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Giochi con la clessidra

2. Elegie, tabacco e made in Italy

Siamo abituati a pensare che il valore sia cristallizzato nelle cose (come “lavoro socialmente necessario” a produrle, o come “valore intrinseco” de- rivante dai costi di produzione). Ma, come ho già accennato, per i beni e i prodotti culturali non è così. O, meglio, per quanto riguarda i beni e i pro- dotti culturali una tale affermazione va completata e/o corretta da analisi più approfondite. Non è questo il luogo – ed io non sono competente disci- plinarmente – per farle. Per gli usi necessari alla presente esposizione, però, può bastare un breve ed incompleto esame che parte dall’esempio marxiano sulle differenze fra valore d’uso e valore di scambio: quello, sul quale mi sono già brevemente soffermata, che mette in relazione elegie di Properzio e tabacco da fiuto. L’esempio in oggetto, nella sua collocazione originale (Marx, 1859) serve ad evidenziare che, benché sia necessario che un pro- dotto abbia un valore d’uso perché abbia valore di scambio, non vi è com- parabilità tra gli usi di un prodotto e il suo valore sul mercato. L’incom- parabilità degli usi del tabacco e delle elegie, e la scambiabilità alla pari delle merci che questi oggetti diversi sono, presupposta da Marx, mette i- nevitabilmente l’accento sulla componente di lavoro concreto – e, in quan- to tale, incommensurabile – connesso ai processi di produzione, trasmissio- ne, uso di conoscenze che l’esistere di tali prodotti presuppone, in aggiunta al lavoro astratto socialmente necessario per produrli o al valore intrinseco che, nella teorie economiche, vanno a comporre il valore di scambio.

nente culturale: tanto come fattore necessario alla produzione, quanto come elemento necessario all’“attivazione” del valore d’uso nel consumo. Se i produttori devono sapere come coltivare e trattare il tabacco da fiuto, i con- sumatori devono conoscere l’esistenza e gli usi possibili del prodotto e an- che sapere come, quando e dove usarlo. Nei prodotti culturali la componen- te della conoscenza è ovviamente maggiore. Sul versante produttivo è ne- cessario vi sia una grande capacità di incorporare nel prodotto, in maniera appropriata e fruibile, le opportune quote di conoscenza codificata. Sul ver- sante del consumo, si richiede ai consumatori una conoscenza tacita più so- fisticata, complessa, specialistica, addestrata, di quella necessaria all’uso di un bene materiale. In parole povere, fatte salve particolari idiosincrasie, è mediamente più facile imparare ad usare correttamente ed utilmente il ta- bacco da fiuto che le elegie di Properzio. E lo si impara anche diversamen- te. Per il tabacco da fiuto – ma anche per alcune tipologie di prodotti cultu- rali – si può ipotizzare il learning by consuming (McCain, 1981, 1995). Che, ovviamente, è una attività che avviene in relazione al mercato ma, an- che, a diversi ambiti extramercato: come le occasioni e gli usi sociali del consumo (ammesso che si trovi in commercio tabacco da fiuto, le occasioni sociali per usarlo sono oggi veramente esigue), ed ai processi – sociali e so- cialmente differenziati – di acquisizione e circolazione delle conoscenze e delle informazioni sul prodotto, sui suoi usi, sulle occasioni, modalità, ed opportunità di tali usi nei diversi contesti. E in relazione – più o meno con- flittuale – alle diverse agenzie di socializzazione, con le loro prescrizioni e descrizioni: ci sono cose che non si usano a scuola, che sono vietate quando la famiglia è riunita a tavola, che non è appropriato portare in chiesa o al- l’oratorio. Ovviamente, in questo processo di apprendimento intervengono anche il versante produttivo e le diverse industrie culturali che, nel loro in- sieme, descrivono e prescrivono gli usi possibili dei prodotti, le gratifica- zioni ad essi connesse e la scambiabilità sociale delle pratiche. Ed intervie- ne, evidentemente, il sistema «altamente organizzato e professionale di e- sortazioni e soddisfazioni magiche, funzionalmente molto simile ai sistemi magici delle società primitive, ma coesistente in modo piuttosto strano con una tecnologia scientifica altamente sviluppata», che chiamiamo pubblicità (Williams, 1980: 184-191).

