Giochi con la clessidra
10. Il mare non bagna Capr
«Liberaci, o Allah, dal mare dei nomi!», esclama in una delle sue poesie il grande mistico musulmano Ibn ul-’Arabi, citato da Berger e Luckmann nella loro “Prefazione” a La realtà come costruzione sociale per annunciare la decisione di «eliminare tutti i nomi» dal loro discorso, poiché si può dare per scontato che la loro posizione non sia spuntata dal nulla pur «senza la continua intrusione di osservazioni come “Durkheim dice questo”, “Weber dice quello”». Ammiro ed invidio sinceramente la loro noncuranza per le regole della Wissenschaftlichkeit ma, poiché in queste ultime pagine si pas- sa dall’andamento shandiano a quello autobiografico, mi sento obbligata a scusarmi nuovamente per l’ulteriore patente violazione delle regole.
Devi imparare a mettere la tua esperienza di vita al servizio del tuo lavoro intel- lettuale, studiandola e interpretandola continuamente. In tal senso il mestiere di- venta il centro della tua personalità e tutto il tuo io si trova impegnato in ogni pro- dotto intellettuale sul quale tu possa lavorare. Dicendo che si può “avere esperien- za” si intende che il passato opera nel presente e lo influenza e si intende anche che il passato determina la capacità di esperienza futura. In quanto studioso di scienze sociali devi saper controllare questo gioco complesso, saper fissare e scegliere ciò che fa parte della tua esperienza; solo in questo modo puoi sperare di servirtene per guidare e controllare le tue riflessioni e di plasmare te medesimo, nel corso di que- sto processo, come lavoratore intellettuale (Wright Mills, 1959: 208).
Confortata da tale ipse dixit, posso confessare che le pagine che seguono nascono da un episodio in cui la serendipity, elemento nel quale Merton (1992) scorge il modello in grado di rendere conto del dato “imprevisto, anomalo e strategico” nel processo della scoperta scientifica, ha una parte molto importante.
Nell’estate del 2009, per imperscrutabili motivi, sono irresistibilmente attratta dalla scala fenicia – antica via di collegamento fra Marina Grande ed Anacapri (VII, VI a.C.) – e presa da urgenza di percorrerla. Decido, quindi, di trascorrere le mie vacanze estive a Capri (scelta inusuale perché ad agosto l’isola non è precisamente al meglio della sua attrattività) dedi- candomi a ciò che in quel territorio benedetto dalla natura e dalla storia ha per me maggior interesse: itinerari naturalistici, siti archeologici e percorsi paesaggistici. Tre cose che, nell’isola, sono sempre strettamente e inestri- cabilmente connesse.
Come è noto, l’isola (il cui territorio ospita circa 7.000 residenti) duran- te l’alta stagione è funestata dalle quotidiane scorrerie di “escursionisti” (secondo i dati dell’Azienda Autonoma di Cura Soggiorno e Turismo, il lo- ro numero – ad agosto 2009 – si aggirerebbe intorno a una media giornalie- ra di oltre 20.000 al giorno), che si concentrano perlopiù nel perimetro delle poche stradine vicine alla “piazzetta”.
Come è altresì noto, Capri mostra da tempo i problemi di sostenibilità ambientale di un certo modello turistico – pur mantenendo miracolosamen- te quasi intatta la sua inossidabile magia. In particolare, in quella estate del 2009, l’isola è scenario e vittima di una serrata serie di reati ambientali: il
caso dei liquami, provenienti dall’espurgo di pozzi neri, gettati direttamente
in mare (18 ago 2009); quello delle bottiglie di vetro sversate in mare dal proprietario dello stabilimento balneare situato fra le rovine dell’augusteo Palazzo a Mare (20 agosto 2009); la Grotta Azzurra inquinata da sostanze imprecisate e chiusa al pubblico per alcune ore (25 agosto 2009).
E qui interviene la serendipity, che si sostanzia di fortuna (o, meglio, il
di sagacia (capacità di riconoscere quanto si trova, appunto, per caso). Fac- cio fatica a riconoscermi sagace. Mi identifico piuttosto con quell’individuo preso da «ansia di dare senso al mondo» cui Wright Mills (1959) racco- manda «fiducia ambigua» nella propria personale esperienza.
Al di là delle reazioni difensive degli imprenditori turistici e della politi- ca locale – «allarmismo che nuoce al turismo», dichiara più o meno il tito- lare del Turismo e alle Attività Produttive della Regione Campania; mentre il primo cittadino di Anacapri denuncia: «psicosi immotivata» e «una forma di accanimento» – i giornali e l’opinione pubblica più avvertita assumono un punto di vista che valorizza l’equilibrio ecologico e la salvaguardia dell’ambiente e iniziano a domandarsi cosa possa spingere residenti e im- prenditori turistici a minacciare autolesionisticamente il patrimonio insosti- tuibile su cui si basa il successo turistico dell’isola.
