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Secondo McQuail (1997: 15) la prima formulazione teorica del concetto di pubblico nelle scienze sociali si ha con la nascita del cinema e con la di- stribuzione cinematografica, quando cioè il pubblico si concentra in uno stesso luogo – in apparente continuità con le modalità teatrali – ma non può interagire con l’oggetto della sua attenzione. Differenza ancor più sostan- ziale sta nel fatto che milioni di persone – disseminate nello spazio e in tempi diversi – possono assistere ad uno spettacolo sempre ed ovunque i-

dentico.

Il cinema, perciò, riproduce soltanto illusoriamente la localizzazione dello spettacolo dal vivo, perché prosegue invece il fenomeno di disaggre- gazione spaziale e temporale iniziata con il libro a stampa. La possibilità di un singolo individuo di ripetere la medesima esperienza infinite volte, nella consapevolezza di condividerla con altri individui, ancorché sconosciuti e lontani nello spazio e nel tempo, ha infatti già inaugurato, come si è breve- mente detto, una concezione del pubblico come «insieme di individui che scelgono diversi testi» (McQuail, 1997:14).

Il cinematografo, come il libro, riunisce intorno a sé, un pubblico affe- zionato al medium, che opera scelte diversificate per preferenze (a loro vol- ta relative a differenze individuali e sociali). In questa nuova nozione, se- condo Jowett e Linton (1980: 29), gli spettatori «benché composti da indi- vidui unici» «sono raggruppati in “pubblici” diversi», identificati quasi

sempre con l’immagine semplificata che di essi hanno i produttori e i film maker, e ripresa poi in molti studi sulla ricezione.

I mezzi che consentono allo spazio di separarsi dal luogo, inteso come località fisica e reale, conducono a quell’«enuclearsi dei rapporti sociali dai contesti locali di interazione e il loro ristrutturarsi attraverso archi di spa- zio-tempo indefiniti» che forma la sostanza del disembedding che, secondo Giddens (1990), è alle radici della globalizzazione. L’avvento della simul-

taneità despazializzata della radio (Thompson, 1995) paradossalmente ri-

costruisce una nozione di pubblico molto simile all’aggregato indistinto e deindividualizzato dello spettacolo dal vivo. Ma, l’indifferenza del luogo (non è più possibile localizzare il pubblico) accentua la caratteristica ideal- tipica astratta (basata su dati e cifre) e “immaginaria” delle descrizioni su cui si basano le “presupposizioni” degli emittenti. In mancanza del mercato come luogo di incontro della domanda e dell’offerta e tradizionalmente luogo di feed back del gradimento dei pubblici per i prodotti (culturali e non), gli strumenti messi a punto dalle agenzie pubblicitarie per identificare e colpire i bersagli dei potenziali consumatori sembrano essere ormai fra gli scarsi dispositivi capaci di descrivere un pubblico che – nella dimensione casalinga e dispersa, seppur nella simultaneità, della fruizione quotidiana – rimane invisibile tanto agli emittenti e agli investitori pubblicitari, quanto agli studiosi e ai ricercatori.

Viene concettualizzato un nuovo tipo di pubblico, il pubblico di massa, che non sembra lo sviluppo di una forma antica, ma l’invenzione sociale di una nuova variante che soppianta il “pubblico” di un tempo, mutuandone il nome.

La prima formulazione teorica relativa a questa nuova formazione la troviamo, come è noto, nella Chicago School, scaturita dalla riflessione sul- la natura della vita collettiva nella società moderna di Robert Ezra Park, au- tore di una dissertazione per il dottorato (Masse und Publikum ) preparata ad Heidelberg, interessato allo studio delle forze che favoriscono l’ordine o il disordine sociale, ed influenzato dagli studi europei sul comportamento della folla.

