Anche la nozione di resistenza ha una storia che affonda le radici nella ricerca europea degli anni Sessanta. È infatti, come è noto, uno dei concetti guida del Center of Contemporary Culture Studies (Cccs), nella molteplici- tà dei suoi oggetti di ricerca, almeno fino alla fine degli anni Settanta.
Nella descrizione operata dai Cultural Studies, la cultura dei media ten- de essenzialmente alla acculturazione, all’assimilazione e subordinazione dei soggetti sociali potenzialmente devianti o antagonisti, come i giovani, la classe operaia o le minoranze etniche. La scuola di Birmingham problema- tizza, però, il concetto di cultura e la elegge a luogo centrale della tensione fra meccanismi di dominazione e resistenza.
In The Uses of Literacy (1959) – libro precedente alla fondazione del Centro, avvenuta nel 1964 – il primo direttore e fondatore del Cccs, Ri- chard Hoggart, invitava a non sovrastimare l’influenza dei prodotti dell’in- dustria culturale sulla working class. Le influenze culturali hanno, infatti, un’azione lentissima e vengono sovente neutralizzate da forze più antiche. I prodotti culturali favoriti dalle classi popolari, inoltre, non ne rispecchiano la vita quotidiana che, d’altronde, è piuttosto resistente alle modificazioni indotte.
A partire da questi assunti, il Centro di Birminghan lavora prevalente- mente intorno alla definizione del concetto di cultura, come di quel proces- so globale attraverso il quale i significati sono socialmente e storicamente elaborati (Williams, 1961); all’incontro e lo scontro sociale fra culture e, infine, alle forme di resistenza espresse nelle comunità operaie alla cultura commerciale. In questo modo, i meccanismi selettivi già notati nelle ricer- che empiriche statunitensi fra gli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, si coniugano con la teoria della differenziazione sociale della Scuola di Chi- cago, per cui le società complesse sviluppano subculture, ovvero ambienti sociali in cui si condividono opinioni, atteggiamenti e modelli di azione che determinano, fra l’altro, anche l’orientamento ai media.
Gli “attrezzi” teorici sono nella nozione di autonomia relativa, ripresa da Althusser e, soprattutto, in tre fondamenti del pensiero di Antonio Gramsci: la nozione di ideologia, come sintesi del rapporto effettivo e di quello immaginario con le concrete condizioni di esistenza; quella di ege-
monia, come capacità di un gruppo sociale di esercitare sulla società la di-
rezione intellettuale e morale, di costruire nuovi sistemi di alleanze ed, infi- ne, la concezione della cultura popolare non come forma degradata di “cul- tura alta”, né come movimento autonomo, spontaneo – e, soprattutto, auto- maticamente oppositivo – proveniente dal basso, ma come il frutto di me- diazioni e di scambi; di assimilazione, trasformazione e ibridazione di ele-
menti della cultura dominante, della cultura “commerciale” e di fenomeni di resistenza e di protesta.
Nel 1973, Stuart S. Hall – subentrato nel 1968 alla direzione del Centro – pubblica “Encoding and Decoding in Television Discourse” nella rivista del Cccs, i «Working Papers in Cultural Studies» dove, l’anno precedente, era già apparso il testo del paper di Eco del 1965, con il titolo “Towards a Semiotic Inquiry into the Television Message”.
Nel celeberrimo articolo di Hall, la teorica illimitatezza delle possibilità di interpretazione trova i suoi confini tanto nelle caratteristiche testuali quanto nel contesto della lettura e nelle caratteristiche del lettore. In parti- colare, la lettura è orientata dalle condizioni materiali e sociali dei lettori, pur non essendo con esse in relazione meccanica. Lettura preferita, nego-
ziata e oppositiva riaggregano le categorie di Eco. In particolare, nell’ulti-
ma il lettore attiva volontariamente fenomeni di distorsione che incidono in maniera significativa fra le intenzioni della codifica e i processi di decodifi- ca, indicando una frattura netta (ideologica, politica, sociale) fra emittente e riceventi.
