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Giochi con la clessidra

18. Il pubblico partecipante

Retrodatare in questo modo la nascita della convergence culture potreb- be sembrare una boutade provocatoria. Invece è un invito. E nemmeno un invito particolarmente originale. Rimanda, infatti, alla vecchia querelle du

temps court, iniziata da Fernand Braudel negli anni Cinquanta, contro «i

limiti del tempo breve, contro la sociologia delle inchieste sulla attualità, quelle che si svolgono in mille direzioni tra sociologia, psicologia ed eco- nomia»; contro le scienze sociali che hanno preso l’abitudine di «correre al servizio dell’attualità». Perché «la realtà sociale è una preda ben più sfug- gente», e non si può pensare di affrontarla cedendo alla seduzione dell’é-

vénementiel ed insistendo sulla «scommessa ripetuta sul valore insostituibi-

le del tempo presente». (Braudel, 1958: 71-72).

Negli stessi anni, Maurice Merleau-Ponty mette in guardia dallo schema della storia/progresso, che induce ad una visione dell’evoluzione delle so- cietà in tappe successive rigorosamente scandite, in cui l’ultimo stadio fissa rigorosamente la norma della modernità. Al contrario, «il senso della storia è minacciato di deviazione ad ogni passo, ed ha bisogno di essere senza tregua reinterpretato. La corrente principale non è mai senza contro- correnti, né senza vortici. Non è dato come un fatto. Non si rivela che attra- verso asimmetrie, sopravvivenze, diversioni, regressioni» (Merleau-Ponty, 1955: 61). E all’immagine compatta e astratta del sistema attuale, sostitui- sce la nozione di «sistema barocco», maggiormente in grado di rendere conto delle trame complesse che compongono un insieme.

Polemica ripresa, in ambito comunicativo, da Armand Mattelart (2001), e in ambito economico da Robert Boyer il quale, per discernere le vere dal-

le false novità, invita a oltrepassare i limiti temporali che segnano la sua di- sciplina, come la maggior parte delle scienze sociali «che si esercitano, al più, su un periodo di uno o due decenni » (Boyer, 2000: 20).

Mattelart, in particolare, ricorda le parole dello storico delle Annales e, con esse, esorta a riannodare la dialettica «tra l’una e l’altra storia, fra l’uno e l’altro polo del tempo, fra l’istante e la lunga durata» (Braudel, 1958: 60). Contro l’oblio della storia e l’«idea dell’a-topia sociale delle parole che nominano il mondo» (Mattelart, 1996: 4), il suo invito è a «rigirare la cles- sidra nei due sensi» (Mattelart, 2001).

È quello che cerco di fare qui. Soprattutto perché nel campo degli studi comunicativi si è talvolta troppo attenti al susseguirsi delle tecnologie della comunicazione e si tende spesso a far coincidere l’inizio di nuove “ere” con il loro avvicendarsi. Ma, come scrive Morin (1984: 217; 252), la “novità” è spesso un’esca che distoglie dal considerare che le innovazioni tecnologi- che, nel campo della produzione e consumo delle forme di rappresentazione e comunicazione, offrono risposte ad istanze e pratiche già espresse ed ope- ranti in contesti tecnologici precedenti.

La migliore sociologia e storiografia della scienza e della tecnica propon- gono da tempo una lettura del cambiamento sociale come contesto, motore e insieme prodotto del cambiamento tecnologico ed evidenziano il carattere di processo sistemico continuo – che si compone di tratti sociali, comunicativi, culturali, biologici – dell’interazione fra tecnologie, forme sociali e forme culturali. L’innovazione sociale e l’innovazione tecnologica sarebbero, così, il risultato di molteplici mediazioni, confronti e transazioni tra diversi attori e diversi sistemi sociali: frutto di “negoziati”, ma anche di adattamenti, inter- pretazioni, traslazioni e fraintendimenti. La sociologia della tecnologia forni- sce diversi modelli di relazione società/tecnologia e di analisi dei momenti di nascita e affermazione della tecnologia nella ricerca scientifica e negli usi so- ciali: dall’Actor Network Theory (Latour e Woolgar, 1979; Karin Knorr- Cetina, 1981) al Large System of Tecnology (Thomas Hughes, 1983); dalla

Social Construction of Technology (Trevor J. Pinch e Wiebe E. Bijker, 1987)

al Social Shaping of Techology (Williams, Edge, 1996).