Herbert Blumer adotta, poi, la specificazione di massa per qualificare la nuova forma-pubblico. La massa emerge nella riflessione di Blumer (1936; 1946) come «un nuovo tipo di formazione sociale della società moderna» contrapposta ad altri aggregati, come il gruppo, la folla e il pubblico. Il nuovo pubblico cinematografico e radiofonico presenta caratteristiche non riconducibili ai tre aggregati precedenti e viene, pertanto, definito come una formazione del tutto peculiare. La nozione contempla l’esistenza di un nu- mero enorme di potenziali destinatari, ma ha connotazioni di tipo più quali-

Quando Blumer lo raccoglie, il concetto di massa emerge dalle descri- zioni – come quelle di Simmel, di Freud (sulla scorta di quanto Le Bon a- veva osservato sulla folla) o di Ortega y Gasset – come una nuova entità, disaggregata proprio a causa della sua grandezza ed eterogeneità, priva di autocoscienza, d’identità e regole, caratterizzata da una composizione flut- tuante entro confini instabili. Gli individui che la compongono sono isolati, anonimi, distaccati, atomizzati e, in quanto tali, facili prede della comuni-

cazione persuasiva. Il loro isolamento non è solo fisico e spaziale. Blumer

sottolinea che gli individui, in quanto componenti della massa, sono “sradi- cati” dall’ambito dell’esperienza diretta ed esposti a messaggi, contenuti e valori che si riferiscono ad universi di significato e di valore differenti da quelli espressi dal gruppo e dall’ambito di appartenenza individuale. La stessa l’appartenenza alla massa orienta questi individui lontano dalle loro sfere culturali e di vita, verso aree non strutturate da modelli e aspettative socialmente consolidati.

Coloro che compongono una massa, non si conoscono tra loro e intrat- tengono rapporti impersonali, così come impersonali sono anche i rapporti nel processo comunicativo di cui questo pubblico è l’ideale terminale: la

comunicazione di massa. La cui descrizione schematica contempla un emit-

tente che non conosce – se non indirettamente – i suoi destinatari e una tec- nologia di distribuzione (mass medium) non predisposta per consentire un’interazione. Il rapporto comunicativo è – oltre che impersonale – frutto di un processo industriale e di un calcolo economico. Inoltre, c’è spesso una grande distanza sociale tra il pubblico di massa e una fonte più potente, esperta o prestigiosa; si tratta, cioè, di un rapporto asimmetrico. Tale de- scrizione di pubblico di massa, come moltitudine indifferenziata di destina- tari, porta con sé la sottintesa e implicita presunzione che individui separati e lontani reagiscano in modi simili a stimoli simili, tanto che la loro aggre- gazione in pubblico sembra poter essere “agita” dall’emittente.

Nel lungo dibattito sul termine massa, nell’accezione in cui viene utiliz- zato negli studi comunicativi, Raymond Williams (1961: 289, cit. da McQuail) ha sottolineato: «There are no masses, only ways of seeing

people as masses». È, infatti, un particolare “punto di vista” – quello dell’e-

mittente dei messaggi, o di un osservatore che ne adotti uno simile – ad eti- chettare come massa i destinatari dei messaggi, ignorando le caratteristiche o le circostanze che possono rendere diversi i comportamenti, le reazioni, le interpretazioni dei diversi soggetti.

Gli usi, le connotazioni e la fortuna del concetto di “pubblico di massa” vanno opportunamente inquadrati e chiariti in uno scenario storico domina- to, soprattutto al livello di clima d’opinione, da preoccupazioni riguardanti l’uso degli strumenti e degli apparati comunicativi ai fini della propaganda.

Le pubblicazioni che richiamano l’attenzione sui fattori retorici e psicologi- ci usati dalla propaganda sono numerose. Una delle più famose è quella, del 1939, del russo Serge Tchakhotine, dal titolo fortemente indicativo del con- tenuto – Le Viol des foules par la propagande politique – che, dedicata dall’autore a Pavlov, può essere considerata la summa delle conoscenze in materia.

Nel primo dopoguerra, l’opinione comune è che la disfatta delle truppe tedesche sia prevalentemente frutto della propaganda alleata. E, in effetti, durante la prima guerra mondiale, gli apparati propagandistici di tutte le nazioni in lotta hanno lavorato a pieno regime. Negli Stati Uniti, in partico- lare, il Committee on Public Information, presieduto da George Creel si di- stingue per organizzazione, capillarità, produttività: il famoso manifesto

Uncle Sam Wants You per promuovere l’arruolamento, i 75.000 oratori – i Four Minutes Man – per i discorsi patriottici nei cinema e nelle scuole e,

nel 1918, «The Stars end Stripes», quotidiano per le truppe, che conoscerà una ulteriore serie durante la seconda guerra mondiale.