Qualsiasi consumo presupponga una mobilitazione cognitiva (Foray, 2000), implica e presuppone l’esistenza di consumatori capaci di usare i prodotti. Cosa che mette in rilievo la rilevanza della qualità (abilità e spe- cializzazione) dei lavoratori del consumo e della loro quantità. Considera- zioni che diventano particolarmente rilevanti in un mondo di beni forte- mente culturalizzati, dove la conoscenza codificata nei prodotti, la cono-

della conoscenza circolante aumentano esponenzialmente, fino a delineare quella economia della conoscenza nella quale tutti operiamo.

Per quanto riguarda nello specifico i prodotti culturali, quando ci si può affidare all’efficacia “formativa” del consumo, della comunicazione sociale e del sistema della comunicazione industriale in fatto di capacità di “adde- stramento” dei pubblici al loro uso effettivo ed intensivo, ci troviamo in una condizione estremamente favorevole. Infatti, come sostiene Françoise Benhamou (2001), nei consumi culturali non vale il principio della raziona-

lità del consumatore, per il quale i gusti sarebbero invariabili e l’utilità di-

minuirebbe in modo proporzionale al consumo stesso. Stigler e Becker (1977) ritengono, anzi, addirittura legittimo parlare di una vera e propria “dipendenza” (addiction) che il consumatore culturale svilupperebbe en- trando nella dinamica di consumo. I due studiosi osservano infatti come i consumi culturali diano vita ad un interessante circolo virtuoso, in forza del quale quanto maggiore è il livello di consumo di beni di natura culturale, tanto maggiori ne risulteranno l’apprezzamento e la propensione al consu- mo. Pertanto, l’intensità delle preferenze per questo tipo di beni non è data una volta per tutte, ma tende ad aumentare parallelamente alla crescita quantitativa del consumo culturale. Crescita quantitativa che, in definitiva, diviene anche qualitativa.

Non sempre, però, il learning by consuming può assicurare – in maniera efficiente ed efficace e, soprattutto, per un numero sufficientemente ampio di persone – la creazione di un pubblico “adeguato” a determinati prodotti, fra i quali metterei tranquillamente le elegie di Properzio, ma anche l’opera lirica, la musica classica, l’arte contemporanea, il teatro di ricerca, alcune forme di letteratura, ed in più i vini pregiati, l’alta moda ed alcune tipologie di design, i prodotti di molti segmenti dell’artigianato artistico e di lusso. In questi casi i processi e circuiti extraeconomici “spontanei” di formazione e di diffusione del gusto riguardano perlopiù fasce ristrette, dotate di capitali sociali e culturali cospicui.

Il che suggerisce che per garantire la vitalità di un sistema di produzione culturale che voglia mantenere al suo interno le elegie di Properzio bisogna provvedere – oltre a mantenere un sistema dei prezzi adeguato alla capacità di spesa di fasce sufficientemente larghe – a formare la qualità dei consu- matori (e ça va sans dire dei produttori) garantendo il buon andamento di ulteriori ambiti extramercato: vale a dire i sistemi formativi e, a monte di questi, di quelli di conservazione, tutela, studio/ricerca del patrimonio cul- turale materiale e immateriale.

Gli ambiti cognitivi e produttivi del learning by consuming, della pro- duzione culturale e industriale, della ricerca e della formazione non sono, ovviamente, disgiunti. Anzi, in un sistema ottimale, si sostengono vicende-

volmente, convergono e si completano, in regime di “complementarità con- correnza, antagonismo” (Morin, 1977). L’uno supporta l’altro anche nel creare bacini quanto più ampi possibili di “spendibilità” del pesante lavoro di acquisizione, riorganizzazione ed uso della conoscenza e dell’informa- zione compiuti dai consumatori: nell’assicurare, cioè, che la capacità di svolgerlo agevoli gli individui nella competizione per la visibilità sociale e l’influenza nelle reti di relazioni, e assicuri o prometta mobilità sociale e migliori opportunità lavorative.

Ovviamente, tanto maggiore e/o tanto meno socializzato e condiviso è il

sapere necessario ad usare un prodotto e, di conseguenza, tanto più ristretto

e/o poco adeguato a estrarre valore dal prodotto è il pubblico dei consuma- tori (banalmente, quante meno persone sono in grado di usare correttamen- te e pienamente un prodotto), tanto più ci sarà uno squilibrio tra costi di produzione e mercato.

Il che fa sì che alcuni prodotti – come il nostro tabacco da fiuto – scom- paiano o quasi dal nostro orizzonte di consumo. Mentre altri, come le elegie di Properzio, sopravvivano soltanto avvalendosi di misure protettive e di modalità di circolazione extra mercato.

