità di restringere o falsare la concorrenza in una parte rilevante del mercato nazionale.

239 SCUFFI, in Diritto processuale antitrust, Milano, Giuffrè, 1998, I, p. 3 ss e GANDIN, in Somministrazione con esclusiva e art. 2596 c.c., con alcune considerazioni sulla configurabilità dell’inadempimento contrattuale come atto di concorrenza sleale, Giurisprudenza Commerciale, I, 1994, p.931- 932

Antitrust 240ed il fatto che la stessa legge sia temporalmente successiva alla norma codicistica. Ecco che allora la questione diventa un problema di incompatibilità tra una norma e l’altra; incompatibilità che concretizzerebbe una delle ipotesi previste dall’art. 15 delle preleggi241. Non si può certo negare che secondo quest’impostazione si giunga, tuttavia, ad una situazione paradossale dal punto di vista del principio base, in materia di concorrenza, della libertà d’iniziativa economica: si considera venuta meno una norma permissiva di limiti alla concorrenza a vantaggio di una disciplina più intollerante, in tal senso. Infatti non si dimentichi che, mentre l’art. 2596 c.c. consente restrizioni della concorrenza purché inquadrate da determinati parametri, la legge Antitrust dichiara nulle tali intese. A questo riguardo anche la Suprema Corte242ha affermato che la norma in esame “non deve essere intesa quale strumento di limitazione della concorrenza, giacché invece essa costituisce uno strumento per garantirne la legittima esplicazione”.

Tuttavia, altra parte della dottrina243 (da ritenersi maggioritaria) ritiene che l’art. 2596 c.c. non solo non è stato abrogato implicitamente, ma

240 L. 287/1990, art. 2, 3°comma: “Le intese vietate sono nulle a ogni effetto”

241 Art. 15: “Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore.” 242 Cass. Civ. 6 agosto 1997, n. 7266, in Riv. not., 1998 II, p. 523

243 BERRUTI, La concorrenza sleale nel mercato, Milano, Giuffrè, 2002, p.34; ALBERTINI, Sui patti accessori di non concorrenza, op. cit., p.822

ha tutt’oggi una sua dignità e importanza normativa (anche se, in verità, può dirsi che la legge Antitrust ha eroso in parte la funzione pratica della norma).

In realtà, molti casi e, soprattutto i più numerosi nella prassi, dimostrano l’efficacia dell’art. 2596 c.c.; si pensi a tutti gli accordi o intese che limitano la concorrenza, ma che sono privi di rilevanza nel territorio italiano o comunitario o in una parte rilevante di esso.

Il problema del rapporto tra le citate fonti, in fondo, sarebbe un “non- problema”. Si tratta, infatti, di norme assolutamente rilevanti ma che sono destinate ad operare su piani diversi e a tutela di interessi diversi. Dalla parte “codicistica”, troviamo una norma che persegue la tutela di un’interesse individuale ed è concentrata, appunto, sulla disciplina tipica del Codice Civile: la regolazione dei rapporti inter-privati.

Invece dalla parte della legge n. 287/1990, si scorge chiaramente la volontà di regolare il mercato nella sua totalità e quindi viene approntata una tutela di un indefinito numero di consumatori e, più in generale, della collettività.

Da queste premesse, si comprende bene come un accordo restrittivo possa essere, a seconda dei casi, valutato valido secondo l’art. 2596 c.c. e invalido per la legge Antitrust.

Ad esempio, un patto stipulato da due venditori di frutta (magari gli unici due di un piccolo paese) con il quale viene fissato il prezzo delle mele per otto anni, risulterebbe sicuramente in contrasto con l’art.

2596 c.c. (a causa del periodo ultraquinquennale) ma, invece, pienamente lecito secondo la disciplina Antitrust, la quale non prende in considerazione interessi puramente locali non idonei a restringere la concorrenza in una parte rilevante del mercato.

Ancora, si pensi a un’ipotetica intesa (volta a fissare il prezzo) tra le sole due imprese che si trovino a produrre lo stesso bene o servizio in Italia, con cui venga prevista una limitazione della concorrenza di durata quinquennale e per il solo settore di riferimento. Tale patto rientrerà nei parametri stabiliti dall’art. 2596 c.c. ma sarà, invece, illecito secondo l’art. 2 della l. 287/1990 perché investe l’intero territorio nazionale.