Nel tentativo di operazionalizzare – e testare empiricamente – il modello
encoding/decoding, i ricercatori di Birmingham sviluppano una grande in-
ventiva nella ricerca di metodi d’osservazione e comprensione dei pubblici reali. La ricerca pone, così, in rilievo ciò che al modello di Hall – centrato sulle questioni dell’interpretazione testuale – forzatamente sfuggiva: vale a dire l’importanza del contesto di fruizione ed il ruolo delle relazioni inter- personali e familiari nel strutturarlo.
Il Nationwide Project che inizia nel 1978, commissionato dal British Film Institute, pur essendo il primo studio che preveda una ethnography of
reading (Morley, 1981) è, però, ancora realizzato fuori dall’ambiente e dal
contesto di ricezione.
Agli inizi degli anni Ottanta, uno studioso tedesco, Herbert Bausinger, ed uno americano, James Lull, puntualizzano la necessità di studiare la fruizione televisiva nel contesto domestico. Bausinger (1984) nota come i media siano una parte integrante della vita quotidiana, anche quando non se ne stia fruendo. Il consumo di media è una pratica sociale e collettiva, che offre materiale per le conversazioni di ogni giorno entrando così nelle rela- zioni interpersonali. Le conversazioni sulla televisione diventano l’oggetto e lo strumento di alcune ricerche (Dahlgren, 1988).
Più o meno contemporaneamente, James Lull inaugura l’osservazione diretta del guardare la televisione in famiglia (Lull, 1982; 1988; 1990), e sposta l’attenzione sul fatto che molte necessità di tipo socio-psicologico possono essere assolte da un uso sociale e situazionale dei media, e che essi e la loro narrativa possono essere usati come risorse comunicative per le
famiglie, e per il loro strutturarsi in quanto tali.
In breve, famiglia, dimora, gruppo primario, sfera privata, appaiono an- cora una volta – come nelle veglie popolari e nella lettura collettiva delle prime forme di serialità letteraria, come nella costruzione della sfera pub-
blica letteraria di Habermas e nell’interieur borghese delineato da Benja-
min – in funzione di dispositivo socio-relazionale dell’elaborazione, del- l’appropriazione e dell’uso sociale della produzione culturale industriale.
In quella che verrà chiamata “svolta etnografica” (Moores, 1993), il fuoco si sposta definitivamente dal momento dell’interpretazione testuale verso il contesto in cui avviene. Questo comporta l’analisi particolareggiata della cultura quotidiana, sottolineando l’importanza delle “thick descrip- tion” (Geertz, 1973), dell’analisi degli aspetti rituali della cultura e della comunicazione (Carey, 1975) e delle pratiche attraverso le quali i significa- ti sono ri/prodotti nella vita quotidiana (de Certeau 1984).
Nel corso degli anni Ottanta, l’attenzione si centra sulla ricezione dei ge- neri popolari (situation comedy, soap opera, serie poliziesche) destinati a un pubblico ampio, sociodemograficamente eterogeneo. I generi mediali popo-
lari vengono studiati esaminando come le contraddizioni della vita e
dell’esperienza di uomini e donne di vasti strati sociali partecipino alla co- struzione di un senso comune popolare. L’attenzione al genere televisivo – come luogo privilegiato dell’incontro fra problematiche produttive e di pro- grammazione degli apparati e attività di decodifica e pluscodifica legate agli orizzonti di attesa dei telespettatori – fa emergere una specifica attenzione alla dimensione della fruizione di genere, che si consolida un vero e proprio filone di studi sul pubblico femminile, delle soap opera in particolare. Emer- ge, così, come la fruizione della radio e della televisione strutturino la giorna- ta, rappresentino un momento di evasione dalla ripetitività dei lavori dome- stici e forniscano alle donne “uno spazio per sé” all’interno della routine quo- tidiana. E come offrano, alle donne che sperimentano una situazione altri- menti isolata, la sensazione di una presenza sociale e contribuiscano a svi- luppare l’elaborazione di “un punto di vista femminile” nelle relazioni inter- personali (Hobson 1982, Brown 1990, 1994; Geraghty 1990, 1991).
