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Le potenzialità dello storytelling per la comunicazione interculturale

2. Lo storytelling come mezzo di comunicazione e di relazione

2.4. Le potenzialità dello storytelling per la comunicazione interculturale

A dimostrazione del fatto che lo storytelling autobiografico possa essere un potente strumento per entrare in relazione con un muro di una cultura diversa, due studiosi nel campo dell’apprendimento interculturale, Manuel Heidegger e Margret Steixner, hanno creato uno storyboard digitale , ossia uno spazio online dove mettere insieme le 49

storie personali di persone di diverse culture con l’obiettivo di dimostrare che la diversità culturale è molto più che un mero concetto astratto o, addirittura, fantastico. A sostegno di ciò, Heidegger e Steixner hanno pubblicato un articolo (Heidegger, Steixner, 2013) in cui evidenziano le potenzialità dello storytelling in generale per poi arrivare a comprenderne il ruolo nella comunicazione interculturale.

Partendo dal generale, l’arte di raccontare storie è molto efficace perché:

• è un processo naturale che ciascuno di noi fa da sempre, per digerire le proprie esperienze ed integrarle in un tutt’uno;

Tale progetto è stato realizzato in preparazione ad un workshop che i due studiosi hanno tenuto alla

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“SIETAR Europe Conference” nel 2013 in Estonia (SIETAR sta per Society for Intercultural Education,

Training and Research, una società fondata nel 1974 per collegare tra loro ricercatori e professionisti nel

• è un metodo egalitario, che tutti possono adottare (volendo riprendere la metafora dei software di Hofstede, si potrebbe dire che le storie sono “risorse accessibili” da qualsiasi tipo di utente);

• favorisce la creazione di un’atmosfera particolare, un ambiente positivo dove le persone, ascoltando le storie altrui, sono stimolate a riflettere e a condividere le proprie esperienze (in un contesto educativo, creare questo tipo di ambiente è fondamentale per l’apprendimento: le storie, molto più facili da ricordare rispetto a fatti o figure perché coinvolgono la memoria emotiva, parlano da sole, nel senso che ciascun apprendente ne trae gli elementi utili alla propria esperienza);

• fa riferimento alla realtà, in quanto le storie condivise sullo storyboard digitale sono storie vere, basate su eventi che qualcuno ha realmente vissuto (queste storie permettono di collocarci in quel continuum tra fabulazione e testimonianza di cui parla Jedlowski , dove potremmo riuscire a creare una “super-storia” capace di 50

tenere insieme racconti molto diversi tra loro, racconti che parlano di culture diverse, che spesso ci sembrano fantastiche. Siamo interessati alla storia dell’altro perché affascinati dal suo mondo sconosciuto e dalle sue usanze particolari ma, nel momento in cui ci rendiamo conto che è tutto vero, diamo al racconto un peso diverso. Per questo motivo, creare un unico contenitore, dove mettere insieme storie completamente diverse, potrebbe essere un buon metodo per dare visibilità e fascino alla diversità culturale in cui siamo immersi);

• favorisce la compartecipazione di narratore e ascoltatore (entrambi svolgono un ruolo attivo: il primo deve accedere al proprio “database” di esperienze e ricordi per scegliere quali condividere; il secondo, mentre ascolta la storia, crea immagini nella sua mente. La storia raccontata, quindi, non sarà mai specchio della realtà perché è il risultato di esperienze selezionate dal narratore e di immagini create dall’ascoltatore. Al narratore, dunque, spetta il compito di dare un ordine alla sua storia, in modo da farla comprendere al suo destinatario, provando anche una sensazione di benessere che deriva dalla consapevolezza di essere ascoltato e dal

Secondo il sociologo, la narrazione si colloca tra due dimensioni: quella immaginaria e quella reale;

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la narrazione, in quanto azione, è parte della vita reale ma essa è anche permeata della dimensione immaginaria in quanto racconta una storia. Tale storia può riguardare sia mondi fantastici che eventi ordinari; Jedlowski dice che nel primo caso essa è situata vicino al polo della fabulazione, nel secondo vicino al polo della testimonianza. Al primo polo fanno riferimento soprattutto gli studiosi di letteratura, affascinati dall’immenso patrimonio di fabulae di cui ogni cultura è intessuta; al secondo si collocano gli storici, secondo cui narrare è rendere testimonianza (essendo il “testimone” colui che registra l’accaduto e ne serba memoria, i suoi racconti cercando di avvicinarsi il più fedelmente possibile alla realtà). Secondo Jedlowski, le narrazioni non si collocano esclusivamente in uno di questi due estremi, ma esiste un continuum dove testimonianza e fabulazione si intrecciano, facendo convivere tensioni diverse (Jedlowski, 2000: 38 - 41).