In particolare, nell’ipotesi della “costruzione sociale” la tecnologia at- traversa le fasi della flessibilità interpretativa in cui nell’artefatto tecnico vengono incorporate alcune funzioni specifiche in risposta ad esigenze pro- prie di un gruppo sociale; del dibattito pubblico su quali siano i criteri di efficienza e gli usi socialmente accettabili e, infine, di chiusura interpreta-

tiva, che segnala il raggiungimento del consenso fra i gruppi sociali perti-

nenti. Soltanto questo punto l'oggetto si stabilizza e diventa una “scatola nera” di cui si dimenticano le alternative. Nel social shaping, poi, l’ado- zione di un concetto flessibile – quale quello di “modellamento”– sembra

capace di fornire, attraverso una molteplicità di variabili, un quadro più ar- ticolato e spazio-temporalmente ampio della comparsa e dell’affermazione sociali di nuove tecnologie.

Il che vuol dire, per fare degli esempi pratici, che la fotografia, il fono- grafo, il cinematografo sarebbero potuti nascere e rimanere come degli strumenti di sussidio al lavoro scientifico o anche di rappresentazione “fe- dele” dell’ambiente se non fossero stati preceduti dalla letteratura, dalla pit- tura, dal teatro, da tutto l’intenso lavoro umano di creazione di numerosi “mondi possibili” bisognosi di trovare espressione e rappresentazione, e se prima del loro avvento non si fossero già avviati processi di proto- industrializzazione della produzione culturale.

Inoltre, i pubblici e le audience si muovono e agiscono in un ambiente tecnologico dove – così come ci ricorda Ong – vecchie e nuove tecnologie della comunicazione convivono nell’uso individuale, sociale, industriale, e si modificano reciprocamente attraverso schemi di selezione, rafforzamento e trasformazione (Ong, 1977; 1982). In questo modo, i processi produttivi materiali e immateriali che ne prevedono l’uso si compiono fra scontri e in- contri, sinergie e contrasti che impegnano apparati della produzione e prati- che individuali e sociali del consumo.

L’invito è, in breve, oltre che a un sano esercizio di antifeticismo, ad in- dividuare la sostanza dei cambiamenti all’interno delle tendenze di me- dio/lungo periodo. Riconoscere le continuità significa, infatti, anche e so- prattutto poter segnare rotture, salti e discontinuità lì dove veramente sono. Ad esempio, la produttività discorsiva delle audience e l’abilità di segui- re flussi transmediali sono oggi meglio “servite” dalle tecnologie e sicura- mente da esse incentivate, ma pensare che siano state da esse generate, oltre che ad incorrere in determinismo tecnologico, può indurre a fermarsi alla superficie dei fenomeni.

In sintesi, sono dell’opinione che molta parte della novità odierna risieda nella evidenza di fenomeni e caratteristiche che, nel vecchio sistema, pur a- vendo analoga imponenza quantitativa, potevano facilmente passare inosser- vati perché effimeri, nascosti, difficilmente documentabili. Come scrive Jen- kins: «If the work of media consumers was once silent and invisible, then new consumers are now noisy and public» (Jenkins 2006a: 18-19).

