• Non ci sono risultati.

La canzone napoletana, i suoi pubblici ed il loro lavoro

Giochi con la clessidra

9. La canzone napoletana, i suoi pubblici ed il loro lavoro

All’epoca, nella città e nel sistema comunicativo di cui stiamo parlando, i bassi investimenti necessari all’ingresso nel mercato favoriscono la nasci- ta di imprese minori e marginali, cui corrispondono “naturalmente” fasce di pubblico segmentate per quartiere, occupazione, ambiente sociale.

Qualcosa di simile, insomma, a ciò che è ritornato alla ribalta della sce- na comunicativa nell’ultima decina d’anni, quando le tecnologie digitali e le possibilità di distribuzione offerte dalle reti favoriscono la nascita di web radio e telestreet.

Inoltre, come si è detto, tutto il sistema di produzione e diffusione della canzone napoletana fa affidamento, per parti importantissime del processo, su elementi tradizionali, come cantori girovaghi, posteggiatori, pianini, tea- tri popolari, venditori ambulanti. L’accesso alla promozione e distribuzione del prodotto, quindi, è forse meno problematico per gli operatori minori, che non per le case editrici più grandi e strutturate, che devono mediare fra diverse esigenze e più ordini di priorità.

Gli editori napoletani – e, più in generale, coloro che a Napoli si occu- pano imprenditorialmente di canzoni – hanno il loro bel da fare nell’inse- guire i pubblici nelle loro diverse aggregazioni e ricavare profitti dalle dif- ferenti forme di commercializzazione degli spartiti e di esecuzione delle canzoni. Per ritornare a McQuail (1997: 11-40) con la canzone napoletana è facile individuare il pubblico come gruppo nelle segmentazioni che ne ope-

rano il mercato e le appartenenze socioculturali.

Un pubblico ovviamente attivo ma, anche, produttivo. E non solo per- ché, come è immediatamente evidente, i “consumatori” operano, nella ese- cuzione musicale casalinga, frequenti passaggi di campo – da ascoltatori a interpreti – precorrendo la “pretesa” di «ogni uomo contemporaneo (...) di venir filmato» (Benjamin, 1936). O perché, secondo una direttrice indivi- duata ancora una volta da Benjamin, nell’attività letteraria – di cui fa cer- tamente parte la produzione di testi di canzoni – «il lettore è sempre pronto a diventare scrittore» (Benjamin, 1934).

I processi di valorizzazione operati nel consumo e legati in vario modo alle canzoni si esplicano, infatti, in forme diverse che si segnalano tutte fondamentali per la penetrazione delle canzoni in ogni segmento della so- cietà napoletana: personalizzazione del prodotto, diffusione “passa parola”, lettura intertestuale, transmediale e cooperativa, diffusione ed attivazione delle mitologie.

Il lavoro intellettuale socializzato è determinante, in questo sistema pro- duttivo, tanto sul versante del consumo quanto su quello della produzione. Tutti i lavoratori intellettuali della canzone (produttori e consumatori) uti- lizzano uno stock di conoscenze che fa parte di un patrimonio comune: at- tingono a quella sorta di “accumulazione originaria” della conoscenza pro- dotta nel passato, e “rilavorata”, elaborata e trasmessa socialmente in ma- niera continuativa e ininterrotta. Accumulazione, circolazione e trasmissio- ne che avvengono nelle famiglie, nelle diverse agenzie di socializzazione, nelle interazioni quotidiane, negli scambi e nelle reti sociali. Così come in, e attraverso, reti e dispositivi diversi: dal salotto borghese al circolo mon- dano, dalle riunioni nei “bassi” ai rituali della passeggiata.

Un pubblico-rete, dunque, ma anche per certi versi (e, soprattutto, se depuriamo l’aggettivo delle connotazioni legate alla “cultura popolare” e al suo “antagonismo”) un pubblico resistente perché interpreta secondo propri modelli e canoni i materiali messi a disposizione dalle industrie dell’edi- toria e dello spettacolo.