Quanto finora esposto – senz’altro semplicisticamente – lungi dal pre- tendersi adeguato alla complessità dei processi, serve soltanto ad indicare l’ambito nel quale collocare quanto dirò di seguito.

Nei processi culturali e comunicativi che possono essere considerati an- che processi di creazione di valore vi sono anche alcuni aspetti del lavoro

dei pubblici (Stazio, 2009). Quelli a cui mi riferisco on questi caso sono:

a) il lavoro di usare i prodotti culturali e di dar loro finish, vale a dire l’impiego della conoscenza tacita per attualizzare la conoscenza codificata nei prodotti, siano essi dell’arte o dell’industria;

b) il lavoro socializzato di creazione cooperativa di plusvalore culturale (quello che, ad esempio, abbiamo osservato nel caso Duchamp).

Sono processi importanti da molti punti di vista, che si esplicano con modalità del tutto peculiari, ad opera di diverse tipologie di pubblici: da quelli più specializzati (come i critici d’arte o gli studiosi) a quelli più “semplici”. E sono collegati fra loro, attraverso le interazioni quotidiane nelle reti sociali: il lavoro individuale, affrontato dal singolo nella specifica fruizione, nell’appropriarsi dell’informazione cristallizzata negli artefatti – con gli inevitabili scarti semantici, ipocodifiche ma anche ipercodifiche, inferenze ed inevitabili surplus di senso – ha, infatti, la proprietà di cumu-

larsi in maniera cooperativa nella circolazione, dando luogo a una grande

stratificazione e varietà di significati e valori (culturali, informativi, sociali, di intrattenimento) e, quindi, di possibili usi degli artefatti. Valori ed usi che, nella trasmissione e circolazione sociale e quotidiana, entrano perma-

nentemente nell’orizzonte di attesa degli utilizzatori, ma anche si incorpo-

rano in qualche modo negli oggetti, ne divengono il “corredo” di senso:

una qualità immateriale che chiamerei provvisoriamente valore senso. Qualità che, a sua volta, entra (in modi e misure tutti da indagare) nella composizione del valore di scambio, come frutto di una imponente valoriz-

zazione sociale.

E, dunque, non solo, come è stato già più volte osservato, i beni e le merci culturali (ed i servizi broadcasting) tendono verso lo stato di bene

pubblico, ossia verso la non rivalità nel consumo (Garnham, 1990: 156),

ma, anche, il consumo ne aumenta il valore.

Conoscenze e abilità diffuse in pubblici vasti creano molto valore. E non solo perché costituiscono in potenza mercati più ampi (dove la moltiplica- zione delle offerte culturali unita alla moltiplicazione della domanda, ab- bassa il rapporto unitario produzione/costi e domanda/costi) ma anche, co- me il caso di Duchamp dimostra, perché una vasta conoscenza diffusa del

valore senso di un artefatto ne incrementa di fatto il valore unitario. Sem-

bra, quindi, che la crescita complessiva delle capacità di appropriarsi co-

gnitivamente delle merci culturali (vale a dire una crescita delle abilità di

cooperazione interpretativa e di consumo produttivo legata a un aumento complessivo della conoscenza tacita degli individui) si possa riflettere sul valore complessivo della produzione culturale. Più cresce il numero di co- loro che possiedono tale “attrezzatura intellettuale”, più cresce il valore e- conomico legato alla proprietà di non rivalità nel consumo, e dunque il ren- dimento sociale e (quindi) economico della conoscenza (Foray, 2000). Il che, senza arrivare a dire che la crescita culturale di un Paese può rispec- chiarsi meccanicamente nell’andamento del PIL, se non altro mette al ripa- ro definitivamente da una visione degli investimenti nella formazione, nella ricerca umanistica e nella promozione delle diverse forme di arte e di cultu- ra come spreco tout court (giudizio al quale si è da tempo pericolosamente vicini nel nostro Paese, tanto negli ambienti dei decision maker, quanto ne- gli umori diffusi e persino in alcuni ambienti accademici).

La considerazione della centralità economica del lavoro di riproduzione e trasmissione culturale, della ricerca e dell’innovazione, della permanenza e della trasformazione della cultura, mette in rilievo l’importanza delle atti- vità della riproduzione sociale e dei circuiti economici ed extraeconomici di creazione, trasmissione e distribuzione di conoscenza. Ed, anche, il pro- blema dello sfruttamento privato o semi privato di commons. Ma non è su questi quesiti classici dell’economia della conoscenza che voglio soffer- marmi (anche perché, forse, non sono nemmeno in grado di enunciarli cor- rettamente). Vorrei, invece, tenerli sullo sfondo della esposizione di due ca- si di studio, che ho affrontati nel passato (remoto e prossimo), e che qui

vorrei riproporre come storie esemplari per esplorare l’incidenza, positiva o negativa, delle capacità di utilizzazione di un prodotto da parte dei pubblici, e della cumulazione cooperativa delle relative pluscodifiche (Eco 1975: 183) per la “creazione del prodotto” e del suo valore.