Reduce dalla conferenza di Versailles (1919) – cui ha partecipato in veste di collaboratore del presidente Thomas Woodrow Wilson – Walter Lip- pmann pubblica Public Opinion, in cui le migliaia di “veline” sfornate dal

Committee on Public Information, e i resoconti giornalistici della stampa Usa

sulla prima guerra mondiale, rappresentano lo spunto per una riflessione sulla funzione della stampa e sulla sua pretesa di incarnare l’opinione pubblica.

Lippmann formula l’ipotesi che gli individui agiscano in conseguenza di ciò che essi ritengono reale a partire dalle descrizioni provenienti dalla stampa. L’individuo sarebbe, quindi “dipendente” dall’informazione, in quanto esperienze come una guerra, una trattativa di pace, la creazione di un nuovo governo o l’azione dello stesso governo, risultano difficilmente esperibili in prima persona dalla maggior parte dei cittadini e necessitano pertanto, per essere comprese, di una mediazione. Di conseguenza, la vi- sione individuale e sociale della realtà sono influenzate da fenomeni di di- storsione involontaria causati da fattori, peraltro difficilmente controllabili, interni al lavoro giornalistico. Secondo Lippman, inoltre, i progressi delle ricerche psicologiche e il crescere del potere dei mezzi di comunicazione creano le condizioni per la fabbricazione del consenso: «le democrazie hanno costruito un mistero sull’opinione pubblica. Vi sono abili organizza- tori dell’opinione che comprendono assai bene questo mistero per creare le maggioranze il giorno delle elezioni».

Si è soliti far iniziare gli studi sulle comunicazioni di massa con la pub- blicazione del libro di Harold Dwight Lasswell, Propaganda Technique in

the World War, del 1927. Il volume, che affronta dal punto di vista medio-

indispensabili – su tutti e due i fronti – per la gestione governativa delle o-

pinioni, raccoglie riflessioni e analisi di studiosi in realtà molto differenti

fra loro e provenienti da ambiti disciplinari disparati, ma accomunati dall’attenzione al tema degli effetti delle comunicazioni di massa. Per Las- swell, la propaganda costituisce l’unico mezzo – alternativo e più conve- niente rispetto alla violenza, la corruzione o ad altre tecniche analoghe – per ottenere il consenso delle masse. Essa è uno strumento che – né più e né meno di una «leva della pompa dell’acqua» – può essere utilizzato per fini buoni o cattivi.

Dietro a questa concezione ci sono molti dei riferimenti culturali che ri- troviamo in tutto il primo periodo di studi sulle comunicazioni, alcuni dei quali abbiamo già incontrato nel rievocare le “origini” della nozione di mas-

sa: la psicologia delle folle di Le Bon; le teorie sul condizionamento del rus-

so Ivan P. Pavlov; gli studi del britannico William McDougall, dedicati all’e- nucleazione di forze (impulsi originari, o istinti biologici) capaci di spiegare efficacemente tanto le azioni degli uomini, quanto quelle degli animali; e, in particolare, la teoria dell’azione elaborata dalla psicologia behaviorista, in- trodotta fin dal 1914 da John B. Watson, dove – nella complessa relazione tra organismo e ambiente – l’elemento cruciale è rappresentato da stimoli, com- prendenti gli oggetti e le condizioni esterne al soggetto, che producono ne- cessariamente “risposte” nel soggetto stesso. L’unità stimolo/risposta sta alla base di ogni forma di comportamento: stimoli che non producono risposte non sono stimoli, una risposta proviene necessariamente da uno stimolo, poi- ché non esiste un effetto senza causa. La stretta relazione tra risposta e stimo- lo rende possibile definire l’una nei termini dell’altro. È lo schema che sotto- stà a quella che più tardi sarà chiamata la teoria dell’ago ipodermico, locu- zione creata a partire dall’injection che Lasswell ipotizza per indicare le mo- dalità di impatto dei media sugli individui.

Durante gli anni Trenta regimi, come fascismo e nazismo da una parte, e stalinismo dall’altra, fanno un largo e diversificato uso di strategie propa- gandistiche. Negli USA Roosevelt usa la radio per le fireside chat, mentre le inchieste di Gallup, Roper e Crossley divengono strumenti per la gestio- ne quotidiana della cosa pubblica.