Se, infatti, nei salotti una canzone divenuta di moda sulle tavole del cafè

chantant viene ingentilita per il suono del pianoforte e le caste ed educate

orecchie delle signorine da marito, nei vicoli e nelle trattorie quella stessa canzone viene rilavorata per altri strumenti (vocali e musicali) per altre o- recchie, per altri gusti, per altri usi.

Il secolo di riproduzione sonora alle nostre spalle, ci ha abituati, con il disco, a fruire di esecuzioni musicali che si propongono come la “norma” impressa dalla produzione all’interpretazione dello spartito.

Nella Napoli fine ottocentesca, le canzoni (nella loro dimensione sono- ra) non hanno, invece, alcuna forma fissata nell’incisione discografica. Esse

sono affidate ad operatori – professionisti, semi-professionisti, dilettanti – del più vario tipo e delle più varie culture musicali, i cui legami con l’industria editoriale spesso si limitano esclusivamente a quantità, qualità, tempi di uscita, lancio, distribuzione e promozione delle canzoni (vale a di- re quali e quante novità siano disponibili all’esecuzione).

Se, allora, in una canzonetta incisa su disco ciascuno può trovare ciò che è in grado di leggere (è interessato a leggere, preferisce leggere) in «riferi- mento ai propri sistemi di significazione» (Eco, 1990), nel caso in questio- ne, il “ventaglio” dei riferimenti culturali delle canzoni, dal popolare al col- to, è al servizio di tutti gli interpreti. È, insomma, una sorta di customiza-

tion ante litteram, vale a dire una co-produzione del prodotto, relativamente

a determinate caratteristiche, in un processo con caratteristiche stabili e fis- sate ma, anche, flessibili e interattive, dove il consumatore – prendendo parte alle attività di creazione e innovazione del prodotto – contribuisce alla creazione del valore.

L’autore che dirige l’esecuzione della sua canzone a Piedigrotta, il teno- re o la chanteuse che la eseguono nelle audizioni o sulle tavole dei palco- scenici, il posteggiatore, la signorina di buona famiglia o il giovanotto di belle speranze, il cantore girovago, mettono in funzione codici culturali di- versi nell’interpretazione delle canzoni. A queste esecuzioni corrispondono luoghi e pubblici differenti – il teatro, il café chantant, il salotto aristocrati- co, quello borghese, il ristorante, il caffé, la baracca, la strada – e quindi contesti sociali e contratti comunicativi diversi.

Inoltre l’editoria musicale genera profitti su un doppio mercato: quello dei prodotti a stampa (spartiti, album, raccolte), destinati ai consumatori privati, e quello dei diritti. I “consumatori” in questo caso sono gli impresa- ri teatrali e gli interpreti: romanziste «di voce» e sciantose, tenorini e tenori «di forza». E poi i posteggiatori, che sono quelli che in maggior misura contribuiscono a fare delle canzoni la “colonna sonora” del loisir napoleta- no. Tutti questi “consumatori”, con le loro esecuzioni creano valore anche per l’altro mercato, quello dei prodotti a stampa.

I posteggiatori, in particolare, appartengono ad un universo variegato, formato tanto da professori diplomati al Conservatorio quanto da capaci o- recchianti. Essi trovano “posto” (da cui: posteggia) nei grandi alberghi, nel- le stazioni termali e balneari, nei luoghi di intrattenimento aristocratici e alto borghesi napoletani, italiani, internazionali, ma anche nelle trattorie in- fime, agli angoli delle strade, nei piccoli caffé e nei locali di quart’ordine. Tutti questi interpreti “traducono” il prodotto facendone emergere le carat- teristiche più adatte al pubblico al quale si rivolgono. Ai consumatori finali, ai pubblici differenziati per luoghi ed occasioni, giungono, allora, prodotti già “depurati” degli elementi maggiormente dissonanti dalla loro cultura e

dal loro orizzonte di attesa.