Altri autori244hanno sottolineato che è possibile l’applicazione dell’art. 2596 c.c., anche in caso di accordi aventi effetti su una parte rilevante del mercato o sull’intero territorio nazionale, nei limiti in cui possa riguardare solo i requisiti della durata e della forma scritta (ad probationem) e non l’aspetto merceologico e territoriale, in quanto su questo elemento l’Autorità garante si deve essere già espressa in senso positivo, attraverso un’autorizzazione preventiva.

Tuttavia, quest’ipotesi presta il fianco a una critica: il limite di durata di un’intesa assume molta importanza in funzione della valutazione di rilevanza da parte dell’Autorità garante. Un’intesa che abbia una

durata di poche ore difficilmente potrebbe danneggiare o restringere in maniera rilevante la concorrenza nel mercato.

Ciò che differisce, in particolar modo, tra l’art. 2596 c.c. e la disciplina Antitrust nel suo insieme è il concetto di concorrenza di riferimento: da una parte si cerca di proteggere un minimo spazio d’iniziativa economica dell’imprenditore (rectius: del privato) indipendentemente da eventuali danni che il patto potrebbe provocare ai potenziali clienti e ai consumatori; dall’altra parte prevale il perseguimento di una “concorrenza efficiente” all’interno di un efficiente mercato, anche sacrificando parte della libertà individuale.

Si prenda, a titolo di esempio, il caso in cui l’Autorità garante del mercato decida di autorizzare (in forza di effetti indiretti comunque favorevoli alla concorrenza) un accordo che impedisca ad una delle parti di svolgere qualsiasi attività in un ambito territoriale coincidente con quello dell’impresa. Ecco che quest’ultima parte vedrebbe fortemente menomata la sua libertà d’iniziativa economica per motivi di più “alta” concorrenza se non fosse per la presenza dell’art. 2596 c.c. che, in quanto norma imperativa, renderebbe a sua volta nullo il patto.

A conferma della tesi che riconosce valore attuale anche all’art. 2596 c.c. si devono ricordare altri due aspetti.

La Corte Costituzionale, con la già citata sentenza245, ha espressamente ribadito che la libertà di concorrenza comprende anche una sua autolimitazione attraverso accordi, mentre l’esistenza nell’ordinamento italiano di una disciplina tesa ad assicurare l’effettiva tutela del mercato rappresenta un altro problema, di cui si auspicava la soluzione da parte del legislatore. Soluzione, questa, concretizzatasi poi nel 1990 con l’approvazione della legge Antitrust.

Infine, si deve ricordare che esiste un’importante differenza in ordine alle modalità di tutela giurisdizionale. Basti pensare all’ipotesi in cui una parte abbia interesse a ottenere la dichiarazione di nullità di un’intesa, presumibilmente nulla sia ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287/1990 sia ai sensi dell’art. 2596 c.c. (ad esempio per mancata indicazione nel patto di ogni riferimento alla zona o all’attività). Il legislatore prevede due diversi procedimenti: chiedendo l’applicazione della norma codicistica la domanda giudiziale andrà presentata per competenza al Tribunale del luogo in cui è sorto il patto; mentre volendo far valere la disciplina Antitrust, ci si dovrà rivolgere al Tribunale delle Imprese246. Quello che conta, però, non è solo una diversa competenza, ma sopratutto il diverso livello di difficoltà probatoria; infatti provare la violazione dell’art. 2596 c.c è assai più 245 Corte Cost. 16 dicembre 1982 n. 223

246 Nuove sezioni specializzate in materia di impresa previste dal decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1, convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012, n. 27 , che ha sostituito la precedente competenza della Corte di Appello indicata nell’originario art. 33 della Legge Antitrust per i giudizi di nullità delle intese.

agevole rispetto all’onere di provare che l’intesa modifica le condizioni di concorrenza in una parte rilevante del territorio nazionale, requisito necessario per l’applicazione della normativa Antitrust.

Sezione II

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