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Se la costruzione concettuale del nuovo soggetto massa era avvenuta perlopiù in ambito europeo, quella del pubblico di massa sembra essere so- prattutto statunitense.

Dopo la prima guerra mondiale, il centro dell’economia-mondo capitali- stica si sposta dall’Europa agli USA (Wallerstein, 2000). Coerentemente, si sposta il cuore delle industrie culturali e, con esso, il fuoco della riflessione sui media e i loro pubblici.

Durante il XIX secolo, quando le zone meglio sviluppate d’Europa rap- presentano il centro economico, le industrie culturali europee detengono egemonie mondiali. Ad esempio, la produzione cinematografica, agli inizi del Novecento, è saldamente in mani francesi. La Pathé e la Gaumont sono le padrone del mercato e, con la loro organizzazione industriale verticale, all’avanguardia nel mondo. I nickelodeon – che, intorno al 1908, sono la forma di proiezione di gran lunga più diffusa negli USA – dipendono dalla produzione di Gaumont, Pathé, Cines, Nordisk e Hepworth. La forza com- plessiva di quel mercato alimenta, quindi, la crescita dell’industria cinema- tografica francese, inglese, italiana, danese, che la prima guerra mondiale e il potere acquisito da Hollywood indeboliscono senza riparo nel dopoguer- ra. Pathé, che nel 1905 domina il mercato mondiale, è ridotta nel 1918 ad un circuito di sale. Nel 1939, dopo una serie di trasformazioni, chiude defi- nitivamente.

Gli anni Trenta e Quaranta sono, invece, l’età d’oro dell’industria hol- lywoodiana. Lo studio-system delle grandi major integra produzione, distri- buzione e noleggio. Le grandi case sono così in grado di mantenere il con- trollo sull’intero processo industriale ed intrecciano legami finanziari con Wall Street. Quando negli USA il cinema si sonorizza (cosa che simboli- camente avviene nel 1927, quando la Warner Bros produce The jazz singer) e, negli anni Trenta, nasce la commedia musicale, il nuovo genere cinema- tografico dimostra la capacità organizzativa, il coraggio produttivo, l’indi- scutibile talento e la professionalità di Hollywood ma evidenzia anche l’im-

portanza delle interpenetrazioni fra major, produzione discografica e net-

work radiofonici che, intanto, si sono costituiti come presenza e potenza

capillarmente estesa.

Negli anni Trenta, il modello produttivo combina ormai stabilmente il di- sco, il film e la radio. La tendenza alla concentrazione oligopolistica tipica delle industrie culturali, in campo musicale tesse fili transnazionali soprattut- to fra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. E crea giganti potentissimi special- mente negli Stati Uniti, dove la concorrenza tra media sulle risorse economi- che e sul tempo del pubblico tende a risolversi in forme di sinergia e di pro- mozione reciproca sempre più accentuate, nel tentativo di rendere cumulativa piuttosto che alternativa (quanto meno nei profitti) la fruizione di diversi medium, generi e prodotti, attraverso la creazione di conglomerati multime- diali che riuniscono molte industrie culturali diverse in un solo “cartello”.

Come ho già accennato, nelle sue fasi iniziali il discorso sui media e su- gli apparati di comunicazione − che cominciano ad essere inquadrati tra fra le forze e i poteri che regolano la società − si articola principalmente intor- no all’allarme, guidato da gruppi di pressione, di fronte ai possibili effetti sul pubblico. Questi vengono ipotizzati sulla base del modello comunicati- vo che, in seguito, Gladys Lang Engel e Kurt Lang (1981) definiranno co- me la teoria «that never was». Mai formulata compiutamente, ma scaturita piuttosto da un clima di opinione diffuso nella società civile, nella politica, negli stessi media, la teoria ipodermica (o del proiettile magico) disegna un modello comunicativo e un potenziale di manipolazione che – seppur con- traddetti da una ricerca empirica costretta piuttosto a confrontarsi sulle “Reasons Why the Information Campain Fails” (Hyman e Sheatsley, 1947) – induce studiosi, politici ed educatori a concentrarsi sui mezzi di comuni- cazione per arginare le conseguenze negative che si suppone possano pro- vocare in alcune sfere dell’agire umano e sociale.

