Intorno alla metà degli anni Trenta, negli Stati Uniti nascono le tradizio- ni di ricerca strutturale e comportamentale ed ha, quindi, inizio quella che McQuail definisce la «riscoperta del pubblico come gruppo» (1997: 19). Il primo indirizzo risponde direttamente alle esigenze dell’industria dei me- dia, che mira soprattutto ad ottenere stime affidabili sulla dimensione quan- titativa delle audience e a conoscerne – sia pure a grandi linee – la compo- sizione e il rapporto con la struttura sociale della popolazione. Dati indi- spensabili per acquisire pubblicità. Il secondo si concentra sulle motivazio- ni e sulle scelte del pubblico dei nuovi mezzi di comunicazione. Nelle due tradizioni convivono diversi obiettivi, teorie e metodi, si riscontrano diffe- renze e analogie. Tra queste ultime, la predilezione per la quantificazione, la misurazione, i metodi statistici e la tendenza a un tipo di ricerca “ammi- nistrativa”, al servizio dell’industria privata (organizzazioni dei media, del- la pubblicità, del marketing) o di gruppi politici o di pressione.
Fra le differenze c’è, invece, l’orientamento più teorico della ricerca comportamentale, che utilizza il metodo sperimentale e ha uno spiccato in- teresse per le tecniche di misurazione degli atteggiamenti, delle emozioni e degli stati mentali. Obiettivo prioritario dell’analisi comportamentale è, in- fatti, conoscere come chi legge (vede, ascolta ecc.) un testo (un libro, un
programma televisivo, una pubblicità e così via) decide di cosa appropriar-
si di ciò che ha fruito, come ne interpreta i contenuti e ne ricava significati.
In generale, possiamo avvertire in questa tradizione una tendenza – che nel tempo è andata rafforzandosi − a considerare e a descrivere il fruitore come un soggetto attivo, capace di scegliere a cosa dedicare la propria at- tenzione e di graduare il proprio coinvolgimento. Un fruitore che utilizza i contenuti/significati iscritti nel testo e ne conserva, nel ricordo e nell’accet- tazione, solo la parte che comprende, valuta e recepisce sulla base di sche- mi cognitivi messi a punto nelle precedenti esperienze di soggetto sociale e fruitore culturale.
I primi e più semplici approcci di ricerca sul pubblico – grosso modo ascrivibili all’ambito strutturale – nascono dalle esigenze dell’industria dei media, che mira a ottenere stime attendibili sul numero dei radioascoltatori, o dei lettori rispetto alla diffusione o alla tiratura dei giornali, per regolare le trattative con gli inserzionisti pubblicitari. Il pubblico viene misurato an- che dal punto di vista delle preferenze, delle opinioni e delle reazioni, in modo da fornire alle organizzazioni dei media una sorta di feedback in for- ma rapida e comprensibile.
Oltre a questa dimensione quantitativa, è importante conoscere la com- posizione sociale dei pubblici. Tali esigenze danno origine a un’enorme in- dustria, funzionale ai bisogni del management di particolari media e con- nessa con la ricerca sui consumi, già messa in atto dalla pubblicità e dalla ricerca di mercato.
Si continua, pertanto, nel solco di un processo che si era già avviato tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, quando le advertising agency statuni- tensi iniziano a fare o a commissionare ricerche sui consumi iniziando, così, contemporaneamente a strutturare concettualmente una nuova tipologia di
pubblico, che McQuail (1997: 20) definisce: il pubblico come mercato.
Il metodo principale è il sondaggio su campioni composti da un aggre- gato di individui eterogenei che abbiano uguale rilievo, ovverosia classifi- cati in base a caratteri sociodemografici: individui di diversa provenienza, accomunati dalla fruizione degli stessi messaggi, non legati da attese con- divise, che non interagiscono tra loro. All’interno della Communication Re-
search, i dati ottenuti con l’approccio strutturale, con le sue tipiche metodo-
logie, sono spesso utilizzati in integrazione ad altri tipi di ricerche (ad e- sempio la costruzione di “tipologie” di spettatori, ascoltatori e lettori, della dinamica della fruizione in tempi diversi e tra differenti canali e tipi di con- tenuto). In questo modo si può – ad esempio – anche far luce sul rapporto tra consumo dei media e condizioni sociali.
