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Sullo spettacolo della vita della città e delle pratiche sociali che la scan- discono si innestano lo spettacolo delle merci e della loro messa in scena nelle vetrine o nelle affiche: nate per colpire lo sguardo distratto dei passan- ti, per inserirsi nei flussi della folla urbana e nel traffico accelerato della metropoli, per esser viste dall’interno di un tram o dal sellino di una bici- cletta. Il magasin de nouveautés e la sua ubicazione nei passage sono sol- tanto i primi passi nel processo di estetizzazione e spettacolarizzazione del- le merci. Nei negozi di moderna concezione, cui la bottega artigiana cede il passo, la vetrina assolve alla duplice funzione di offrire la merce allo sguardo dei consumatori e di esaltarne le caratteristiche. Siamo ai preludi dei “Grandi Magazzini” («i passages come origine dei grandi magazzini? Quali dei magazzini suddetti si trovavano all’interno dei passages?» si chiede Benjamin nei suoi appunti; 1982: 81). Il primo fra essi, À la Ville de

Paris, risale al 1841 e costituisce un prototipo: svincola la visione della

merce dall’atto dell’acquisto e avvia un processo di spersonalizzazione del punto vendita, di riversamento della dimensione comunicativa direttamente sugli oggetti. Il “Grande Magazzino” – descritto da Zola nel 1883 con il si- gnificativo titolo di Au bonheur des dames – ha nelle sue vetrine, affollate di merci artisticamente disposte, una delle radici della pubblicità. Le fasci- nose vetrine in ferro e vetro, l’entrata libera, le atmosfere piacevoli, costi- tuiscono un insieme capace di provocare spaesamento, tanto da spingere all’acquisto emotivo e sono anche un esempio di architettura onirica (Ben- jamin, 1982: 507-42). Le merci sono valorizzate scenograficamente, gli in- terni allestiti con attraenti tappezzerie colorate e caratterizzati da una sa- piente commistione di marmi e cristalli: tutto è studiato per rendere questi luoghi assolutamente fantastici: nei grandi magazzini cresce «in modo stra- ordinario l’elemento circense e spettacolare del commercio» (1982: 87). L’enorme varietà delle merci impegna gli acquirenti in un’attività di sele- zione che i consumatori della classe borghese, non familiarizzati al “buon gusto”, sono difficilmente in grado di esercitare. Consumare comincia a di- ventare un’attività che somiglia sempre più a un lavoro intellettuale, che implica un apprendimento.

Così, «ai magasins de nouveautés si affiancano i giornali. La stampa or- ganizza il mercato dei valori spirituali» (1935: 157). Perché, in questo mo- vimento irresistibile di modernizzazione, «col flâneur l’intelligenza si reca sul mercato. A vederlo, secondo lei; ma, in realtà, già per trovare un com-

pratore» (1935: 155). Così, mentre «il feuilletoniste copia e apprende» «la facilità e la disinvoltura con cui il flâneur si muove attraverso la folla» (1939: 101), nello stesso tempo «la base sociale della flânerie è il giornali- smo». Il giornalista è «nella condizione privilegiata di rendere il tempo di lavoro necessario alla produzione del suo valore d’uso accessibile alla ge- nerale valutazione pubblica, trascorrendo e, per così dire, mettendo in mo- stra questo tempo sul boulevard» (1982: 580). Ma – organizzando, appunto, «il mercato dei valori spirituali» − è anche colui che fornisce ai suoi lettori gli strumenti e le competenze per “leggere” i testi visivi e i valori simbolici che il mercato predispone e regola.

Infine, le Esposizioni Universali – veri «luoghi di pellegrinaggio al fe- ticcio merce» (1935: 151) – a partire dalla metà del XIX secolo, presentano lo spettacolo delle merci come fuoco per tutti gli sguardi. La prima esposi- zione pubblica dei prodotti francesi, organizzata a Parigi nel 1798, inaugura un modello che si realizza pienamente a Londra nel 1851, quando cioè l’Inghilterra è il cuore dell’economia mondo. In questa occasione i maggio- ri apicoltori d’Europa fanno montare nidi d’api sulle pareti trasparenti del Crystal Palace, un trionfo di ferro e vetro, edificato per l’occasione, mentre una grande industria inglese costruisce la prima cascata artificiale, per pro- vare l’impermeabilità dei propri rivestimenti. «Le Esposizioni Universali» – scrive Benjamin – «trasfigurano il valore di scambio delle merci, creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano, inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per farsi distrarre». Un processo che inizia ad estendere i diritti della moda agli oggetti di uso quotidiano, che divengono oggetti estetici, carichi di senso. Nate per sublimare le merci, le Esposizioni inaugurano un processo che cumula sulle merci stesse signifi- cati socialmente condivisi, iniziandone il processo di culturalizzazione che le assimila progressivamente ai segni (Baudrillard, 1968, 1970, 1972; Arvi- dsson 2006). I feticci delle merci si avviano qui a diventare non soltanto «mere proiezioni di rapporti umani incompresi sul mondo delle cose» ma nello stesso tempo «divinità chimeriche che rappresentano ciò che non si esaurisce nello scambio, pur essendo esse stesse scaturite dal suo dominio» (Adorno, 1941).