Come ho detto, e come è noto, uno dei concetti chiave dei Cultural Stu-
dies è quello di subcultura. Lo studio delle subculture giovanili proletarie è
inaugurato da Phil Cohen in “Subcultural Conflict and Working Class Community” del 1972. Attraverso indicatori simbolici identificanti – musi- ca, abiti, gergo, rituali – le linee di fondo delle sottoculture (dai rocker agli skinhead) si chiariscono nella prospettiva di uno stesso futuro sociale e nel- la articolazione di una possibile presa di parola. L’elaborazione di uno stile
di vita esprime e risolve, anche se “magicamente”, le contraddizioni inne-
quanta, in particolare nell’East End londinese.
Veniamo così – anche passando per “The Style of the Mods” (1974), dove Dick Hebdige osserva come la negazione ritualizzata della domina- zione sociale possa svilupparsi con una adesione apparentemente entusiasta alle “cerimonie del consumo”, ma con una reinvenzione dell’uso delle mer-
ci – ai significati dello stile, che assegnano al consumo e alle sue modalità
la funzione essenziale di veicolare significati e valori di natura sociale e culturale. E appare, nell’ambito del consumo, la seconda forma di resisten-
za: dalla libertà di sfruttare l’ambiguità dei testi, alla pratica dei canali dell’antidisciplina nell’uso delle merci (De Certeau, 1980). Subculture: The Meaning of Style (Hebdige, 1979) – testo tra i più diffusi fra quelli prodotti
nell’ambito dei Cultural Studies, con Watching Dallas (Ang, 1985) – uti- lizza una miscela unica e agile di Althusser, Gramsci e della semiotica (nel- la versione di Barthes e della “Scuola di Praga”) per guardare al mondo del- le subculture giovanili. Per Hebdige, due termini gramsciani sono partico- larmente utili all’analisi delle subculture: congiuntura e specificità. Le for- me subculturali, in aggancio simbolico con il sistema della tarda industria culturale, sono organizzate intorno all’età e alla classe – pur non essendone interamente determinate – e vengono espresse nella creazione di stili che rimaneggiano, o ibridano, le immagini e i prodotti della cultura materiale disponibili. Tali stili – prodotti all’interno «di specifiche congiunture stori- che e culturali» – non devono essere letti, come suppone Cohen, semplice- mente come resistenza all’egemonia o come “soluzioni magiche” alle ten- sioni sociali, quanto piuttosto come uno sforzo di costruzione di identità in “autonomia relativa” rispetto a un ordine sociale frammentato in classi, dif- ferenze generazionali, di lavoro, di identità etnico/sociale. Nel suo lavoro successivo, Hiding in the Light (1988), Hebdige riprende il suo metodo, ammettendo però di aver sottovalutato il potere della cultura commerciale di appropriarsi, ed anche di produrre, stili contro-egemonici. Il punk, in par- ticolare, gli appare come una miscela unica di strategia culturale di avan- guardia, marketing indovinato e di trasgressione operaia, nata dall’accesso limitato ai mercati di consumo di una parte della gioventù britannica.
Il confine fra subcultura come resistenza e cultura commerciale – tanto fornitrice di piaceri, quanto strumento di egemonia – è in effetti molto diffici- le da marcare, particolarmente in tema di mercati giovanili. Difficoltà ancora più palesi nell’analisi delle subculture degli anni Novanta – come i goth e gli skinhead – e soprattutto in tutti quei gruppi – come trekky, fan del calcio e raver – dove la fanship, il marketing di nicchia e le subculture si fondono.