La cosiddetta tradizione comportamentale nasce, come si è detto, intor- no alla metà degli anni Trenta, in ambito socio-psicologico. La linea di svi-
luppo di questa ricerca – nata sui radioascoltatori, sulla lettura, sui differen- ti generi mediali – è proseguita con molti studi sulla violenza nei mass me- dia e sul consumo di media da parte dei bambini.
Nel 1935 Gordon Allport e il suo collaboratore Hadley Cantril, psicolo- gi di Harvard trovando che la «radio revolution had caught social psycho- logists unprepared», propongono alla comunità scientifica di affrontarla de- scrivendo – a partire dal loro punto di vista disciplinare ‒ la mappa del «new mental world created by radio». In The Psychology of Radio, il media «preeminent as a means of social control, and epochal in its influence upon the mental horizons of men» viene esaminato minuziosamente nell’organiz- zazione degli apparati e nella composizione del pubblico, nel potere di in- fluenza, nelle tecniche di conduzione in relazione all’efficacia dei messaggi e alle differenti fruizioni, nelle novità presentate dall’ascolto rispetto alle modalità di fruizione caratteristiche della lettura.
A partire dagli anni Quaranta si affermano studi basati su ricerche spe- rimentali che mettono in luce una maggiore complessità della relazione tra emittente, messaggio e destinatario. Non tutto, infatti, può essere ridotto a un rapporto immediato e meccanicistico di stimolo e risposta. Le ricerche fondate sul paradigma cognitivo generale della psicologia (l’influenza di un soggetto su un organismo determina risposte che sono proporzionate alle differenze esistenti fra gli individui) dedicano molta attenzione alle variabi-
li intervenienti, non più considerate accidenti, ma meccanismi necessari al
funzionamento del processo comunicativo.
Carl Iver Hovland, durante la seconda guerra mondiale, svolge una serie di indagini per l’esercito statunitense, in seguito raccolte nel volume Expe-
riment in mass communication del 1949. In uno degli esperimenti, i militari
guardano uno dei filmati della serie Why We Fight, sette film sulla necessità dell’intervento degli Stati Uniti nella guerra, realizzati fra il 1942 e il 1945 dal Dipartimento della Guerra e supervisionati da Frank Capra. La rileva- zione delle opinioni fatta dopo cinque giorni la presentazione del film, non evidenzia alcun cambiamento nelle convinzioni dei soldati. Ma, dopo nove settimane dalla visione, i ricercatori possono osservare che coloro che han- no visto il film hanno modificato la loro opinione in favore dell’intervento, mentre i pareri di chi non ha assistito rimangono invariati. Questo effetto, che ha bisogno di un tempo di sedimentazione per manifestarsi, viene bat- tezzato sleeper effect.
Le ricerche di Hovland e del suo gruppo evidenziano, inoltre, che gli in- dividui presentano differenze apprezzabili nella struttura cognitiva – ele- mento questo che giustifica le differenze individuali nelle risposte fornite ai messaggi provenienti dai media – e come la risposta del pubblico ai mes- saggi mediali sia guidata da precisi e specifici atteggiamenti. In particolare,
si mette in evidenza come le differenze individuali di reazione ai messaggi dipendano non solo da variabili psicologiche, ma anche da differenze nel livello di istruzione. In altre parole, gli effetti di persuasione sono differen- ti, secondo il tipo di messaggio, in relazione al livello di istruzione del rice- vente. Messaggi assertivi, che fanno appello alla fiducia, funzionano me- glio per le persone poco scolarizzate, mentre i più istruiti prestano fede più facilmente a messaggi che argomentano i pro e i contro di situazioni e comportamenti.
