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3.3. Lo storytelling nel mondo profit

3.3.1. Le storie nel contesto comunicativo odierno

Di Fraia, facendo riferimento a Bruner (di cui si è parlato nel capitolo precedente), per sottolineare il valore delle storie all’interno dei processi di marketing aziendale, distingue il pensiero narrativo da quello scientifico: a differenza di quest’ultimo (che si fonda su ragionamenti di tipo pragmatico e razionale), il primo riguarda le relazioni tra persone, i processi di pensiero. “Le storie ci inducono a sospendere la nostra incredulità rispetto a quanto narrato e a lasciare che i contenuti proposti ci pervadano senza eccessivi blocchi razionali” (Di Fraia, 2015: cap 3, par. 1). Questa potenzialità narrativa si ritrova nei prodotti delle aziende che aiutano il cliente a costruire la sua identità (raccontando chi è a se stesso), e la rappresentazione del sé, (raccontando chi è agli altri); “il consumo post-moderno è in gran parte consumo di storie acquistate per il contributo che possono dare ai nostri processi identitari” (ibid.: par. 1). Il motivo per cui abbiamo bisogno di aiuto per costruire la nostra identità è da ritrovare nella “liquidità” della società in cui viviamo, in cui tutto è a termine e con esiti incerti. Tutto ciò ha delle implicazioni ovvie nel mondo aziendale, dove tutte le forme di advertising classico (inteso come forme di pubblicità che interrompe, come nel caso di spot tv, affissioni pubblicitarie, ecc.) si fondano sul racconto di storie e sulla sospensione dell’incredulità del potenziale cliente (l’autore cita l’esempio di una crema antirughe che promette risultati eccellenti in poco tempo; chi la compra in fondo sa che la promessa è falsa, ma vuole crederci). Non altrettanto ovvie sono le implicazioni nella comunicazione aziendale attraverso il web 2.0, dove i processi generativi delle narrazioni di consumo hanno subito cambiamenti radicali. Tra questi emergono:

• la multi-autorialità delle storie (i fruitori sono co-autori di storie insieme all’azienda); • l’orizzontalità dei processi comunicativi (dove, alla verticalità della comunicazione

aziendale, che era l’unica ad avere accesso ai grandi mezzi di comunicazione di massa, si è affiancata un’interazione tra pari attraverso i social);

• il carattere aperto delle narrazioni (qualsiasi contenuto pubblicato dall’azienda è accompagnato da innumerevoli commenti del pubblico, oltre che da eventuali modifiche del contenuto stesso attraverso remix o mash-up ); 92

I termini remix e mash-up sono entrambi mutuati dal linguaggio musicale: il primo indica la

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frammentazione di contenuti (originali o già esistenti) e il loro successivo riordinamento per la creazione di un risultato completamente diverso; il secondo indica la combinazione di contenuti provenienti da diverse fonti per produrre un risultato nuovo (ibid.: par. 1).

• il carattere frammentario e non lineare del testo (sui social media i testi non sono più dotati di una struttura auto-conclusiva, facilmente riconoscibile - inizio, svolgimento e fine - ma sono frammentati in base ai diversi format e agli intenti dell’atto comunicativo - post, video brevi, sondaggi; vi è una sorta di puzzle che, inizialmente pianificato dall’azienda, si compone pian piano andando a definire la storia complessiva dell’azienda);

• la transmedialità delle storie (come già accennato in precedenza, si tratta di uno stesso contenuto che transita su media e canali diversi, adattandosi a ciascuno di essi ). 93

3.3.2. Le “buone storie”: struttura, universi discorsivi, trama e genere

Visti il perché le storie sono efficaci in ambito aziendale e quali sono le loro caratteristiche nel contesto comunicativo odierno, bisogna capire cosa contraddistingue una “buona storia” da una storia normale, indipendentemente dal pubblico di riferimento e dal canale che si vuole usare. Per non lasciare indifferenti i fruitori e generare in loro delle emozioni, le “buone storie” devono rispettare una certa struttura, detta pentadica, costituita da cinque elementi:

- un attore/eroe, alla ricerca di qualcosa (ovvero se stesso, il suo posto nel mondo); - un’azione/impresa, svolta dall’attore durante la sua ricerca;

- un contesto spazio-temporale, nel quale si colloca l’impresa; - uno scopo/obiettivo, che motiva l’attore durante l’impresa;

- uno strumento/oggetto magico, che permette all’attore di raggiungere il suo scopo (Di Fraia, 2015: cap. 3, par. 1.1).