Il primo caso di studio, che è stato anche il mio primo lavoro di ricerca, riguarda come già annunciato la vicenda della canzone napoletana classica, o meglio del suo “sistema di produzione, diffusione e consumo”, come reci- tava il titolo della mia tesi di laurea. Un tema al quale ho dedicato parecchi anni di lavoro e lunghe ricerche d’archivio pre e post laurea. Il secondo si centra, invece, sul paradosso di un patrimonio archeologico e naturalistico negletto e di un patrimonio ambientale a rischio, in una località turistica al limite della sua capacità di carico: Capri.

Le due vicende sono accomunate, a mio parere, dalla prevalenza del la-

voro di consumo. Ma sono anche molto dissimili per numerosi aspetti. Ad,

esempio, nella diversa vivacità del settore produttivo e dell’offerta o nella differenza dei settori economici – industria culturale nel primo caso, indu- stria turistica nel secondo. Unificate, ancora, dall’area geografica (Napoli e zone limitrofe) e dall’uso intensivo di capitali culturali – individuali e con- divisi – assolutamente glocali. In un certo senso, però, sono una il rovescio dell’altra: il primo un caso di uso della conoscenza tacita diffusa se non proprio “virtuoso” quanto meno efficiente; il secondo un caso in cui, inve- ce, il capitale culturale “circolante” è insufficiente o, meglio, inadeguato a valorizzare il prodotto – o, quanto meno, a valorizzarlo integralmente, in maniera sostenibile ed equilibrata.

Se ho pensato di accostarle è essenzialmente per due motivi. Il primo è quello che dà il titolo a questa trattazione: in tutti e due i casi “l’essenziale è invisibile agli occhi”, vale a dire che la parte più importante, più imponente della “creazione di prodotto” e del suo valore è nei processi del consumo e della circolazione culturale. Il secondo perché in entrambi si segnalano te- matiche e problematiche centrali e strategiche in relazione alle particolari caratteristiche del nostro patrimonio e del nostro territorio e ai fenomeni della glocalizzazione, come tensione fra identità culturali e movimento di

globalizzazione (o mondializzazione o transnazionalizzazione a secondo

delle sfumature di significato che si prediligono).

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, bisogna ricordare come Brau- del (1949, 1977, 1979) abbia interpretato l’Europa, a partire dal XVI seco- lo, come uno spazio culturale ed economico autonomo, caratterizzato da intensi scambi interni che si caratterizzano per uno sviluppo ineguale, con zone centrali, semiperiferiche e periferiche. In una “economia-mondo” così intesa sussiste una stretta relazione, o più esattamente una “tensione”, fra lo stabilirsi di una certa omogeneità culturale ed economica ed il persistere

della peculiarità locali. Ogni qual volta, nelle dinamiche di décentrage e

recentrage e di riposizionamento fra aree centrali, semiperiferiche e perife-

riche, le attività di produzione e distribuzione di beni e servizi si de/riter- ritorializzano, si avvia un analogo movimento culturale. Le relazioni di di- pendenza economica e culturale sono mediate da strutture di portata sempre più ampia, e l’indipendenza culturale dei diversi spazi si misura dalla loro possibilità di influenzare, più o meno largamente, la cultura dell’economia- mondo in cui sono compresi (Herscovici, 1994; 1997).

Tanto lo spazio fisico-geografico che quello simbolico del locale, sono in- tersecati – inoltre – da rapporti, asimmetrici e conflittuali, e segnati al loro interno da divari più o meno drammatici. Secondo Armand Mattelart (1992), nella comunicazione-mondo il locale è il luogo dove si concretizza l’univer-

sale, poiché ne costituisce il polo dialettico tanto nella dimensione materiale

quanto in quella simbolica. L’identità culturale che contraddistinguerebbe il

locale non è altro, quindi, che una costruzione ideologica, nel senso gram-

sciano del termine, nella misura in cui è essa stessa uno spazio simbolico all’interno del quale è possibile articolare pratiche antagoniste.