Dalla seconda metà degli anni Ottanta si apre, in Gran Bretagna, una nuova fase dei Cultural Studies. In una temperie politica marcata dal tha- tcherismo, il campo di studi si istituzionalizza, ed estende la sua sfera inter-
nazionale di legittimità culturale. A questo effetto contribuisce moltissimo l’enorme successo di Watching Dallas di Ien Ang (1985), studio che segna svolte importanti tanto per la nozione di realismo emozionale che costrui- sce, quanto per gli interrogativi che sviluppa sul piacere provato dai tele- spettatori nel guardare la soap. In alcune letture del celebre studio della Ang – in controtendenza e quasi per reazione a un periodo in cui, sull’onda
apocalittica di (più o meno spuria) derivazione francofortese, divertirsi si-
gnificava essere d’accordo (cfr. Horkheimer, Adorno, 1947: 154) − il pia-
cere che la televisione commerciale è capace di procurare allo spettatore
diviene il segnale delle qualità liberatorie ed emancipatrici della televisione commerciale, contro le logiche pedagogiche e paternalistiche del servizio pubblico basato sulla triade: educare, divertire, informare.
In breve tempo, le ipotesi nate intorno all’attività delle audience − dalla
libertà di produrre significati, a quella di gratificarsi negli usi, fino alla re- sistenza nelle pratiche del quotidiano − cominciano a dar luogo a letture
(una per tutte: «il consumo produttivo antagonista» di Fiske) che allarmano persino gli studiosi che originariamente le avevano formulate.
Blumler, Gurevitch e Katz (1985), mettono in guardia dal “gratificazioni- smo volgare” con il suo “imperialismo del pubblico”, e da ricerche sulla rice- zione che conducono alla sparizione del messaggio (esattamente speculare al «problem of the disappearing audience»; Fejes, 1984), invocando compara- zione cross-culturale e migliori legami fra livelli micro e macro di analisi.
Ien Ang risponde, nel 1994, alle accuse di neo-revisionismo sferrate da James Curran (1990) il quale – contro descrizioni dove «here are no domi- nant discourses, merely a semiotic democracy of pluralist voices» − aveva messo in luce una serie di limitazioni all’autonomia dell’active audience e la necessità di collegare il livello micro dell’analisi della ricezione con quello macro delle relazioni di potere (Curran, 1990: 151).
Ang, nella sua difesa, che è altresì un attacco alle posizioni più “estremi- ste”, imputa alle conseguenze della disseminazione di teorie ed approcci ve- nati, come quello di Fiske, da un “eccessivo romanticismo e populismo”, con esiti che talvolta sembrano sconfinare nella connivenza con le ideologie del libero mercato e della sovranità del consumatore, la dilagante impressione di un «unified and integrated global village, now as a space in which power is so evenly diffused that everybody is happily living ever after in a harmonious plurality of juxtaposed meanings and identities» (Ang, 1994: 169).
Con la confusione fra “il piacere ordinario” dei consumi televisivi e l’“ordinario della televisione commerciale” – come fanno notare Armand Mattelart e Erik Neveu in un articolo intitolato significativamente “Cultural Studies’Stories. La domestication d’une pensée sauvage?”, in un numero di «Reseaux» del 1996 interamente dedicato ai Cultural Studies – si profilano
forme di «acquiescenza o, quanto meno, neutralità della ricerca verso il processo di privatizzazione e deregolamentazione degli scenari audiovisivi, nel momento stesso in cui i Paesi della Comunità Europea intraprendono un lungo dibattito sulla “televisione senza frontiere” e si preoccupano della possibilità di una commercializzazione selvaggia all’italiana». Gli autori suggeriscono che vi sia stata, negli studi, una distribuzione troppo generosa della qualità di resistenza o, addirittura, di opposizione a insiemi di pratiche culturali che potrebbero essere lette altrimenti.
In breve, alla metà degli anni Novanta, si è giunti all’osservazione che «un’audience attiva è, come minimo, una tautologia», come scrive Silver- stone nel 1994. Il problema diviene, allora, cercare e trovare una nuova at- trezzatura teorica «to explain how capitalist modernity “imposes” itself in a context of formal “freedom” and “independence”. In other words, how are power relations organized in a global village where everybody is free and yet bounded?» (Ang 1994: 165).