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Giochi con la clessidra

4. Canzone napoletana: la ricerca

A questo punto devo chiedere preventivamente scusa al lettore per l’andamento “shandiano” (per dirla con Merton, 1965) che prenderà l’espo- sizione. Il problema è che, per evidenziare il ruolo insostituibile dell’essen-

ziale invisibile agli occhi, devo prima occuparmi di ciò che è visibile o,

meglio, lo era. Non potendone darne per scontata la conoscenza nel lettore, farò prima un cenno quanto più breve possibile agli apparati dell’editoria musicale, dell’informazione, dello spettacolo dal vivo – e, sia pur tangen- zialmente, della produzione discografica e cinematografica – nelle loro connessioni nel fenomeno canzone napoletana.

Poiché l’indagine è stata lunga e molto appassionante, rischierò proba- bilmente di soffermarmi eccessivamente sui dettagli. La cosa è in parte giu- stificata dal fatto che devo sostenere alcune affermazioni ed evidenziare e- lementi utili alla mia argomentazione. La parte restante è imputabile esclu- sivamente alla mia eccessiva affezione all’argomento. Della quale, spero, mi si vorrà preventivamente perdonare.

In ogni caso, stabilita l’ipotesi dell’esistenza di un sistema di industria

culturale nella Napoli della fine del XIX secolo, e del particolare rigoglio al

suo interno di una particolare produzione culturale − la canzone napoletana − si tratta di delimitare il campo di ricerca e di stabilirne gli strumenti. E

quindi, innanzi tutto, di ritagliare un arco temporale dell’indagine. Cosa non semplice, soprattutto perché la canzone napoletana è innanzitutto un

mito, un oggetto sul quale si sono accumulati narrazioni e significazioni. Il

che – se a posteriori la rivela come oggetto ideale per una ricerca sulla va- lorizzazione sociale di un prodotto culturale – crea qualche problema al ri- cercatore nella fase di pianificazione. Ad esempio, nel corso della sua lunga storia di locus amoenus letterario e giornalistico l’ipostasi “canzone napole- tana” è stata dichiarata – come ogni essere mitico che si rispetti – non solo immortale, ma anche talmente antica da potersi definire nata con la città stessa. Descrizione che non regge ad una analisi testuale, sia pure molto su- perficiale. E, d’altra parte, ad essere famose a livello planetario sono soltan- to le canzoni ottocentesche o, meglio – con qualche eccezione nel pre e nel

post, come Santa Lucia o Anema e core − quelle che in genere vengono de-

finite canzoni napoletane classiche, databili fra l’ultimo ventennio del XIX secolo e gli inizi del XX.

La rilevanza di questo lasso temporale – che, con qualche inevitabile ar- bitrio, ho identificato nel periodo che va dal 1880, quando Giuseppe Turco e Luigi Denza presentano Funiculì Funiculà (edizioni Ricordi) allo Stabia’s Hall di Castellammare, fino all’inizio della prima guerra mondiale, con il ritiro dei capitali tedeschi della Polyphon Musikwerke – si può riscontrare anche all’interno della narrazione mitica delle vicende di questa produzio- ne dialettale. Inoltre, è proprio in questo lasso di tempo che cominciano a precisarsi le forme di una mythologie (Barthes, 1957) tutta giornalistica, che vive innanzi tutto fra quotidiani, riviste e numeri unici e i loro luoghi di fruizione privilegiati: i salotti borghesi e i luoghi pubblici.