Le “spiegazioni” giornalistiche ricorrono comunemente a «un po’ di su- perficialità, un po’ di stupidità, forse un pizzico di delinquenza, molto poco rispetto delle regole, pochissimo senso civico, e una dose fisiologica di malgoverno» («Il Riformista», 29 agosto 2009). Fra i rimedi più comune- mente invocati primeggiano: informazione, educazione, sensibilizzazione, azioni indicate a sanare l’evidente ignoranza dei primi rudimenti dell’ecolo- gia che caratterizza gli isolani: governati e governanti.
Seguo, per naturale inclinazione più che per metodo, la raccomandazio- ne di Wittgenstein: «Non pensare, ma guarda». Leggendo i giornali e ascol- tando le chiacchiere degli isolani, osservando la noncuranza dei turisti e lo scetticismo dei villeggianti, sono subito perplessa sulla probabilità che a- zioni di tipo pedagogico/comunicativo (quali, appunto informazione, edu-
cazione, sensibilizzazione) possano sortire effetti significativi e duraturi.
Questa presa di posizione (apparentemente autolesionista per chi si occupa, appunto, di comunicazione) deriva da una definizione della situazione che potrei sintetizzare nella sensazione che il “patrimonio” su cui il successo turistico dell’isola si basa non sia affatto quello paesaggistico e tanto meno quelli naturalistico, ambientale, archeologico.
Ai miei occhi appare chiaro che a Capri – e, soprattutto, per i capresi – ciò che per me rappresenta l’essenza dell’attrattiva dell’isola, ha in questo momento, e ormai da oltre un cinquantennio, soltanto una minima parte nel
prodotto turistico.
L’osservazione mi mostra che piuttosto che immergersi in una natura dal- le bellezza abbagliante e commovente ed esplorare le vestigia di una storia antichissima, tutti – imprenditori e turisti – sembrano vedere esclusivamente i grandi alberghi, le boutique, i locali, i negozi di lusso. Capri sembra un e- norme centro commerciale, o un villaggio turistico, dove tutti fanno il bagno in piscina (anche a pochi metri dal mare), si dedicano allo shopping, alla fre-
quentazione di bar e locali notturni, alla vita sociale e mondana. Il che, tutto sommato, decifra l’incuria ed anche il degrado in cui versano i luoghi dalle maggiori attrattive culturali e ambientali. Villa Damecuta, il Sentiero dei For- tini, la Scala Fenicia, Villa Jovis (tutti oggetto di interventi di recupero in an- ni più o meno recenti) versano in uno stato di preoccupante abbandono.
Il visitatore che vi si rechi – anche in piena stagione turistica – potrà, come è stato per me, vivere l’affascinante e straniante esperienza di goder- ne in assoluta solitudine e nel più quieto silenzio, pur trovandosi in una lo- calità turistica all’estremo limite della sua capacità di carico. Ma anche su- bire lo choc culturale di sentirsi radicalmente estraneo a coloro che sembre- rebbe, invece, essere tanto prossimi: a quanti, cioè, ritroverà – in un numero che li costituisce come “maggioranza” oltre che come “folla”, impegnati in attività prevalentemente “urbane” (consumi e attività relazionali) – non ap- pena tornerà nell’abitato.
Di fronte a uno spostamento di interesse e di cura da ciò che è unico e
irriproducibile a ciò che è replicabile in maniera seriale, tanto più parados-
sale perché non percepito; di fronte all’evidente disinteresse (quando non al vandalismo) per ciò che è patrimonio comune e insostituibile, è inevitabile allora chiedersi: quali sono i desideri che definiscono le funzioni culturali e materiali dell’isola per i suoi visitatori? In parole povere: cosa cercano le persone a Capri?
Essa rappresenta, è ovvio, la destinazione di molti “turismi” diversi. E bisognerebbe, pertanto, operarvi indagini specifiche. Ma la mia impressione di osservatore partecipante (confortata a posteriori da alcuni risultati di una indagine Censis, Un manifesto per l’isola, apparsa nell’aprile 2010) è che le “motivazioni alla visita” e al soggiorno siano legate all’immagine di esclusività, mondanità, lusso, cui Capri è associata; mentre aspetti, come la qualità dell’ambiente, del mare lascino piuttosto indifferente il turista (e, di conseguenza, l’isolano). Con qualche differenza tra italiani e stranieri. Per questi ultimi infatti – secondo il Censis – la vacanza sull’isola è maggior- mente associata alla ricerca di natura e bellezza, mentre tra gli italiani l’isola è più comunemente ricercata per l’idea di esclusività e mondanità (36,7% contro il 23,3% degli stranieri).