potere di controllare l’andamento del suo racconto; l’ascoltatore, d’altro canto, si impegna a trovare una connessione tra la storia raccontata e la propria vita); • si caratterizza come un’opera aperta (raccontare storie ci permette di passare

messaggi senza dare istruzioni che potrebbero rivelarsi sbagliate; l’importante non è sapere o cercare di prevedere la fine di una storia ma è la sua condivisione) . 51

Passando al particolare, ovvero all’ambito interculturale, la principale caratteristica che rende lo storytelling un punto di riferimento nella comunicazione tra culture diverse è il suo essere una tecnica transculturale: ogni cultura ha la propria tradizione di storytelling; un modo efficace per conoscere i valori nascosti e le usanze di un’altra cultura è proprio quello di lavorare con le storie, i miti e i racconti. Le storie sono da sempre usate come mezzo per insegnare e trasmettere valori. Grazie ad esse, dunque, le persone potrebbero essere invogliate a comprendere meglio la diversità culturale, discutendo dei diversi sistemi di valori di ciascuna cultura, sistemi di cui è difficile parlare perché si tratta di concetti astratti che orientano il nostro comportamento quotidiano. Lo storytelling, inoltre, crea una sintesi equilibrata tra diversità e similarità. Quando si parla di culture, si tende sempre a marcare le differenze e a sottolineare le unicità di ciascuna cultura. Tutto ciò non è sbagliato, ma bisogna presupporre una similarità di fondo che permette a ciascuno di sentirsi più libero e aperto nei confronti degli altri provenienti da contesti diversi. Questa similarità si basa sull’impulso umano di dare un senso al mondo attraverso le storie ; quando una persona racconta la 52

propria storia, coloro che ascoltano si immedesimano in essa e si connettono con il narratore, indipendentemente dalla sua cultura di provenienza. In questo modo, sia il narratore che gli ascoltatori rivivono le proprie esperienze passate in un contesto diverso e si crea un clima di fiducia reciproca.

Di questa potenzialità transculturale parla anche la studiosa canadese Ellen Rose (2011), contrapponendo al modello di storytelling basato sull’enfasi delle differenze culturali (principalmente usato nel mondo del business) quello del “dono narrativo”, secondo cui “una storia è una sequenza narrata di eventi, reali o immaginari, mentre lo storytelling è la forma di comunicazione che scaturisce da quel bisogno umano apparentemente innato di costruire e condividere queste sequenze drammatiche con il fine di dare un senso al mondo e al motivo per cui

A tal proposito, Jedlowski dice che “mettere queste storie in comune è farsi compagni di viaggio. Quel viaggio che

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è l’esistenza, in cui non si sa mai da dove si venga e dove si vada né quando si scenderà, ma quel che si può fare è condividerne tratti e raccontarsi quel che si è visto, chi si è incontrato, e i sogni che abbiamo fatto” (Jedlowski, 2000:

172).

Di questo impulso ne parla lo psicologo statunitense Jerome Bruner, definendolo come “dono

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narrativo”. Si tratta di una predisposizione di tutte le persone, in tutte le culture, che si sviluppa sin dalla prima giovinezza (Rose, 2011: 55).

siamo in esso” (Rose, 2011: 55). La studiosa espone la sua tesi raccontando del suo incontro con Pema , un autista asiatico che l’ha accompagnata in giro per la città di 53

Bhutan, e sottolinea come la comunicazione tra di loro si fosse principalmente basata sul linguaggio delle storie personali, piuttosto che sulle informazioni relative alla città; nonostante permanessero delle incomprensioni linguistiche, i due sono riusciti a capirsi. La natura di questa comunicazione con Pema non si può spiegare con i modelli di comunicazione interculturale orientati al business, focalizzati sulle differenze tra gruppi culturali. In base ad essi, infatti, sarebbe stato impossibile comunicare per Ellen e Pema, poiché provenienti da due culture profondamente diverse (quella canadese e quella asiatica, rispettivamente). La prima è a “basso-contesto” (molto concentrata sull’individuo, spesso alienato), si basa sulla prevenzione dei rischi ed è “universalista” (nel senso che valorizza molto le regole), mentre la seconda è ad “alto- contesto” (le informazioni sono ampiamente condivise e messaggi dal significato profondo circolano liberamente), è più tollerante sull’incertezza ed è “particolarista” (nel senso che valorizza maggiormente le relazioni) (ibid.: 54). I limiti del modello di comunicazione interculturale utilizzato nel mondo del business, dunque, risiedono nell’enfatizzare le differenze tra “noi” e “loro” (un modo di pensare che è spesso al cuore di molti conflitti e che non può essere alla base di una comunicazione significativa), nel voler etichettare una cultura (che, essendo un qualcosa di organico e in continua evoluzione, non può essere “congelata” da definizioni precise) e nel concepire la comunicazione interculturale come un processo e un mero trasferimento di informazioni. Tale concezione taglia fuori il sentimento di connessione e di apprezzamento del diverso e non riesce a vedere le persone insieme in una comunità, luogo dove la comunicazione permette la costruzione e il mantenimento di un mondo culturale ordinato e significativo. Questo sentimento nasce e cresce proprio grazie alle storie e al loro ruolo socializzante; a tal proposito Bruner (ibid.: 55) ritiene che la storia è “una precondizione della nostra vita collettiva in una cultura”. Egli dubita che una vita collettiva possa essere possibile se non fosse per la capacità umana di organizzare e comunicare l’esperienza in una forma narrativa: “rendendo la narrativa convenzionale si può convertire un’esperienza individuale in una moneta collettiva che può circolare e raggiungere tantissime persone. Essere capaci di leggere i bisogni di un’altra mente non si basa più sul condividere in nicchie ristrette ma si fonda sul mito, sui racconti popolari, sul senso comune”. Quando lo psicologo parla di “rendere la narrativa convenzionale” si riferisce alla capacità dello storytelling di tradurre le deviazioni dall’ordinario in una forma comprensibile. Tutte le storie, infatti, riguardano eventi eccezionali, comportamenti che vanno oltre la normalità; se applicassimo il concetto di “eccezionale” o “non ordinario” ad una cultura diversa dalla nostra, allora la narrativa ci permetterebbe di comprenderla meglio,