Il metodo di ricerca prevede, fra l’altro, un esame dei documenti degli archivi delle case editrici. All’epoca, l’unico accessibile è quello di Ricordi, gestito con cortesia e competenza da Carlo Clausetti jr., discendente di una famiglia di editori musicali napoletani molto attivi e rappresentanti di Ri- cordi a Napoli all’epoca di Funiculì Funiculà, che gentilmente mi mette a disposizione i “copialettere”, ovvero le minute della corrispondenza com- merciale della casa editrice. Data la quasi generale “chiusura” degli archivi privati, la maggior parte della documentazione deriva da archivi e bibliote- che pubbliche e comprende i diversi materiali prodotti dalle industrie edito- riali (spartiti, album, riviste, ecc.) un buon numero di periodici, e tutti i quotidiani cittadini consultati, per l’intero periodo preso in esame, nell’arco temporale dalla metà di agosto alla fine di settembre (in coincidenza con la preparazione e la celebrazione delle Piedigrotta). Vi sono, poi, tutte le nu- merosissime “storie della canzone napoletana”, le cui informazioni sono quasi sempre storicamente imprecise o travisate ma che, d’altra parte, for- niscono importanti indicazioni sui temi centrali dell’elaborazione “mitolo-

gica” e sulle modalità diffuse di lettura del fenomeno e dei prodotti cultura- li di cui mi vado interessando.

Il quadro che lentamente emerge da queste investigazioni se, da una par- te, conferma l’ipotesi che intorno al 1880 si sia verificato un cambiamento non solo formale ma, anche, di usi e funzioni delle canzoncine popolari

napoletane che già da oltre mezzo secolo allietano i salotti (la prima raccol-

ta, Passatempi Musicali, di Guglielmo Cottrau, è datata 1824), dall’altra segnala una qualità/quantità della documentazione che non permette di ri- costruire chiaramente i processi a monte di queste evidenze.

Si possono soltanto enumerare i fattori che consentono di etichettare come “nuovo” il fenomeno. Il più immediatamente visibile è negli autori, con par- ticolare riferimento a quelli dei testi in rima. Giuseppe Turco, Roberto Brac- co, Salvatore Di Giacomo sono tutti homines novi della cultura, non solo e non tanto perché agli inizi della carriera, ma soprattutto in quanto incarnano una nuova figura sociale di letterato: di estrazione borghese o, più spesso, piccolo borghese, sono dotati di un capitale culturale che sopravanza di molto quello monetario e costretti a guadagnarsi la vita in stretto contatto con il mondo del giornalismo, dell’editoria e dell’industria culturale.

Queste nuove figure di autori, in collaborazione con professionisti della musica (per i quali il rapporto di lavoro “mercenario” rientra già maggior- mente nella tradizione), come ad esempio Denza (sotto contratto con Ri- cordi) e Costa, cominciano a presentare la comune produzione sulle pagine di quotidiani e periodici e aprono rapporti di collaborazione più o meno re- golari con gli editori. I contratti relativi a queste collaborazioni sono perduti o “invisibili”: l’archivio Ricordi comprende, ad esempio, un inavvicinabile

caveau dove erano (e sono) conservati.

Più in generale, tutta la documentazione è piuttosto carente, ragion per cui ci troviamo di fronte a uno scenario composto di: un genere che pare essere eccezionalmente gradito e appropriato al pubblico cui si destina; una serie di professionisti della penna e del pentagramma che a vario titolo vi si dedicano, un buon numero di case editrici che lo editano – Ricordi e Bideri innanzi tutto, ma anche Santojanni, Morano, Pierro, i F.lli Izzo – e una straordinaria quantità, qualità e varietà di pubblicazioni.

Tutte le iniziative editoriali prestano particolare attenzione alla diffusio- ne fra le classi più povere economicamente e culturalmente. Tale impegno è testimoniato non solo da un buon numero di iniziative di carattere dichia- ratamente «economico» e «popolare» – come, ad esempio, il Canzoniere

popolare (1894-1898) e il Canzoniere Popolare Illustrato (1899-1903),

ambedue di Bideri – ma anche dalla costante tensione ad ottimizzare i rap- porti fra qualità e prezzo. E, in più, dalle copielle – che si rifanno ai “fogli volanti”, da secoli i più comuni mezzi di circolazione della cultura popola-

reggiante − stampe quasi sempre del solo testo della canzone (a volte c’è anche la musica, espressa in un sistema facilitato per coloro non in grado di leggerla), spesso illustrate e destinate usualmente ai ceti meno abbienti. Le

copielle sono distribuite gratuitamente in grandi quantità in corrispondenza

del lancio della canzone e, in seguito, vendute a prezzi irrisori.