A questo punto bisognerebbe aprire una riflessione sul come e quanto queste pratiche di indisciplina abbiano in realtà facilitato la transcultura-

zione e – in definitiva – funzionato per la penetrazione del prodotto cultura-

le industriale in tutti gli stati socioculturali. Riflessione che potrebbe (e do- vrebbe) riguardare l’ambivalenza delle pratiche di “resistenza” nel consu- mo culturale a più ampio raggio.

Poiché il tema è di quelli che richiedono lunga riflessione e numerose ed estese ricerche empiriche, l’unica cosa che mi sento di osservare qui è che

rilavorare e reinterpretare implica comunque accettare un rapporto comu-

nicativo. Aggiungerei, inoltre, che dal punto di vista degli apparati un pub- blico indisciplinato o resistente è sicuramente preferibile ad uno renitente, perché il primo – pur se accettando in parte o per nulla i “contenuti” – può tuttavia generare profitti, mentre il secondo, disertando i consumi, mina la ragion d’essere della produzione industriale.

Di contro, dal punto di vista individuale, il “consumatore culturale”, de- ve essere allettato da “premi di ingaggio” – esistenziali, sociali ed econo- mici – piuttosto consistenti per consentire ad impegnare le sue preziose e limitate risorse (tempo, danaro, lavoro) nel lavoro di co-produrre, adattare a sé i prodotti culturali, o di mettere in atto forme di indisciplina o di guerri-

glia (categoria, quest’ultima, nella quale le frequenti forme di parodia e la

pratica delle risposte possono facilmente esser fatte rientrare).

La volontà dei pubblici di mettersi in relazione con il prodotto culturale è, inoltre, consustanziale alla partecipazione alla produzione di senso – che sia o meno coerente con le intenzioni dell’emittente − ed è dunque un indi- spensabile fattore per fondare la compravendita di audience commodity.

Il pubblico della canzone napoletana è, allora – nella sua fisiologica di- versità di cooperazione interpretativa ai testi e nelle sue attività di pluscodi- fica – un pubblico merce, nelle frequenti pratiche di offerta del prodotto culturale canzone come free lunch per attrarre fisicamente il consumatore verso le merci, oppure in cambio della “attività di visione” di annunci pub- blicitari.

Ad esemplificare le modalità con le quali la canzone viene usata per atti- rare l’attenzione sulle merci, e sulla loro réclame, valga per tutte una iniziati- va della ditta Miccio dei Grandi Magazzini Unione delle Fabbriche che, nel 1906, bandisce per Piedigrotta due concorsi – uno di canzoni e l’altro per i carri – e stabilisce l’assegnazione di un premio alla miglior cavalcata. Il palco per l’esecuzione delle canzoni in concorso è di fronte alla sede dei Grandi

Magazzini Miccio, in via S. Carlo. Nel comitato della giuria nomi illustri:

Ferdinando Russo, Salvatore Di Giacomo, Matilde Serao. Un immenso faro elettrico illumina tutta la strada attraversata dai carri che, per quell’anno, de-

viano dal percorso usuale, in modo da poter passare davanti al negozio di Miccio: Lo niozio de Miccio, come titola una delle canzoni-réclame che fiori- scono, tante, fra le attività canore napoletane. Anche le modalità delle pre- miazioni sono quantomeno insolite, perché i vincitori dei concorsi ritirano i loro premi direttamente alla cassa dei grandi magazzini. I fratelli Miccio sponsorizzano, inoltre, ogni anno un Album di Piedigrotta, e gli interventi della ditta nelle manifestazioni piedigrottesche sono diversificati: la sua pub- blicità, ad esempio, compare sui fondali dell’audizione della Piedigrotta Pol-

yphon del 1914, come nelle moderne pratiche di sponsoring.

Ma a Napoli si canta tutto l’anno, non solo a Piedigrotta. Ed è evidente che questo complesso sistema di produzione culturale, organizzazione del territorio e delle risorse, abbia costi molto alti.