Le Esposizioni Universali, fortemente radicate nello spazio urbano, in cui lasciano tracce evidenti (come la Tour Eiffel a Parigi), si sposano natu- ralmente con la produzione culturale industriale. Ovviamente, in esse le tecnologie della comunicazione trovano un posto d’onore in quanto opere dell’ingegno, simboli e alfieri delle “magnifiche sorti e progressive” previ- ste per il Novecento incipiente, ma stampa, illustrazione e fotografia sono usate soprattutto estendere e celebrarne la logica e la narrazione al di là dei confini dello spazio urbano e della nazione ospitante.

Il XIX secolo si chiude a Parigi con la Grande Esposizione del 1900, concepita come testamento del secolo appena finito e oracolo di quello ap- pena iniziato, che rappresenta l’apice e, insieme, l’inizio del declino di que- ste manifestazioni. L’esposizione del 1900 riserva un posto d’onore alla spettacolarizzazione dello spettacolo del cinematografo e della sua apparte- nenza multipla: all’universo delle tecnologie, delle merci e della comunica- zione. I fratelli Lumière si concentrano sulla possibilità d’ingrandire lo schermo, per far sì che il “gigantismo” delle immagini corrisponda alle proporzioni “universali” dell’evento. Il progetto iniziale prevede d’instal- lare sulla Tour Eiffel uno schermo enorme, visibile da vari punti della città. Per difficoltà tecniche ci si limita, però, ad allestire il “cinema gigante” (u- no schermo largo ventuno metri e alto diciotto) nel Salone dei Ricevimenti, già Padiglione delle Macchine in occasione dell’Esposizione del 1889, in grado di ospitare quindicimila spettatori.

Mentre Passage, Esposizioni Universali e Grandi Magazzini sono luo- ghi intermedi – tra l’interno (la casa, il caffè, il teatro) e l’esterno (la strada, la piazza, il parco, il giardino); tra il pubblico e il privato, tra lo spaesamen- to e l’appartenenza (sostare o andare, guardare senza partecipare) – anche l’interno domestico viene a trovarsi al centro di contraddittori movimenti centrifughi e centripeti. Fra il XIX e il XX secolo, la dialettica fra tempo libero e tempo del lavoro inaugurata dalla Rivoluzione Industriale, si trasfe- risce nella relazione fra sfera pubblica e sfera privata, e una costante ten- sione tra interno e esterno – aperto e chiuso, mobilità e sedentarietà, noma- dismo e stanzialità, relazione e riserbo – sembra attraversare la vita indivi- duale e collettiva.

Ha inizio a un processo – lungo ma inesorabile – destinato a trasformare l’abitazione nel terminale privilegiato della comunicazione. Il “nuovo” nu- cleo familiare borghese, devoto alla ricerca dell’intimità e dedito alla casa, nei suoi spazi privati esibisce con progressiva precisione uno “stile” distin- tivo in cui si fondono oggetti, organizzazione dello spazio e disciplina dei tempi: «la Moda prescrive il rituale secondo cui va adorato il feticcio della merce» (1935:152).

La merce che si spettacolarizza all’esterno, nell’interieur viene caricata di altri significati: ostensivi, ma anche affettivi. Viene domesticata. Nella tensione di simulare un mondo migliore «dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili» (1935:154), la casa accumula quadri, incisioni, fo- tografie, strumenti musicali o di riproduzione del suono, oggetti e decora- zioni “di moda”, accogliendo «il lavoro di Sisifo, che consiste nel togliere alle cose, mediante il possesso di esse, il loro carattere di merce» (ibidem).

In breve, se il flâneur può «essere fuori di casa, e ciò nondimeno sentirsi ovunque nel proprio domicilio» (Baudelaire, 1863), il borghese incorpora la

metropoli (e il mondo) nel suo piccolo universo casalingo, attraverso la stampa, la fotografia, l’illustrazione, la riproduzione dei suoni. L’interieur «per l’uomo privato (…) rappresenta l’universo. In esso egli raccoglie il lontano e il passato» (1935: 153).

Il romanzo – per eccellenza il genere dell’Ottocento – accorda un posto tutto particolare alla descrizione minuziosa della vita cittadina: realismo e na- turalismo descrivono con gran dovizia di dettagli la vita quotidiana delle dif- ferenti classi e dei differenti strati della società urbana. La stampa quotidiana e periodica – che d’altronde è uno dei veicoli di diffusione di questi romanzi – porta anch’essa il “mondo in casa”, tanto nei suoi articoli quanto nelle pub- blicità. Particolarmente indicativo è, poi, il prodotto editoriale che Benjamin chiama “letteratura panorama” e che riscuote molto successo a partire dal 1830-1840. Sono opere collettive – composte da piccoli testi illustrati da lito- grafie – che presentano lo “spettacolo” della vita quotidiana: la descrizione del tal quartiere, del tal giardino, del tal mestiere e la pratica sociale dei teatri, delle biblioteche, dei luoghi pubblici e privati (1935: 148).