A partire dagli anni ‘90, sull’esempio dei grandi editori milanesi Treves e Sonzogno – che con i loro giornali ricchi di illustrazioni, varietà, moda, premi e supplementi, mirano ad attirare alla parola scritta fasce sempre più larghe di pubblico – gli editori di canzoni napoletane cominciano a produr- re in proprio riviste letterarie: come «La Tavola Rotonda», edita da Bideri dal 1891, «La Canzonetta» di Capolongo e Feola, «‘O Cannone» di Fragna, di diversissimi livello e qualità. Esse sono acquistate principalmente perché pubblicano testi e musiche di canzoni (risultando anche più economiche degli spartiti) e informazioni piuttosto romanzate su avvenimenti e prota- gonisti del bel mondo e del palcoscenico.

Un tale dispiegamento di mezzi di diffusione e promozione presuppone, evidentemente, investimenti rilevanti e tecnologie relativamente sofisticate, cosa che rimanda immediatamente ad organizzazioni di una certa articola- zione e complessità.

La casa editrice di Ferdinando Bideri, certamente il più grande e innova- tivo editore di canzoni, che inizia la sua attività nel 1876 (il sito porta at- tualmente la data del 1805, ma riallaccia la storia di Ferdinando a quella del nonno Emmanuele Bidera) e si dedica intensivamente alle canzoni intorno al 1889. Dal 1883 è dotata di una attrezzatissima tipografia e di una zinco- grafia per i clichè, fra le poche in grado di produrre immagini in tricromia. L’azienda tipografica impiega, agli inizi del ‘900, circa 50 operai che ot- tengono prodotti di notevole chiarezza e finezza grafica lavorando su mac- chine di avanzata concezione, importate da vari paesi europei. Bideri lega a sé, con contratti di esclusiva o di collaborazione (dei quali apprendiamo dalla sua rivista), decine di autori di testi e musiche per canzoni. Alcuni di questi, come Gambardella e i due De Curtis, devono interamente la loro fama all’opera di “rielaborazione” e di lancio che Bideri fa delle loro per- sonalità e opere. Le edizioni Bideri presentano al pubblico su «La Tavola Rotonda» una media di 60 canzoni annuali di produzione corrente (vale a dire oltre una per settimana) e, in più, riescono a raccogliere, per gli annuali concorsi di Piedigrotta Bideri (una trovata di Ferdinando Bideri, che la i- naugura nel 1892, rapidamente imitato da tutte le altre case editrici e, in se- guito, da innumerevoli altri soggetti economici, nell’ambito dello spettaco- lo, del commercio e del turismo) da un minimo di 80, nel primo anno, alle oltre 300 canzoni degli anni immediatamente successivi.

tellettuali che producono i testi letterari e musicali, legati anche a più case editrici nello stesso momento, da contratti che li impegnano per minimi mensili o annuali di canzoni: produzione con tempi e ritmi fissati, standard di prodotto da mantenere, economia dei modi e dei tempi di lavoro, capaci- tà di confermare gli stereotipi con il massimo dell’innovazione.