In ogni caso, nell’interdipendenza con il globale, il locale si frammenta, destruttura nelle sue logiche sociali, culturali e antropologiche, e si ristrut- tura in funzione delle necessità dettate dal nuovo ordine.

In questo quadro, la dinamica del sistema culturale si esplica nella dialet- tica della differenziazione e dell’omologazione, tanto in relazione a una logi- ca economica, quanto a quella antropologica. Quello che oggi chiamiamo

glocalizzazione indica, dunque, il doppio movimento della cultura che, men-

tre si apre e si omogeneizza al globale, nello stesso tempo valorizza alcuni aspetti del locale, per garantire la necessaria dinamica culturale, ma anche per sfruttarli economicamente. Questa ultima possibilità riguarda soltanto alcuni spazi e alcuni gruppi sociali, che beneficiano degli effetti legati all’espansio- ne del sistema, e dipende essenzialmente dalle possibilità e capacità di inte- grazione dei gruppi dominanti locali nel sistema economico e culturale più ampio. Ma anche dalle capacità di differenziazione, e di creazione dell’imma-

gine locale, generate dalle attività culturali. Ciò provoca una destrutturazione

parziale della dinamica culturale in relazione alle sue dimensioni antropolo- giche ed estetiche, ed una ristrutturazione – anch’essa parziale –a partire da logiche economiche (Herscovici, 1994, 1997).

Storicamente, l’Italia – nel cammino dalla centralità economica, asse- gnatale da Braudel relativamente al XVI secolo, alla progressiva margina- lizzazione cui l’avanzare del capitalismo industriale l’ha destinata – ha mantenuto una grande indipendenza ed una ancor più grande influenza cul- turali. Ma, ovviamente, entrando in un nuovo e più ampio sistema econo- mico, è entrata anche in un nuovo mondo di riferimenti culturali, e si è ap-

propriata dei suoi elementi. Il che vuol dire che questa indipendenza, per quanto grande, e per quanto segni peculiarmente le modalità e gli esiti della nostra appropriazione di elementi della cultura universale, è comunque una indipendenza relativa.

Inoltre, patrimonio e territorio italiani – caratterizzati da una dotazione culturale materiale ed immateriale particolarmente alta e concentrata – sono stati particolarmente e peculiarmente valorizzati anche da un posto acquisi- to nell’immaginario mondiale, legato ad una storia di centralità economica e culturale ma, non di meno, ad un passato di studio, di ricerca, di trasmis- sione culturale e di attribuzione di valore a determinati luoghi ed oggetti. E alla moltiplicazione e al potenziamento di senso dei quali tali luoghi ed og- getti hanno goduto nelle letture di chi li ha studiati, visitati, vissuti ma, so- prattutto, amati, comunicati e, quindi, valorizzati. Da Winckelmann, ai pre- raffaelliti, da Sthendhal (e alla lusinga di sperimentare la sua “sindrome”), al pittoresco dell’abbé Saint-Non, dal Viaggio di Goethe, all’Italia del Bae- deker, guida di generazioni di tedeschi e di inglesi, questa forma di valoriz-

zazione giunge fino all’effetto Clooney e al più diffuso “effetto VIP” nel Chiantishire (con quanto di clamore mediatico e di buzz del fandom ad essi

è “naturalmente” connesso) sull’affluenza turistica, e sui prezzi delle pro- prietà immobiliari, sul lago di Como e in un pezzo di campagna toscana tra Siena e Firenze.

La valorizzazione degli aspetti di identità e di immagine locali – con quanto di esse è legato ai patrimoni culturali materiali e immateriali – in un’ottica di sfruttamento economico sui mercati globali è, pertanto, un tema di importanza strategica per il nostro Paese. Ma non appare sempre adegua- tamente sostenuta. Non dalle culture e capacità dei ceti economici e politici e da quelli che si chiamano decision makers, e nemmeno dalla capacità dif- fusa degli italiani di conoscere e praticare le possibilità di differenziazione e

valorizzazione legate alle componenti culturali.

Ed è proprio in questo senso che il caso canzone napoletana ed il caso

Capri rappresentano in qualche modo l’uno il positivo dell’altro. Nel caso canzone, infatti, il settore produttivo si aggancia a una identità culturale forte e ad una immagine locale ben costituita, assestata, condivisa tanto sul

piano locale, quanto su quello internazionale. Le canzoni possono, quindi, fare affidamento su capacità di lettura e di cooperazione interpretativa deri- vanti dalla padronanza che la diffusione, la condivisione e la fama di una