Pema è lo pseudonimo che Rose utilizza per mantenere l’anonimato dell’autista.

aumentando la nostra capacità di risolvere i conflitti, di spiegare le differenze e di negoziare significati. Secondo la Rose, è primariamente nel modo narrativo che ha luogo l’effettiva comunicazione cross-culturale. Secondo D. G. Smith (Rose, 2011: 56 - 57), un altro studioso canadese, gli esseri umani costruiscono le amicizie più profonde raccontandosi storie a vicenda; questo permette loro di andare oltre le differenze, per instaurare una relazione affettiva, basata su una attenzione sincera per l’altro. Queste storie, secondo Bruner, sono “co-costruite”, danno vita ad uno joint product del narratore e dell’ascoltatore (ibid.: 57); a livello di comunicazione interculturale, si tratta di una costruzione collaborativa di significato da parte di individui che cercano di stabilire una connessione empatica. Tale connessione non può prescindere da un modello di comunicazione di tipo dialogico, dove per capire l’altro bisogna enfatizzare il “parlare con” piuttosto che il “parlare di” , in modo da riconoscere l’altro non tanto 54

in base alle sue differenze o somiglianze con l’interlocutore, quanto in base ai termini che egli usa per descrivere se stesso. È proprio ciò che accade nello scambio comunicativo tra Ellen e Pema, dove il racconto dell’autista esiste soltanto in quanto associato a due specifici individui, ovvero gli interlocutori: Pema ha condiviso pezzi della sua storia con Ellen, la quale li ha messi insieme in un quadro da lei compreso per poi restituirli all’autista secondo il proprio punto di vista.

Si tratta di un vero e proprio collaborative storytelling che potrebbe andare incontro a tre difficoltà:

• l’assenza di una lingua condivisa (che diminuisce le possibilità di co-costruire storie);

• la visione solo parziale dell’altra cultura; • il potere imperialista delle storie . 55

Di fronte alla prima difficoltà, la studiosa canadese reagisce dicendo che lo storytelling, essendo una pratica di tipo culturale, trascende le barriere linguistiche; il suo significato è dialogico soltanto in minima parte (il tono di voce, il movimento delle mani e del corpo, le espressioni del volto di chi narra, sono tutti elementi fondamentali in una storia). Per quanto riguarda il secondo limite, la studiosa riconosce l’improbabilità di una comprensione profonda di una storia di un’altra cultura ma sottolinea che prima di tutto viene la comprensione tra due persone, molto più

La contrapposizione tra “parlare con” e “parlare di” viene enfatizzata da Natalie Oman, docente

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presso la facoltà di studi sociali dell’Università dell’Ontario (cit. in Rose, 2011: 57).

Il passato ci dimostra che quando si conquista un popolo, lo si priva delle sue storie per far posto a

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quelle del paese conquistatore; questa è una parte importante del processo di dominio di una cultura su un’altra (ibid.: 59 - 60).

probabile e indipendente dalla conoscenza totale dell’altra cultura. Sul pericolo del potere imperialista delle storie, infine, risponde ricorrendo ancora una volta alle parole di Bruner; secondo lo psicologo, la co-costruzione di significato non deve rifarsi necessariamente a una storia egemone, ovvero quella dei vincitori e dei forti, ma deve mettere insieme storie diverse che possono arricchire la comprensione della nostra condizione umana e farci accettare i modi differenti in cui si vive nel mondo. In conclusione, dunque, Rose suggerisce di pensare alla comunicazione interculturale non tanto come e a un superamento delle differenze quanto a una co-costruzione di storie: “la narrativa è un particolare tipo di discorso il cui potere è quello di renderci capaci di articolare, entrambi nello stesso tempo, le radici della nostra diversità e il comune denominatore della nostra esperienza umana” (ibid.: 60).