Per il momento, però (in fin dei conti, anche Merton affidava alla seren-
dipity un ruolo di “motore” di scoperte che necessitano sempre e comunque
di verifica empirica), penso si possa assumere a livello di ipotesi ciò che è evidente anche solo al primo sguardo, e cioè che il turismo caprese – nella domanda e nell’offerta – si è assestato su una dimensione binaria: elitaria, da un lato; di massa, dall’altro. Caratteristiche che qualificano, a loro volta, due distinti flussi turistici: quelli stanziali (che nel 2008 ammontano, se- condo l’Azienda Autonoma di Cura Soggiorno e Turismo, a circa 161mila
arrivi, abbastanza equamente distribuiti fra italiani e stranieri, con un per- nottamento medio di circa tre notti, cui si devono aggiungere i villeggianti, proprietari e affittuari delle “seconde case”) e quelli dell’escursionismo, stimati in circa 2,3 milioni di individui l’anno.
Schematizzando e sicuramente semplificando (e limitando queste osser- vazioni al turismo italiano, che conosco meglio), credo di poter affermare che il popolo delle ville e dei grandi alberghi, ma anche degli appartamenti e del- le pensioni – vale a dire il turismo stanziale e abituale, quello che tende a ri- manere chiuso ed autosufficiente nelle sue roccaforti di comfort (paradisi ar- tificiali annidati negli angoli più belli e suggestivi), e a mescolarsi il minimo indispensabile con l’“altro” turismo – cerca la mondanità, le relazioni, il pre- stigio che una vacanza caprese garantisce. Cerca, cioè, una conferma di sta- tus, un veicolo di mobilità sociale, un terreno di coesione di gruppi elitari.
Le motivazioni dei 2,3 milioni di “escursionisti” (il 42,6% dei quali si ferma meno di cinque ore, e il 15,5% addirittura meno di tre, secondo il Censis, tab. 10) sono più sfuggenti. Anche qui ci sono sostanziali differenze fra italiani e stranieri (che rappresentano il 65,1% del totale), fra turisti “fai da te”, viaggiatori organizzati e crocieristi.
Io posso esprimermi esclusivamente per ciò che ho potuto osservare nei luoghi più frequentati dagli escursionisti (che, ovviamente, sono il tratto dalla funicolare – o dall’arrivo dei bus – ai Giardini di Augusto). I nostri connazionali – gli unici dei quali posso agevolmente “captare” le sfumature nelle conversazioni e negli atteggiamenti – sembrano recarsi all’isola come in pellegrinaggio, per calpestare il suolo sacro alla mondanità, al potere, al lusso, alla moda. E si aggirano fra i negozi delle grandi griffe come altri si muovono tra musei e opere d’arte: con lo stupore e la meraviglia di trovarsi al cospetto, e a così stretto contatto, con la trascendenza (e la speranza di avvistare almeno un VIP di passaggio).
Le motivazioni legate all’“esclusività” della destinazione sembrano essere tanto potenti da modificare vigorosamente persino la percezione dell’espe- rienza vissuta. Dopo essere sbarcati da traghetti gremiti o aliscafi stipati, e addentrandosi faticosamente nell’isola, fra file per i trasporti e difficoltà di movimento e di accesso di ogni genere, in continui “corpo a corpo” per la conquista di un gelato o di un posto al ristorante, soltanto il 16,9%, dei visita- tori ritiene che Capri sia una destinazione “di massa”. E l’incidenza è ancora più bassa fra gli italiani: solo l’11,1% (Censis, 2010: tab. 25).
Non penso che le motivazioni delle migliaia di escursionisti sulle orme del glamour e del lusso siano più fantastiche e irrazionali delle mie, che ho voluto percorrere la Scala Fenicia per provare l’emozione di posare i piedi lì dove, nel VII e VI secolo a. C., i greci salivano all’Acropoli dopo essere arrivati dal mare.
Gli escursionisti ed io apparteniamo, semplicemente, a domini cognitivi
differenti, ciascuno dotato di sistemi di regole interne pienamente legittimi.
Come ha specificato Humberto Maturana (1970), le premesse a partire dalle quali gli uomini costruiscono i sistemi razionali sono frutto di «sedu- zione estetica» che definisce con atto etico le «funzioni del mondo» nel quale si vuole vivere.
In questo senso il “valore” etico/estetico delle esperienze possibili è in stretta relazione con i “valori” introiettati culturalmente e socialmente, con quelli indicati dalla cultura e dalla società in cui si compiono le socializza- zioni e con le esperienze culturali, sociali, esistenziali in esse possibili. Ed è in relazione, inoltre, con il processo, sociale e socialmente differenziato, di elaborazione delle conoscenze e delle informazioni, dei “significati” e del
senso attribuiti alle esperienze.
La bellezza è negli occhi di chi guarda, evidentemente. Ma con quali
occhi i suoi visitatori guardano Capri? Con quali occhi la guardano gli ope- ratori turistici? Quando e come si è cumulato il “patrimonio unico” che dif- ferenzia l’isola e la sostiene sul mercato turistico?