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La ricerca empirica prospera negli Stati Uniti sulle spinte della politica e dell’industria: per conoscere l’esito delle campagne politiche e pubblicitarie e la composizione sociodemografica dei pubblici, per indagare i comporta- menti ed affinare, in relazione ad essi, le tecniche comunicative. Teorie e costrutti basati su paradigmi semplicisticamente “trasmissivi” e “unidire- zionali” e su presunzioni di (onni)potenza dei media sono piuttosto velo- cemente messi in crisi. Ma, tuttavia – anche soltanto come concetti feticcio, come li definisce Eco (1964) – conoscono lunga (e non ancora del tutto e- sausta) fortuna.

Uno dei motivi di questa persistenza è l’adozione, tutta implicita ma de- terminante, di questi paradigmi da parte di un sostanziale segmento della cosiddetta ricerca critica (studiosi che Eco definirà apocalittici), la cui pre- occupazione principale è la funzione ideologica svolta dagli apparati su un

pubblico che – tranne per alcune eccezioni – viene supposto come permea-

bile ai messaggi, ma non indagato nei processi interpretativi individuali né nelle interazioni sociali da cui scaturiscono e si modificano i significati.

Questo atteggiamento intellettuale ci riguarda da vicino, in quanto ha guidato la ricerca europea molto più di quanto non abbia indirizzato quella statunitense. Eco lo inscrive in «una malintesa tradizione umanistica», e lo cataloga come un «vizio mentale che ha titoli di nobiltà» ma radici nel ri- fiuto preconcetto di «esaminare lo strumento» tecnico rappresentato dal medium (ed, aggiungo sulla scorta della successiva “metafora delle mele”, le logiche gestionali, produttive ed economiche che presiedono all’organiz- zazione degli apparati e del sistema delle industrie culturali) e «saggiarne le possibilità» (Eco, 1964: 21).

Gli intellettuali descritti da Eco nutrono prevalentemente – almeno fino ai primi segnali di deregolamentazione e di privatizzazione delle telecomu- nicazioni – preoccupazioni di tipo politico, culturale, estetico. In questa ga- lassia di posizioni, ve ne sono di chiaramente assestate. Come quella di E- lémire Zolla, «il quale ribadisce da tempo la convinzione che certi fatti non possano essere strumenti indifferenziati di diverse politiche culturali, ma costituiscano essi stessi una ideologia, e quindi si sottraggano ad ogni boni- fica» (Eco, 1964: 351). O la peculiare forma di determinismo tecnologico di Günter Anders, descritto da Eco soggiacere a una sorta di mysterium televi-

sionis: «la TV riduce il mondo a fantasma, e quindi blocca ogni reazione

critica e ogni riposta operativa nei suoi adepti» (Eco, 1964: 16). O, infine, la posizione di Hannah Arendt, per la quale «la cultura di massa fa dei clas- sici non delle opere da comprendere ma dei prodotti da consumare», che Eco mette – a sua volta semplicisticamente – in relazione con l’«argomento classico di Adorno sulla radio come responsabile del fatto che la Quinta di Beethoven sia diventata qualcosa da fischiettare» (Eco, 1964: 37). Contro questa vulgata del pensiero critico dello studioso francofortese, basta legge- re Impiego musicale della radio (1963), saggio dedito al senso nuovo che nel nuovo mezzo potrebbe acquistare la musica, se i suoi apparati sapessero e volessero riflettere su loro stessi, sulle loro caratteristiche tecnologiche, sulle potenzialità offerte dall’elettronica per «liberare i mezzi tecnici dalla schiavitù della mera riproduzione» e l’arte meccanizzata dall’onta di «esse- re mero calco di un’altra cosa e dunque inautentica» (263). E se, soprattut- to, della perdita dell’aura – in luogo di passarla sotto silenzio, in una «rei- ficata routine culturale» che falsa le categorie dell’arte – si facesse un punto di partenza produttivo, poiché «solo la reificazione conscia di essere tale permette di prevedere una diversa possibilità» (279).