A questa struttura si possono aggiungere altri elementi per dar vita a tantissime altre storie (ad esempio l’antagonista, l’aiutante dell’eroe, ecc.). Tra questi, l’azienda si incarna nell’aiutante dell’eroe, fornendogli il prodotto/servizio (ovvero l’oggetto magico) di cui ha bisogno per perseguire il suo scopo. L’elemento più importante che rende interessante la storia è l’azione, ovvero un qualcosa che turbi la quiete dell’attore e lo metta in movimento verso un’impresa che si complica sempre di più fino ad arrivare ad un punto di massima tensione; ovviamente, per un lieto fine, segue il

Nel mio caso, i contenuti creati per Facebook sono di durata e struttura diverse da quelli destinati al

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superamento del momento più difficile. Tutto questo “viaggio” stimola il pubblico perché coincide con l’esperienza del piacere fisico e psicologico.

I temi delle buone storie sono più o meno sempre gli stessi e coincidono con ciò che dà significato alla nostra esistenza (amore, lavoro, morte, ecc.); tali temi sono alla base della creazione di quegli universi discorsivi che permettono di potenziare l’efficacia emozionale delle storie. La morte, ad esempio, dà origine a un universo discorsivo che affronta la consapevolezza della caducità dell’esperienza umana, che spesso non accettiamo; nella società in cui viviamo, siamo circondati da diversi mali e dall’incertezza che ci fanno sentire fragili e inadeguati; non sappiamo rispondere alla domanda esistenziale relativa al senso della nostra vita, al nostro posto nel mondo di oggi. Il successo dei social network è dovuto proprio a queste nostre debolezze che riusciamo in qualche modo a “coprire” inondando della nostra presenza gli spazi digitali, nella speranza di porre il nostro valore negli amici che ci seguono e nel successo. Questo desiderio di presenza del sé è l’unica difesa che abbiamo nei confronti della precarietà esistenziale e il consumo, sia in generale che dei social, fortifica questa difesa illudendoci di lasciare, grazie a dei prodotti/servizi, una presenza significativa di sé nel mondo e di avere conferma a livello sociale. I bisogni principali a cui rispondono le aziende oggi, dunque, sono la presenza del sé e il riconoscimento sociale.

Al di là degli universi discorsivi nei quali si sviluppa il tema di una storia, bisogna distinguerne la trama e il genere. La trama riguarda lo sviluppo temporale di una storia (ricordando la definizione di Jedlowski, si tratta di ciò che connette tra loro gli eventi), è “il modo attraverso cui vicende e personaggi s’intersecano” (ibid.: par. 4); a seconda del tipo di esito della storia, si distinguono diverse forme di trama (tra cui l’epica, la commedia, il genere romantico, la farsa, la tragedia; le prime tre sono quelli più usati dalle aziende per persuadere i pubblici). Il genere riguarda i tratti distintivi degli elementi di una storia (dove per elementi si intendono i personaggi, gli eventi, le ambientazioni, ecc.); tra questi distinguiamo l’horror, il comico, il giallo, ecc. La scelta della giusta trama e del giusto genere dipende sempre dal tipo di audience che l’azienda vuole “ingaggiare”. Si parte, dunque, dall’analisi dell’audience per arrivare alla definizione delle diverse Personas (contraddistinte principalmente per: fase di vita a cui appartengono; snodi esistenziali a cui stanno andando incontro; possibili “difetti fatali” ); in base a ciascuna Personas si sviluppa una contenuto narrativo, definendo 94

prima i cinque elementi della struttura pentadica, gli universi discorsivi in cui tali elementi si inseriscono, poi la trama e il genere fino ad arrivare a definire il tipo di

Si tratta del cosiddetto fatal flaw, un difetto che accompagna un individuo da tutta la vita. Le

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aziende fanno leva su questo difetto, promettendo al cliente di anestetizzarlo (alcol, psicofarmaci, ecc.) o di eliminarlo (chirurgia estetica, creme, ecc.).

contenuto, il suo stile linguistico e il canale attraverso cui disseminarlo; il tutto finalizzato ad un coinvolgimento che chiami all’azione un pubblico predefinito (ibid.: par. 4). Secondo un’analisi dell’autore, le aziende italiane propongono, nella maggior parte dei casi, storie auto-celebrative, di tipo “uno a molti”, dove gli unici protagonisti sono il brand o i prodotti; bisognerebbe puntare, invece, su storie “orizzontali”, paritarie, dove ad agire sono direttamente gli utenti dei media sociali, che vogliono sentirsi partecipi e coinvolti attivamente.