Nell’ethos complessivo di marca fortemente pragmatista che segna glo- balmente il clima culturale dell’epoca e su uno sfondo consolidato di espe- rienza nell’uso applicato delle scienze sociali e del comportamento – che durante la prima parte del Novecento, in particolare la Grande Depressione e nel New Deal, sono elementi indispensabili per la pianificazione sociale – le istituzioni politiche, attente all’allarme dell’opinione pubblica, pongono apertamente all’analisi e all’investigazione scientifica gli interrogativi e i timori per la diffusione delle “comunicazioni” di massa, nel tentativo di temperare sollecitazioni contraddittorie e di soddisfare l’esigenza di rispo- ste provenienti da vasti settori di opinione pubblica, dalla società civile, dalle lobby industriali.

Anche negli apparati delle industrie culturali emergono, inoltre, i pro- blemi e le esigenze dei professionisti della comunicazione: di auto-legit-

timazione e creazione dell’identità professionale, di autonomia, di autore- golamentazione, di costruzione della deontologia professionale. L’esigenza, in definitiva, di costituirsi in sistema dotato di regole, valori, criteri guida all’interno, e di una immagine e di una contrattualità verso l’esterno, in maniera da difendersi dagli attacchi dei moralisti, dei puritani, degli educa- tori, degli stessi apparati della comunicazione.

Sono, infatti, innanzi tutto i media stessi, interpreti della pubblica opi- nione e profondamente partecipi dei suoi umori, a farsi portatori di un di- scorso sulla paura: del decadimento morale, del traviamento giovanile, del- lo sfaldamento sociale, dello strapotere degli apparati comunicativi.

Così, nel 1934, gli studios hollywoodiani, per assicurare la “moralità” dei propri prodotti e per rispondere agli attacchi congiunti del Federal Council of the Churches of Christ in America e della Catholic League of Decency, elaborano il Production Code Administration (sostituito solo nel

1968 dalla Motion Picture Association of America). Secondo il codice non bisogna portare all’attenzione del pubblico il commercio di droga né la se- duzione sessuale (soggetto inappropriato per la comedy), parole come Dio, Signore, Gesù possono essere pronunciate soltanto in contesto adeguato, si deve essere rispettosi verso la bandiera e verso tutte le fedi religiose. È proibito, infine, rappresentare l’incrocio delle razze.

Nel 1938, il neo nominato direttore del dipartimento ricerche della CBS, Frank Stanton (che nel 1946 diverrà il giovanissimo presidente della compa- gnia), profondamente colpito dall’ascolto dell’adattamento di Orson Welles di War of the Worlds proposto dalla sua stessa emittente – e da questo strap- pato a un pigro pomeriggio domenicale (Buxton, Acland, 2001) –si convince della necessità di approfondire le ricerche sugli effetti culturali, sociali e psi- cologici dei media e propone a Lazarsfeld di condividere la responsabilità del

Princeton Radio Research Project.

Ci sono, in verità, altre ricostruzioni delle prime fasi dell’avvio del pro- getto finanziato dalla Rockefeller Foundation ed affidato a Cantril, del Di- partimento di Psicologia di Princeton. Ad ogni buon conto, Radio Research (1941, 1942, 1943; pubblicati nel 1944), se inaugura nuovi indirizzi di studi sul pubblico, consacra un modo di produzione legato alle esigenze di speci- fiche committenze. E che si concretizza nella collaborazione di fondazioni private, come la Rockefeller Foundation o i Payne Fund, Università, singoli studiosi ed organizzazioni come il National Committee for Study of Social

Values in Motion Pictures, aggregate da preoccupazioni di tipo morale, re-

ligioso, educativo, sociale, politico che, a loro volta, pongono all’attenzione dei decisori politici tematiche di attenzione sociale.