Ma il problema, qui, non è questo. Altrove, ho approfondito meglio al- cuni aspetti della “reimportazione” del pensiero francofortese sulla Kultu-

rindustrie nel Vecchio Continente – e cioè dal trasferimento di un pensiero

nato, e non sarebbe potuto essere altrimenti, dall’impatto con il commercial

system radiofonico in un sistema delle telecomunicazioni interamente inte-

so come “servizio pubblico” − non che dell’implicita adozione del para- digma “trasmissivo” da parte di coloro che Bourdieu e Passeron (1963) bat- tezzarono massmediologi (Stazio, 2007).

In questa sede vorrei soltanto ribadire quanto nella “lettura” europea post-bellica del pensiero critico francofortese e nella sua “adozione” sem- plificatoria, giochi un grande ruolo il fatto che agli intellettuali europei manchino l’esperienza diretta del commercial system, la possibilità del con- fronto con un sistema avanzato di industria culturale e gli stimoli alla ricer- ca empirica da essi provenienti.

Nell’Europa attraversata da due guerre e da una lunga crisi, fino ai tardi anni Sessanta l’industria di beni di largo consumo non ha dimensioni tali da garantire investimenti pubblicitari capaci di finanziare significativamente le industrie radiotelevisive e i giornali. Anche per questo motivo, la radiotelevi- sione europea nasce pubblica (pure se in questa scelta non va sottovalutato l’intento protezionistico in un settore che, se lasciato alle forze del mercato, avrebbe visto le deboli imprese elettroniche europee soccombere di fronte alla forza dei colossi industriali e commerciali americani). Mentre in nessun Paese Europeo le industrie culturali (editoriali, cinematografiche, discografi- che) hanno dimensioni tali da finanziare la ricerca. La prevalenza del model- lo radiotelevisivo pubblico non è ininfluente ai fini dell’orientamento di in- dagini, che più che indirizzarsi all’analisi della logica economica delle indu- strie culturali, esamina principalmente la dimensione estetica, politica, cultu- rale ma, soprattutto, considera l’industria culturale come luogo di produzione

di ideologia. La ricerca Europea si forma e procede nelle Università e nei

centri di ricerca ad essa collegati e, anche dove l’impostazione critica produ- ce la maggior copia di analisi supportate da ricerche empiriche sul campo – vale a dire nella Gran Bretagna dei Cultural Studies – l’attenzione è centrata principalmente sulle dinamiche dell’egemonia. D’altra parte, anche quando i ricercatori si confrontano con una committenza (come nel caso italiano della VQPT, servizio di verifica qualitativa della RAI), questa è quasi sempre pub- blica ed ha più esigenze di tipo “politico” (rispetto del pluralismo, comple- tezza e verifica dell’informazione ecc.), che di conoscenza empirica della composizione e dei comportamenti dei pubblici.

Le differenze nelle impostazioni di ricerca tra sociologi statunitensi ed eu- ropei sono messe in rilievo da Merton (1957): i primi sono interessati innan- zitutto a studiare empiricamente l’opinione pubblica, i condizionamenti cui è sottoposta dai mezzi di comunicazione e, più in generale, l’influenza di que- sti mezzi sul pubblico. I secondi sono maggiormente interessati alla genesi delle idee, ai processi culturali. Al primo orientamento fa da sfondo una più o meno esplicita concezione (che possiamo far risalire a Lasswell) dei media come strumenti neutrali, che operano in un contesto pluralistico e democrati- co. Il secondo fa capo, come denuncia Lazarsfeld nel 1972 a una «strana coa- lizione di marxisti macro-sociologi e etnometodologi che vogliono esplorare la “vera” esistenza sottostante alle tecniche di misurazione quantitative» (Marsal, 1977). Il che allude (oltre che, e in maniera trasparente, alla tradi- zione dei Cultural Studies) a tutta la tradizione dialettica del pensiero euro- peo, e alla sua attenzione alle dinamiche tra essenza e apparenza, struttura e sovrastruttura. In questa dialettica sono coinvolte anche le letture delle finali- tà degli apparati e delle organizzazioni delle industrie culturali. Mentre negli USA si tende a pensare che lo scopo principale di una qualsiasi industria sia