È anche vero, però, che l’innovazione tecnologica – dopo aver contri- buito a modificare radicalmente ed esponenzialmente il sistema delle co- municazioni e la percezione dell’ambiente nel corso del XIX secolo – è an- data incontro ad una ulteriore svolta radicale alla fine del XX, con le tecno- logie digitali. Ed è anche vero che, se il mondo dei vecchi media era il re- gno dell’interattività intransitiva (Chateau, 1990: 49; Jaquinot, 1993: 99- 111) – o, più propriamente, della cooperazione interpretativa – una sostan-

ziale novità è sicuramente data dal fatto che oggi le tecnologie sono effetti- vamente interattive. E che, quindi, mentre i vecchi “oggetti” culturali (libri, foto, pellicole, spartiti, incisioni) – mantenendo “fisicità” e “presenza” an- che quando polverosamente inattivi nelle loro teche (biblioteche, cineteche, fototeche, archivi e magazzini) −, sanno meglio “nascondere” il fatto di ri- manere “lettera morta” in ogni momento in cui non sono “processati” da un sistema “hardware/software” umano e (in quanto umano) sociale, le inno- vazioni dell’elettronica, dell’informatica, della telematica richiedono, inve- ce, in maniera percettibile e scoperta la cooperazione del consumatore- produttore per attualizzare le loro virtualità. Ed in più, grazie ad esse, è possibile intervenire transitivamente sui testi.

Inoltre, le produttività dei pubblici e delle audience, osservate nel lungo periodo, appaiono “da sempre” innervate nelle reti sociali, esercitandosi nelle e per le relazioni, connessioni, interazioni dei diversi livelli e tipi di aggregazione. Ma, in quella che Castells (2006) chiama l’affermazione del-

la mass self-communication, un sistema globale di reti di comunicazione orizzontale sembra finalmente accogliere lo scambio discorsivo, e funzio-

nare da momento organizzativo consentendo lo scambio multimodale di messaggi interattivi, sincroni e asincroni, many-to-many. Uno spazio co- municativo internazionale e multilingue, al quale Internet offre un’indi- spensabile piattaforma, ma che è composto anche da radio e stazioni tv lo- cali, gruppi indipendenti di produzione e distribuzione video, reti p2p, blog e podcast, che costituiscono un network interattivo variegato, che connette gli attori sociali fra loro e alla società, e agisce sull’intero universo delle manifestazioni culturali.

Per Jenkins (2006a), i cambiamenti emergono dalle interazioni tra “vec- chi” e “nuovi” media e tra produttori e consumatori. La convergenza è un processo più culturale che tecnologico: una logica che coinvolge il consu- matore in un gioco sempre più complesso e lo impegna su più canali di di- stribuzione, rispondendo tanto ai desideri dei conglomerati industriali – che sfruttano così le economie di scala e di scopo – quanto dalle esigenze degli

user di fruire dei propri contenuti nel momento, nel luogo e nella forma che

desiderano. Vecchio e nuovo, produzione e consumo lavorano talvolta in sinergia (come nella narrazione transmediale o nelle iniziative di branding), ma anche in opposizione (come quando i consumatori utilizzano nuovi ca- nali contro i conglomerati dei media).

Infine, come si diceva, le attività e le produttività dei pubblici e delle audience – la presa di parola, l’attitudine a tessere trame intertestuali, l’abilità di seguire flussi transmediali e di dare “realtà” ai mondi di finzio- ne, ad estenderli e ad addomesticarli con il «filo sottile della conversazio- ne» (Berger, 1969) – hanno, quanto meno, conquistato una visibilità e una

tracciabilità mai conosciute prima.

Filesharing, podcasting, cut’n’mix, beta testing, sottotitolazioni, plagi, parodie, mash up, modding, spinning, fan fiction, blog: non è necessario entrare nell’universo del fandom o del culture jamming per riscontrare que- sti comportamenti e accedere a questi contenuti. Basta entrare in Facebook, dove i materiali prodotti dalle industrie culturali vengono trattati come una “materia prima” da usare, rielaborare, modellare, come base di creazioni culturali e interazioni sociali: «i consumatori prendono i media nelle pro- prie mani, rielaborando il contenuto per servire i loro interessi personali e collettivi» (Jenkins e Green, 2008).