Il movimento di formazione di un campo disciplinare autonomo di stu- dio della comunicazione industriale appare, quindi, quasi immediatamente

turbato dalla necessità di mediare fra esigenze, se non sempre e necessa- riamente contrapposte, almeno diverse. La prima è dare risposte alle istitu- zioni politiche, all’attenzione e all’allarme dell’opinione pubblica, all’azio- ne dei gruppi di pressione. La seconda è relativa al bisogno di conoscenze da parte delle industrie della comunicazione, che cominciano ad accentuare una spinta sulla ricerca quantitativa, sempre più pressante in relazione al bisogno crescente di disporre di dati sulle composizioni dei pubblici, so- prattutto in relazione alla raccolta pubblicitaria (non dimentichiamo, infat- ti, che con la radio si è attestato ed assestato quel commercial system che il finanziamento pubblicitario della carta stampata annunciava e praticava so- lo imperfettamente). La terza è, appunto, quella di costituire un ambito di- sciplinare dotato di regole scientifiche di valutazione, di attendibilità, di ef- ficienza e di oggettività.

La ricerca scientifica sulla comunicazione si trova, inoltre, in una collo- cazione incerta, fra scienze umane e sociali, ed è oggetto di interesse da parte di un discreto numero di discipline: psicologia, etnologia, economia, scienze politiche, biologia, cibernetica, scienze cognitive, sociologia. An- che all’interno di una stessa disciplina, si aprono lotte fra impostazioni, teo- rie, metodi, paradigmi, clan, persone, per stabilire un “primato” sul nuovo ambito di studi. Si pensi a come, ad esempio, nell’ambito della sociologia, la Chicago School e l’interazionismo vengano scalzati dal funzionalismo e come, all’interno dello stesso funzionalismo, si evidenzi una polarizzazione tra centri universitari e indirizzi teorici, per cui – oltre alla Columbia Uni- versity, in cui già si distinguono i diversi orientamenti di Robert King Mer- ton e Paul Felix Lazarsfeld – si mettano in luce Harvard, e la figura emble- matica di Talcott Parsons.

I media e i loro effetti rimangono per tutta la seconda metà del Novecen- to costantemente oggetto di attenzione da parte di molteplici istituzioni e soggetti sociali contemporaneamente. Questi concorrono alla formazione del clima d’opinione e del discorso sociale sul tema quanto, e anzi più, del- la ricerca scientifica. I media divengono, quindi, oggetto di un sapere co- struito e diffuso da soggetti non solo collettivi (come è giusto e normale che sia), ma eterogenei, privi di regole comuni. Più marcatamente che in ogni altro ambito, la ricerca sulle comunicazioni e le industrie culturali evi- denzia sostanziali legami tra teorie e temi e le procedure di ricerca e il con- testo economico, politico, culturale in cui nascono, si sviluppano e vengono utilizzati. Risentono, quindi, di fattori ambientali: interessi dei governi, in- tenzioni dei legislatori, mutamenti tecnologici, esigenze delle industrie cul- turali, attività dei gruppi di pressione, avvenimenti storici, preoccupazioni dell’opinione pubblica, mode sociali e mode scientifiche. L’integrazione e il consolidamento o anche il conflitto di tanti interessi distinti ed eterogenei

non è necessariamente esplicito, né sempre consapevolmente vissuto dai protagonisti. Il prevalere di certe tematiche e il radicarsi di alcuni atteggia- menti, il successo e la fortuna di determinate teorie e modelli sono pertanto elementi da interpretare valutando le interazioni, le battaglie, le dominanze e le subalternità.

La teoria ipodermica, la costruzione concettuale del pubblico di massa come bersaglio indifeso di fronte ai proiettili magici dei messaggi mediali, l’ideologia della cultura di massa (Ang, 1985), che mette automaticamente in relazione media, pubblico e qualità della comunicazione, emergono in questo contesto e con queste modalità. E vanno incontro a una lunghissima fortuna pur avendo nella ricerca scientifica un peso operativo assai inferiore alla loro “fama”.