il profitto, la ricerca europea – sempre diffidente su ciò che è troppo palese e, d’altra parte in questo facilitata dal fatto che le maggiori industrie culturali, radio e televisione, perseguono evidentemente altri scopi – sposa più volen- tieri l’ipotesi francofortese per cui «la verità che non sono altro che affari serve (…) da ideologia, che dovrebbe legittimare le porcherie che producono deliberatamente. Si autodefiniscono industrie, e rendono note le cifre dei red- diti dei loro direttori generali soffocano ogni dubbio possibile circa la neces- sità sociale dei loro prodotti» (Horkheimer, Adorno, 1947: 127). La mission della Kulturindustrie è solo in via subordinata il profitto (termine che appare una volta soltanto nel capitolo della Dialettica dell’Illuminismo), mentre l’obiettivo preminente è il “servizio” ideologico alla salvaguardia del profitto altrui: «all’unico scopo di otturare i sensi degli uomini, dal momento in cui escono di fabbrica la sera a quello in cui timbrano il cartellino all’orologio di controllo il mattino dopo» (ibidem: 138). Il prodotto principale del sistema è l’affermazione di una ideologia che «funge efficacemente da strumento del dominio. Essa diventa la proclamazione energica e sistematica di ciò che esi- ste» (ibidem: 158).

Alle spalle delle diverse impostazioni ci sono, evidentemente, tradizioni di pensiero e vicende storiche significativamente differenti e – non ultimi – un ruolo, una funzione e una posizione dell’intellettuale radicalmente di- versi. Nella “giovane” America la professione intellettuale di era “da sem- pre” esercitata nel mercato e per il mercato. La “vecchia” Europa ha un passato di intellettuali al servizio delle corti, “personale di servizio” dedito al divertimento del sovrano e ad illustrarne la forza e la magnanimità al po- polo e agli altri potenti della terra. Il che ha, dialetticamente, il suo rove- scio: «un tempo essi firmavano le loro lettere, come Kant e Hume, «servo umilissimo», e intanto minavano le basi del trono e dell’altare. Oggi danno del tu ai capi di governo e sono sottomessi, in tutti i loro impulsi artistici, al giudizio dei loro principali illetterati» (ibidem: 140).

In più, nell’ambito di teorie sociali di tipo olistico, come il funzionalismo, una funzione della comunicazione industriale è la latent pattern maintenance (e di qui, anche, l’interesse a comprendere – e correggere – il “malfunziona- mento” dei processi comunicativi nei loro effetti persuasivi). In teorie sociali di tipo antagonista, al contrario, «la proclamazione energica e sistematica di ciò che esiste», si risolve in uno strumento per il mantenimento del dominio dell’uomo sull’uomo e, in quanto tale, va tout court combattuta.

Tornando agli scopi della presente esposizione − che sono quelli di e- splorare le diverse “descrizioni” del pubblico nella ricerca comunicativa, e di contestualizzarle nei modi e nei rapporti di produzione e nelle situazioni storico-comunicative della loro elaborazione − la longevità e la “resistenza” di un implicito paradigma “trasmissivo” della comunicazione sfociano in

quello che è stato definito «problem of the disappearing audience» (Fejes, 1984). Che, a sua volta, può essere fatto risalire alle tendenze della ricerca critica – che Morley imputa principalmente alla cosiddetta Screen Theory (1980: 161) – ad assumere il testo come l’unica fonte di significato e a sup- porre la lettura come interamente dettata dalle strutture testuali. Nella scre-

en theory lo spettatore cinematografico e televisivo è teorizzato quasi e-

sclusivamente a partire dalla prospettiva (post-strutturalista e psicoanaliti- ca) della “produttività del testo”, ed il suo ruolo concepito in termini forma- listici, come una posizione inscritta nel testo. Che, però, in una sorta di de-

terminismo testuale (Ang, 1996), tende a collassare sul soggetto reale e so-

ciale, determinandone la “sparizione”.

Che la relazione fra spettatore e testo (e, in particolare, con il flusso te- levisivo o radiofonico) non possa essere inquadrata in un «abstract text/sub- jet relationship» ma vada, al contrario, situata attraverso la pratica della ri- cerca empirica nei contesti socioculturali ed economici dei pubblici e nelle condizioni e circostanze di fruizione (Morley, 1980: 162) è, in alcuni ambiti di studio, acquisizione relativamente recente. Tanto da sembrare capace – per sé sola – di scongiurare tutti i fantasmi dell’“apocalisse”.