Nel 1937, l’American Association for Public Opinion Research (AAPOR) pubblica «The Public Opinion Quarterly». Opinione pubblica e strumenti e apparati della comunicazione cominciano ed essere messi sistematicamente in correlazione.

Il nome di Lasswell, oltre che alla nascita degli studi sulle comunica- zioni di massa, è legato a uno “schema” lineare della comunicazione ela- borato nel 1948, il celeberrimo: «Who says what, to whom, in what chan-

Coerentemente con la convinzione che la comunicazione possa e debba essere uno strumento per plasmare la pubblica opinione, e con l’adozione del modello stimolo-risposta, nello schema compare l’effetto come una componente del processo comunicativo. L’effetto, come unica “risposta” possibile al destinatario, esiste unicamente in quanto prodotto dell’azione dell’emittente, ed è legato esclusivamente all’ambito comportamentale e osservabile. Riguarda, in altre parole, un cambiamento, una modifica di abitudini, atteggiamenti, opinioni ecc. Esso è, inoltre, in rapporto diretto e coerente con il contenuto del messaggio. Ciò giustifica e incoraggia l’uso dell’analisi del contenuto, tanto come strumento per desumere gli scopi de- gli emittenti, quanto per prevedere gli effetti sui destinatari.

Ma non è soltanto l’uso “persuasivo” degli strumenti e degli apparati della comunicazione da parte della propaganda politica a guidare gli inte- ressi e le attenzioni della ricerca.

Gli effetti dei nuovi mezzi di comunicazione su soggetti deboli e in- fluenzabili sono l’oggetto dei Payne Fund Studies (13 ricerche nell’arco temporale dal 1929 al 1932), che affrontano gli effetti dei film nei soggetti in età adolescenziale, su aspetti quali gli atteggiamenti verso la violenza e il comportamento deviante, le conoscenze delle culture straniere, i modelli di svago e di divertimento. Gli effetti presupposti – e quindi indagati – riguar- dano gli stati emotivi, i comportamenti e le conoscenze, il rendimento sco- lastico, gli atteggiamenti aggressivi o devianti, le alterazioni fisiologiche come la perdita del sonno. Visti a distanza, i Payne Fund Studies mostrano problemi di metodo: «lack of control groups, problems in sampling, short- comings in measurement, and other difficulties that placed technical limita- tions on their conclusions» (Lowery, De Fleur, 1995: 382). Ma, all’epoca, confermano a livello scientifico paure diffuse nell’opinione pubblica sull’influenza negativa della frequenza settimanale dei bambini alle Satur-

day matinee nei cinema di quartiere.

Un altro elemento di inquietudine è rappresentato dalla presunta capaci- tà dei nuovi mezzi di comunicazione di azzerare il funzionamento della “ca- pacità critica” negli ascoltatori. La radio, per le sue caratteristiche di novità, per la sua “ubiquità”, per l’assenza di filtri e di soglie d’accesso, sembra un perfetto prototipo di powerful media. La sua capacità “ipnotica” è portata in piena luce dall’episodio della Guerra dei mondi di Orson Welles (1938). Come è noto, durante la riduzione radiofonica del libro di Wells (1897), la drammatizzazione dell’annuncio che gli extraterrestri hanno appena invaso la Terra, provoca reazioni di panico fra i circa sei milioni di ascoltatori del- la CBS. Circa un milione e settecentomila fra essi interpretano la trasmis- sione come un notiziario informativo. Tra loro, circa un milione e duecen- tomila persone cedono al terrore, cosa che provoca la formazione di lunghe

colonne di auto in fuga dalla città. La CBS, costretta a risarcire i danni, guadagna ascolti, Welles ottiene un’immediata notorietà e la Campbell, che sponsorizza la trasmissione, registra un considerevole aumento delle vendi- te. Alla Princeton University, Hadley Cantril, Hazel Gaudet e Herta Her- zog, si dedicano allo studio del fenomeno. Ne nasce The invasion from

Mars. A study in the psychology of panic, pubblicato nel 1940 dalla Prince-

ton University Press.