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Giochi con la clessidra

1. La bellezza è negli occhi di chi guarda

Nel 1917, Marcel Duchamp è a New York, fa parte di una ristretta cer- chia di artisti che ruota intorno Walter Arensberg e che, in seguito, sarà chiamata New York Dada, ed è anche fra gli organizzatori di una mostra “senza giurie e senza premi” della Society of Independent Artists, che ha la particolarità di essere aperta a chiunque paghi i 6 dollari di iscrizione.

Duchamp è il responsabile dell’installazione e dei criteri di esposizione, che stabilisce in ordine alfabetico: a partire da una lettera estratta a sorte. È questa la storica occasione nella quale egli – in incognito, firmandosi R. Mutt – presenta la celeberrima Fountain, un orinatoio orientato in modo che la superficie di montaggio risulti come base.

Non è il suo primo ready-made (viene dopo Bicycle Wheel, 1913; Bottle

Rack, 1914; In advance of the broken arm, una pala da neve firmata nel

1915) ma diviene il più conosciuto perché, come è noto, è rifiutato dall’esposizione come «immorale, volgare», e «un semplice pezzo idrauli- co» («The Blind Man», 1917).

La vicenda di Fountain è esemplare. Il pezzo originale non è mai stato esposto ed è comunemente indicato semplicemente come “perso”. Tutto quello che ne abbiamo è una foto (ma potrebbe non essere proprio dell’“o- riginale”) scattata da Alfred Stieglitz e pubblicata sul secondo numero di «The Blind Man», nel maggio 1917.

La “perdita” di Fountain è al centro di molte versioni contraddittorie. Pare che l’opera venga prelevata dai locali della Society of Independent Ar-

tists (dove era nascosta dietro un tramezzo). Ma forse no, perché secondo

alcune versioni viene invece distrutta da William Glackens, per uscire dall’imbarazzo dell’esporla o del censurarla (Glackens J., 1957). Secondo

altri, Fountain è conservata per pochi mesi nella mitica galleria 291 di Al- fred Stieglitz (anche qui, forse, dietro un tramezzo). In un’altra versione, pare invece sia acquistata da Walter Arensberg che, dopo averla portata in trionfo fuori dai locali dell’esposizione, la “perde” (Camfield, 1989). La versione più diffusa, comunque, è quella secondo la quale Alfred Stieglitz, nel trambusto della chiusura della sua galleria, la getta via come spazzatura (Tomkins, 1996). Una ulteriore variante, della quale non sono riuscita a ri- salire alle fonti (e che circola on line probabilmente in virtù non solo della sua verosimiglianza ma anche della sua esemplarità) è che l’originale di

Fountain si perda durante un trasloco, perché i facchini considerando

l’oggetto nella sua funzione originale, trovandolo fuori contesto ed “inter- pretandolo” di conseguenza come “immondizia”, lo gettano via. Sorte – tra l’altro – comune ad altri ready-made di Duchamp. Il suo primo ready-made puro, Bottle Rack, viene anch’esso semplicemente buttato via dalla sorella che – mentre lui, nel 1915, è negli Stati Uniti – se ne sbarazza durante una “pulizia generale” dello studio.

Oggi conosciamo l’orinatoio di Duchamp – oltre che per la foto di Stie- glitz – per una serie di repliche autorizzate dall’autore: una nel 1950, per una esposizione a New York; una nel 1953 a Parigi; una nel 1963 per una retrospettiva a Stoccolma; una edizione limitata di otto copie dalla foto di Stieglitz, sotto la supervisione dell’autore, per la Galleria Schwarz di Mila- no, alla quale si devono sommare quattro repliche fuori edizione, di cui una per Schwarz e una per lo stesso Duchamp. In più, c’è il prototipo della se- rie, acquistato da Andy Warhol nel 1973 ed alla sua morte, nel 1987, ven- duto all’asta da Sotheby’s partendo da una stima fra i 2.000 e i 2.500 dolla- ri, e battuto a 65.750.

Nel 1999 Sotheby’s mette la foto di una delle otto repliche tratte per Schwarz dalla foto di Stieglitz, sulla copertina del suo catalogo di vendita

Contemporary Art. Valutata di base 1/1.5 milioni di dollari, la “copia” è

battuta all’asta per 1.8 milioni di dollari. Nel marzo 2010, compaiono infine ben tre copie non registrate e, in un’intervista, Arturo Schwarz conferma di star cercando di venderne una quarta. Si dice che il prezzo – oscillante an- che in relazione alla tipologia di acquirente, museo, collezionista o investi- tore – sia orientato intorno a 2.5 milioni di dollari («The Economist», 24 marzo 2010).