Nei pochi anni che vanno dal 1880 al 1914, si profilano almeno due ge-

nerazioni di autori. La prima è quella dei Di Giacomo, Bracco, Denza, Co-

sta, Valente dei quali si è già brevemente detto: operatori musicali e lettera- ri forti di una buona pratica professionale e di corsi di studi abbastanza re- golari, inseriti, spesso con ruolo attivo e protagonista, nei cambiamenti cul- turali e produttivi in atto nel Paese. Grazie ad una cultura che permette loro di spaziare, a livello di riferimenti, dal melodramma alla Salonmusik, dalla letteratura di viaggio al bozzettismo fondato sul pittoresco, dalla poesia col- ta in lingua e in dialetto, alle forme popolaresche dialettali, fino ai grandi temi di dibattito culturale nazionale, pongono le basi degli stereotipi e dei topos della canzone, nonché del discorso giornalistico su di essa. Nell’arco di una decina d’anni sono sostituiti o affiancati da una nuova generazione di “poeti” e musicisti, la cui cultura specifica è unicamente e praticamente canzonettistica, totalmente interna e funzionale alla logica editoriale. Gli operatori di questo secondo tipo riescono a maneggiare, combinare ed pra- ticare gli stilemi del genere in maniera efficace, anche se sempre più mec- canica. Il prodotto si serializza in sottogeneri, dell’esistenza dei quali i con- temporanei, e specialmente quelli che con la canzone hanno a che fare per motivi professionali, si rendono egregiamente conto. In ciascuno di questi c’è un preciso rapporto fra particolarità formali ed elementi contenutistici legato, evidentemente, ad una serie di possibilità, di obblighi e di gabbie di scrittura, lettura, interpretazione musicale e canora. In alcuni, come ad e- sempio la macchietta, si evidenziano anche dei filoni, che si possono divi- dere per argomenti e modalità.

Le nuove condizioni lavorative, sempre più lontane dall’ideale e dalla figura tradizionale dell’uomo di lettere e di cultura, pongono non pochi problemi agli autori delle canzoni, in special modo a quelli della “prima generazione”, certamente più legati alla tradizione letteraria e musicale “al- te”. La relazione con un prodotto di cui è chiarissimo il carattere di merce li spodesta dalla condizione di artisti, per immetterli immediatamente in quel- la, più umile, di produttori. La tentazione di prendere le distanze dagli a- spetti più “triviali” delle pratiche industriali è, ovviamente, forte. Alcuni ricorrono all’adozione di pseudonimi, all’incognito, alla cessione del pro- prio lavoro ad altri. D’altro canto, all’epoca il diritto di autore – anche quando comincia ad essere tutelato – si limita alle partiture. E capita spesso che autori e compositori vendano forfettariamente le proprie canzoni, o

firmino motivi altrui. Ma, altrettanto ovviamente, vi sono alcuni tra essi – i più noti – che non possono privare gli editori della propria firma, che rap- presenta la migliore promozione per le canzoni e per la “ditta”. Le strategie individuali messe in atto sono diverse. Quella di maggior successo, comun- que, rimane una ostinata e fortunata azione di occultamento delle strategie dell’industria culturale e delle forme di lavoro mercenario che presuppone e utilizza, e la valorizzazione della canzone come forma d’arte, innervata nello spirito del popolo, grazie all’uso delle scorie della poetica romantica. Questa strategia, che ha fra i suoi strumenti soprattutto i quotidiani e le rivi- ste, vede convergere tutti gli sforzi autoriflessivi ed autodescrittivi dell’industria culturale napoletana nel suo complesso. Salvatore Di Giaco- mo – per soggettive capacità e influenza letteraria – può essere indicato come il campione di questa tendenza. I numerosi scritti in materia e l’atten- zione alla propria immagine pubblica (certamente inusuale fra i suoi colle- ghi canzonettisti), testimoniano un costante sforzo di presa di distanza per- sonale dall’universo della merce culturale, nonché di sintesi (non di rado di invenzione) di una storia e di una immagine della canzone capace di giusti- ficarla come prodotto poetico colto. In particolare, il Di Giacomo maturo, attraverso un lieve gioco di rimandi, suggestioni, apposizioni, e traendo spunto dalla pubblicistica che ormai già da più di vent’anni si occupa di canzoni, costruisce una trama di indizi e di segnali che fa leva proprio sulla cooperazione interpretativa del lettore, sulla sua volontà di riempire i bian-

chi del testo, e rivela una straordinaria adeguatezza ai bisogni e agli oriz-

zonti dei lettori e degli scrittori napoletani che, negli anni seguenti, faranno degli scritti digiacomiani la base storica e “documentaria” della maggior parte delle pubblicazioni sulla canzone.