Giochi con la clessidra
6. Modelli economic
Si è detto che le canzoni sono diffuse tramite la stampa quotidiana e pe- riodica e commercializzate in diversi formati editoriali. Ma che – per dive- nire veramente “popolari” – devono essere eseguite: ripetutamente, conti- nuamente, in occasioni differenti. In questa importante fase, trovano spazio figure di esecutori estremamente differenziate: divi ed étoile del café-
chantant, tenori di grazia, posteggiatori da ristorante, compagnie di girova-
ghi, signorine al pianoforte nei salotti.
In breve, in quanto inseparabile dall’atto del produrre, l’esecuzione ca- nora (prima dell’“epoca della sua riproducibilità tecnica”) sottrae la canzo- ne, almeno in parte, allo stato di merce e alle leggi della sua sfera, ed è scarsamente suscettibile di processi di razionalizzazione e ottimizzazione.
Quando, agli inizi del Novecento, i dischi e gli apparecchi di riprodu- zione arrivano sul mercato, sono rari e costosi. Una delle prime tre industrie discografiche italiane nasce a Napoli: è la Società Fonografica Napoletana (dal 1911 Phonotype, con tale sigla ancor oggi presente sul mercato). Il suo fiore all’occhiello è la voce del tenore Fernando De Lucia, che incide alcu- ne tra le principali pagine della letteratura musicale napoletana: da Voce ‘e
notte a ‘O sole mio, da Funiculì funiculà a Torna a Surriento. Alcuni anni
dopo, nel 1911, Massimo Waber, agente a Napoli della Polyphon Musik-
werke di Wahren, non lontano da Lipsia, promuove ed attua l’insediamento
in città di un satellite della grande casa tedesca. La Polyphon – diretta da Ferdinando Russo – ingaggia i migliori autori napoletani e offre loro con- tratti mensili e annuali in cambio di una produzione costante di canzoni. Fra loro Salvatore Di Giacomo, che trova “logorante” la consegna mensile della canzone, seppure in cambio di uno stipendio che gli consente di vivere a- giatamente. Nel 1914, mentre all’orizzonte si profila la guerra, la Polyphon smantella la sua organizzazione.
Quando, infine, gli apparecchi di riproduzione del suono e i dischi di- vengono sufficientemente diffusi ed economici, il sistema industriale napo- letano è troppo indebolito per approfittarne.
Che il prodotto canzone sia promettente da un punto di vista discografi- co, lo si può evincere dalla sua fortuna negli USA. Enrico Caruso, che dal 1904 al 1920 incide con la statunitense Victor, nel 1909 registra una serie di canzoni napoletane, tra cui Core ‘ngrato, ‘O sole mio e ‘A vucchella, che diventano successi mondiali, e veri inni italiani per gli emigranti nel mon- do. Nonché fonte inesausta di profitti. La RCA Victor, agli inizi degli anni Cinquanta, le ristampa su 45 giri, nella serie Red Seal, insieme a una sele- zione di canzoni napoletane cantate da Mario Lanza. Più recentemente sono state rieditate in digitale, ed ora pescano nella long tail, aggiungendo qual-
che goccia nel mare dei profitti SonyBMG, acquistabili su iTunes Store, scaricabili su pc o iPod, al modico prezzo di 0,99 centesimi ciascuna.
Nel primo dopoguerra (quando il centro dell’economia-mondo si sposta fuori del Vecchio Continente), i linguaggi della canzone hanno ancora forza espansiva, ma gli apparati produttivi non hanno la forza e la capacità di tes- sere legami con il nuovo centro, di stabilirvi relazioni e alleanze, di attirar- ne l’attenzione e i capitali. Qualche tentativo in questo senso viene fatto. Intorno agli anni Venti, ad esempio, i fratelli Esposito, proprietari della
Phonotype completano la filiera con due case editrici: Marechiaro e Santa Lucia. La Santa Lucia, in particolare, nasce per il mercato americano e con
l’apporto di capitali da parte di un “socio americano” (o, meglio italo-ame- ricano): Antonio De Martino. Alla casa editrice i tre affiancano una nuova etichetta discografica: Klarophone Record Company, ma il loro mercato sembra limitarsi agli ambienti dell’emigrazione italiana a New York.
La crisi dell’industria culturale napoletana è sicuramente da ascrivere al- la scarsità dei capitali e/o degli investimenti locali nel sistema produttivo e alla mancata sintesi fra le diverse economie e le diverse parti del Paese, ma partecipa anche della complessiva crisi Europea, del suo sistema industriale e delle sue industrie culturali. Se l’Europa perde rapidissimamente terreno rispetto al rigoglio delle industrie culturali statunitensi, l’Italia vi rappresen- ta già un settore semiperiferico e la vecchia capitale del Regno delle due Sicilie, mentre stenta a trovare raccordi nel tessuto economico nazionale, perde molti dei suoi legami europei
Il primo dopoguerra segna, inoltre, l’intensificarsi delle dinamiche di concentrazione delle industrie culturali europee e statunitensi, il che com- porta notevoli cambiamenti produttivi. Se il “centro del mondo” si è sposta- to, il fulcro della produzione musicale è cambiato non solo geograficamen- te. La concentrazione tesse fili transnazionali fra USA ed Europa, e riunisce compagnie discografiche, radiofoniche e cinematografiche, che integrano le proprie strategie. Ed allora, mentre il cinema si sonorizza, il vecchio, tradi- zionale rapporto tra editore, interprete e canzone entra in un sistema ben più complesso combina disco, film e radio. Il consumo di musica leggera av- viene nell’ambito di un sistema produttivo sempre più sofisticato, controlla- to da un numero esiguo di grandi compagnie, che detengono la proprietà dei mezzi di produzione e di distribuzione del disco, lavorano sul lancio della star, sulla promozione delle esecuzioni e degli spettacoli. Tutta la pro- duzione europea che non riesce ad entrare in questo tipo di dinamiche è progressivamente destinata alla marginalità, e quella italiana, e a maggior ragione napoletana, ne sono quasi completamente escluse.