Una prima sistematizzazione delle variabili che intervengono nella e- sposizione ai messaggi, e nella loro comprensione ed efficacia, è in un arti- colo dal titolo “Some Reasons Why the Information Campain Fails”, pub- blicato da Hyman e Shatsley in «The Public Opinion Quarterly» nel 1947. Gli individui – per esporsi ai media – devono avere innanzi tutto interesse ad acquisire informazioni. Essi si esporranno preferibilmente a messaggi che sono loro congeniali, per i quali sono predisposti ed ai quali sono sen- sibili, in una esposizione selettiva, provocata dalle attitudini esistenti. Inter- preteranno, quindi, i messaggi non sempre e non necessariamente in modo rispondente alle intenzioni dell’emittente (interpretazione selettiva). Infine memorizzeranno più facilmente gli argomenti e le informazioni con cui concordano e che trovano rispondenti ai propri orizzonti d’attesa (memoriz-
zazione selettiva).
Determinanti per il successo di un processo di comunicazione sono, i- noltre, i fattori legati al messaggio. Per produrre un mutamento di opinione significativo, esso deve provenire da una fonte credibile (Hovland, Weiss, 1951) – anche se questa componente è maggiormente significativa nel bre- ve termine (Kelman, Hovland, 1953) – ed essere argomentato in modo di- verso a seconda del pubblico a cui intende rivolgersi. A questo proposito, va verificato, ad esempio, se sia più opportuno presentare i diversi aspetti di un tema controverso, o soltanto quelli che preme sottolineare. O, ancora, se presentino maggiore efficacia persuasiva gli argomenti trattati all’inizio o alla fine della comunicazione.
Ancora nel 1947, Marie Jahoda ed Eunice Cooper, con “The evasion of propaganda: how prejudiced people respond to anti-prejudice propaganda”, pubblicato sul «Journal of Psychology», mettono in luce un fenomeno che chiamano derailment of understanding. Durante lo studio sulla ricezione di un cartoon antirazzista, Mr. Biggott, si evidenziano le strategie messe in at- to dai fruitori per difendersi da ciò che in seguito verrà definito dissonanza
cognitiva: vari percorsi di “cattiva comprensione”, tutti tesi a permettere
all’individuo di non cambiare la sua visione del mondo, pur facendovi rien- trare in qualche modo il contenuto del messaggio
Social Research fondato da Lazarsfeld nel 1941, il fruitore è considerato e
descritto come un soggetto attivo. È qui, anzi, che trova i suoi primi svilup- pi l’ipotesi che Elihu Katz battezzerà nei tardi anni Cinquanta come uses
and gratifications e che James Halloran compendierà nella famosa formula:
«we should ask not what the media does to people, but what people do to the media» (Halloran, 1970).
Già in Radio Research, nel 1942, Herta Herzog approfondisce i temi dell’ascolto diurno e femminile della radio in “Daytime Serials: Their Au- dience and Their Effect on Buying”, basato su un’indagine su un campione di 5000 donne, per indagare le abitudini di ascolto e gli effetti di tale ascol- to sull’acquisto e l’uso dei prodotti pubblicizzati nei programmi.
Qualche anno dopo, Majorie Fiske e Katherine Wolf intervistano 100 bambini sulle motivazioni che li inducono alla lettura di fumetti e sugli ef- fetti di tale lettura in relazione ai loro comportamenti, interessi e attitudini più generali, mentre Bernard Berelson intervista 60 persone sulle funzioni del giornale nella loro vita quotidiana, ricerca effettuata in occasione dello sciopero della stampa di New York, nel 1945. “The Children Talk About Comics”, 1946; e “What Missing the Newspaper Means - Newspaper Strike Study”, 1946, saranno pubblicati poi nella raccolta di Lazarsfeld e Stanton (1949), Communications Research. 1948-49.