Così, gli introiti derivanti dalla réclame, se consentono agli editori di di- stribuire gratuitamente le copielle durante i lanci delle canzoni a Piedigrot- ta, costituiscono soprattutto un apporto non indifferente per attuare una po- litica di prezzi estremamente contenuti nella cospicua – e diversificata sulla base dei gusti e delle tasche dei consumatori – produzione di album, raccol- te, spartiti.

Uno dei sodalizi più stabili, in questo senso, è quello che lega i Magaz-

zini Italiani dei Fratelli Mele alla Bideri. Sugli spartiti, negli album, nella

rivista di Bideri, «La Tavola Rotonda», la pubblicità della ditta Mele non manca mai.

Da questi esempi possiamo enucleare almeno tre modalità d’uso pubbli- citario delle canzoni. La prima attira i clienti con un “pasto gratis”. È ciò che fanno, in fondo, i Miccio, offrendo uno spettacolo costituito da carri e canzoni per attirare il pubblico allo spettacolo delle merci che i loro magaz- zini allestiscono. Sperando, evidentemente, in un acquisto o – quantomeno – nella sollecitazione di un desiderio capace di trasformarsi in “bisogno”.

Il secondo è quello che finanzia i prodotti editoriali vendendo la wa-

tching activity dei compratori, vale a dire la vendita di spazi pubblicitari su

copielle, album di Piedigrotta, cartoline.

Il terzo può essere assimilato alle sponsorizzazioni: di eventi come audi- zioni, mattinate, o di carri di Piedigrotta.

L’uso a fini pubblicitari delle canzoni, dei prodotti editoriali che le con- tengono, degli eventi che le lanciano e le celebrano, consolidatosi in una dimensione quasi esclusivamente cittadina, comincia ad entrare nel circuito nazionale intorno ai primi del Novecento. Così, se la Piedigrotta Polyphon del 1911 – dove compare una réclame per il liquore Strega che utilizza la più tipica iconografia piedigrottesca – si muove in ambito regionale, nel 1913 la copiella de ‘A canzone d’’e Serene, eseguita sul carro La leggenda

poca a Sesto San Giovanni, dalla natìa Novara), il suo Bitter e il suo Cor-

dial: «Liquore finissimo da dessert. Delizioso al seltz». Come fa anche − in

un album di Piedigrotta Morace − la pubblicità dei pneumatici Pirelli che, con creatività linguistica degna di menzione, elabora graficamente uno spartito in “negativo” (pentagramma bianco su fondo nero), in modo da ri- chiamare un battistrada.

A questo punto, come consiglia Mattelart (2001), vorrei per un momen- to «rigirare la clessidra nei due sensi» e richiamare il finale della prima par- te di questo lavoro che – come si ricorderà – termina su una sensazione di

dejà vu, sospettando «una rete complicata di somiglianze che si sovrappon-

gono ed incrociano a vicenda» fra “qualcosa di antico” e la recente struttu- razione di strategie aziendali e di logiche industriali che cercano di “tener dietro” a user mobili, imprevedibili, mutevoli: liberamente e intensamente impegnati a valorizzare le proprie scelte di consumo, a diffonderle e a con- dividerle, ma anche profondamente “infedeli” a canali e piattaforme.

Molto simili ai pubblici della canzone napoletana, insomma. Che – pro- prio come la contemporanea active audience – sono costituiti da individui che lavorano su contenuti mediali, attraverso reti di relazioni sociali, in au-

tonomi processi di interazione produttiva (Arvidsson, 2007), molto spesso

ma non necessariamente potenziati e serviti dai media (quanto meno non in

tutti i momenti dell’attività comune). E che, ogni volta che vengono aggre-

gati dall’uso di un media o da una forma di consumo culturale, possono es- sere “venduti” sul mercato pubblicitario dai soggetti che posseggono o ge- stiscono il mezzo di comunicazione (o il contesto comunicativo) che stanno “usando”.