Come dicevo, la storia di Fountain è esemplare. Intanto un oggetto che solo pochissimi hanno visto – e che, comunque, è quasi immediatamente scomparso – è stato sufficiente per cambiare il corso della storia dell’arte. È fra le opere più conosciute in assoluto; molti altri artisti le hanno reso o- maggio: Sherrie Levine, Mike Bidlo, Richard Prince, Jeff Koons, Tom Sachs. In una delle grandi ironie della storia, il gesto provocatorio di Du-

champ è ora al centro dell’arte moderna: analizzato, glorificato, istituziona- lizzato. Fountain è diventato un’icona, che sintetizza la tendenza dirompen- te dell’arte del XX secolo e prefigura l’arte concettuale.

Il che vuol dire (anche) che, in realtà, l’oggetto non è veramente neces- sario. L’arte – il valore estetico e quello economico dell’arte – non risiedo- no nell’oggetto. E forse neanche, come pensavano Duchamp e i suoi amici di «The Blind Man», nel fatto che un artista lo scelga e ricontestualizzi «in modo tale che il suo significato utilitario è scomparso sotto il nuovo titolo e punto di vista e ha creato un nuovo modo di pensare quest’oggetto» («The Blind Man», 1917: 2-3).

A partire da Duchamp il lavoro dell’artista consiste nel mettere in con- flitto i significati sedimentati in un oggetto con il contesto – fisico e cultu- rale – nel quale lo si pone. Il significato e il valore dell’operazione sono af- fidati all’interazione tra oggetto, contesto, e diverse qualità di spettatori.

«Un’importante caratteristica del readymade» − afferma Duchamp − «è la breve frase che, occasionalmente, vi scrivevo. Questa frase, anziché de- scrivere l’oggetto come un titolo, tendeva a trasferire la mente dello spetta- tore verso altre regioni, più verbali» (Richter,1965).

Dunque, il valore estetico di Fountain, secondo lo stesso Duchamp, ri- siede non solo e non tanto in ciò che si presume Duchamp abbia pensato “scegliendolo” ma, soprattutto, in ciò che altri – pubblici e critica – hanno pensato e pensano: in tutto ciò che stato detto e scritto su di esso da quando

si sa che Fountain esiste, di una esistenza virtuale che si attualizza soltanto

in una foto sbiadita, qualche “replica” e molto “sapere”: specialistico, sco- lastico, “diffuso”. Ed è questo sapere, frutto di un lungo lavoro intersogget- tivo, cooperativo, cumulativo – al quale hanno partecipato le istituzioni come la critica, il sistema formativo, i musei, ma anche i media e il buzz delle reti sociali – a creare il valore economico (non a caso continuamente crescente nel tempo, così come nel tempo si allarga il numero di persone che sa dell’esistenza e del valore dell’orinatoio di Duchamp) che si cristal- lizza nei simulacri di un “originale” scelto in una serie, fra i moltissimi in- stallati in un numero elevatissimo di pubbliche latrine e così insignificante al momento della sua “elezione” che nessuno riesce a ricordare esattamente dove e come si sia “perso”.

Una prova «a contrario» del fatto che il valore – e la stessa esistenza – dell’oggetto artistico risiedono, proprio come indicava Duchamp, nell’at- teggiamento (e nelle conoscenze) di chi lo osserva piuttosto che nelle sue intrinseche qualità, consiste proprio nel fatto che chi non sa di trovarsi di fronte a “un’opera” – la sorella di Duchamp che fa le pulizie, i facchini di una delle “storie” intorno a Fountain – interpreta un oggetto fuori contesto perlopiù come spazzatura. E ciò non vale soltanto per il ready-made (dove,

tutto sommato, questo effetto è ricercato dal gesto artistico, finalizzato a spiazzare l’osservatore e a renderlo insicuro delle proprie categorizzazioni). Così come l’incontro con chi non sa e non la ri-conosce può ogni giorno far tornare Fountain alla sua condizione di vecchio orinatoio – e, di qui, molto facilmente trascinarla in quella di immodizia – in fin dei conti, per chi non sappia riconoscere il valore storico e culturale che una consistente parte della popolazione del mondo occidentale attribuisce all’opus reticulatum, un muro è un muro. Ed è difficile capire perché alcuni muri possano essere preziosi, altri inestimabili, altri ancora siano da abbattere. E questa forma di

creazione di valore, infine, non riguarda soltanto le forme artistiche e i beni

culturali, ma anche i prodotti culturali e quelli culturalizzati, a partire dal caso esemplare dell’haute couture fino alla BMW di Arvidsson (Arvidsson, 2006: 75 e seg.).

Perché la bellezza (e dunque il valore dell’oggetto in quanto oggetto e-

stetico) è negli occhi di chi guarda. E di chi sa come guardare.