Fino al secolo scorso, nella pratica individuale e sociale della fruizione culturale, gli individui compulsavano gli attori della produzione alla replica, alla relazione, cercavano mezzi e opportunità di entrare nel loro mondo e/o nel “mondo possibile” da essi creato, collaboravano alla produzione prefigu- rando prodotti come “immagini interiori”. Ma, se volevano personalmente portare a compimento quell’oggetto che sentivano di possedere in forma an-

cora soggettiva, dovevano dedicarsi all’esercizio faticoso della penna, del-

l’apparecchio fotografico, della cinepresa, della performance artistica, ap- prenderne i linguaggi e le tecniche e, affrontando i disagevoli meandri della distribuzione, consegnarsi al mercato sperando di conquistarvi una qualche visibilità. Invece, in quelle che sono state chiamate culture partecipative (Jenkins et alii, 2005), una popolazione sempre più addestrata al digitale e alfabetizzata ai media si è appropriata strumenti una volta riservati ai profes- sionisti e ha fatto della rielaborazione di fotografie, video, musica, una prati- ca di routine. La remixability di contenuti multimediali, la possibilità di con- dividere le piattaforme per la distribuzione dei mezzi di comunicazione gras-

sroots e le reti sociali cresciute attorno ai media proprietari stanno ridise-

gnando aspettative del pubblico circa l’esperienza di intrattenimento. Le cul-

ture partecipative sono, quindi, caratterizzate da forme di aggregazione con

basse barriere per l’espressività artistica e il coinvolgimento e forti supporti per creare e condividere le proprie creazioni con altri.

I partecipanti possono sperimentare (e gli osservatori possono quindi notare) un notevole potenziamento delle potenzialità: «non tutti contribui- scono, ma tutti si considerano liberi di contribuire quando saranno pronti e sanno che quando contribuiranno saranno valutati» (Jenkins et alii, 2005).

La crescita delle possibilità partecipative aumenta il desiderio di parte- cipare, innestando un processo ricorsivo finalmente sostenuto e servito dal- le tecnologie. Gli individui formano – e divengono consapevoli di apparte- nere a – comunità di vario genere e con diverse finalità. Possono, se lo de- siderano, entrare a far parte di progetti collettivi di scambio delle informa- zioni e accrescimento della conoscenza o di collaborazione per la soluzione

di problemi non affrontabili singolarmente.

Il potenziamento non riguarda soltanto le possibilità creativo-espressive, ma attiene anche agli ambiti della visibilità sociale e della relazione, nei di- spositivi della mentorship informale e nella possibilità di percepire (anzi di

visualizzare e mostrare) le connessioni sociali e i loro gradi e l’importanza dei propri contributi personali agli occhi dei partecipanti alla comunità.

Un potenziamento che, infine, investe il campo delle remunerazioni esi-

stenziali che premiano il lavoro di consumo, e ripagano gli investimenti di

tempo e fatica che richiede, non solo con intense esperienze di intratteni-

mento, ma anche con consistenti premi sociali: l’appartenenza a una co-

munità, un ruolo ed una posizione al suo interno, la visibilità per sé e per gli altri di questa condizione.

Il tutto in un ambiente più accogliente e plasmabile del vecchio sistema analogico. Le culture partecipative crescono in un ecosistema generato dall’incrociarsi di tecnologie e strumenti vecchi e nuovi con il consolidasi e sedimentarsi della tradizionale “produttività” del consumo e dei consumatori e tendenze secolari alla concentrazione economica delle industria culturali in grandi conglomerati, con economie di varietà che favoriscono l’uso di molte- plici canali distributivi. Un ambiente che, forse, non istituisce atteggiamenti, comportamenti e abilità ma, sicuramente, li incentiva, li “traccia”, li potenzia, ne rende visibili e cumulabili i prodotti e, in definitiva, assicura loro continui- tà e permanenza e, quindi, basi di crescita e cambiamento.