Non che a Napoli – seppure esclusivamente sul piano locale – le tattiche di reciproco sostegno e di sinergia fra industrie culturali differenti non sia-
no state attivate. Anzi: giornalismo, editoria, illustrazione, spettacolo dal vivo, cinema, editoria musicale della canzone cooperano tutti attivamente. È, ad esempio, proprio l’interdipendenza con la canzone a conferire al ci- nema napoletano le peculiarità che lo distinguono da quello torinese e ro- mano, prevalentemente dediti al kolossal in costume, che avrà nel dannun- ziano Cabiria (distribuito dal napoletano Lombardo) il suo culmine. La produzione cinematografica napoletana è tutta inscritta in una tradizione che aveva maturato i sui generi ed i suoi stereotipi nel teatro e nella canzo- ne e si intreccia con essi. Il cinema muto (che, come è noto, veniva accom- pagnato con musica dal vivo, un po’ per coprire il rumore del proiettore, un po’ per non lasciare lo spettatore “solo” nel silenzio e nel buio della sala) si sposa straordinariamente bene con le canzoni e le sceneggia, dando modo ai cantanti di sincronizzarsi ai ritmi ed accordarsi “dal vivo” ai temi del film. Il cinema ai suoi primi passi raramente rappresenta uno spettacolo au- tonomo, e viene solitamente introdotto e inframmezzato da numeri dal vi- vo. A Napoli – intorno al 1910 – nasce il cinema chantant, sorta di café
chantant a costo ridotto, con il cantante e la canzonettista che si alternavano
a brani filmati anziché ai soliti nani, equilibristi, comici e fantasisti, così come usualmente accadeva in ogni music hall. L’avvento del sonoro scar- dina questo tipo di organizzazione e comporta la ristrutturazione non solo tecnica di tutto il sistema produttivo napoletano.
L’industria culturale napoletana miniaturizza, insomma, un sistema coe- rente e sinergico che, però, appare ostinatamente chiuso in se stesso.
E, in breve, nella progressiva marginalizzazione delle industrie culturali europee ed italiane, quelle napoletane non riescono ad affrontare la crisi e, quasi tutte, scompaiono. In parte perché troppo legate al loro “localismo” e a una pratica di segmentazione e frammentazione in piccole e piccolissime imprese, in un momento in cui la regola diviene quella della concentrazione transmediale e transnazionale. In parte per la posizione periferica delle re- gioni meridionali in un’area già semi-periferica come il Regno d’Italia. In parte, infine, per la debolezza – anche culturale – dei ceti imprenditoriali che non riescono a tessere legami con i nuovi centri del potere economico.
Anzi, il segmento delle canzoni, nel quale alcuni editori riescono a so- pravvivere ed a continuare a produrre fino a saldare le Piedigrotta con i Fe- stival della canzone napoletana (1952-1971), rappresenta una fortunata a- nomalia rispetto, ad esempio, alla generale falcidie avvenuta nel cinema napoletano durante il ventennio fascista (con la notevole eccezione di Lombardo che, però, già nei primi anni Venti si trasferisce a Roma, dove nel 1929 diviene Titanus).
Ma torniamo all’ultimo ventennio del XIX secolo, e al problema posto all’editoria musicale della canzone dal fatto di dover promuovere il proprio
prodotto – lo spartito, nelle sue diversi vesti editoriali – e piazzarlo in un mercato quanto più ampio possibile, avendo come unico mezzo di promo- zione/diffusione l’esecuzione dal vivo. In breve, di dover promuovere il proprio prodotto su un mercato, per realizzare profitti su un altro.
A ben vedere, questa è una condizione “strutturale” della produzione musicale (in particolare per la “musica leggera”). Forza e debolezza dei suoi comparti industriali sono, infatti, proprio nel loro innervarsi in ogni forma di produzione culturale: dallo spettacolo dal vivo, al cinema sonoro, dalla radio alla televisione, alla multimedialità on e off line. Così, mentre sostanziano di contenuti questi settori, nello stesso tempo ne dipendono considerevolmente nei profitti, potendo contare relativamente poco su un mercato autonomo, come le frequenti “crisi del disco”, fino all’ultima lega- ta alla rivoluzione della “musica liquida”, stanno ampiamente a mostrare.
Tornando al tema, è ovvio, e da quanto esposto appare evidente, che questa condizione spinga gli editori napoletani (oltre che alla sovrapprodu- zione: i profitti della maggior parte delle canzoni, quelle, cioè, che hanno successo effimero, sono prevalentemente legati al momento del lancio), a votarsi ad una straordinaria creatività nella ricerca di fonti di profitto alter- native e/o complementari. Una delle quali è, come meglio dirò in seguito, il finanziamento pubblicitario.
Altrettanto ovvio che essi cerchino indefessamente di mantenere il con- trollo economico sulle esecuzioni dal vivo, anche se, nonostante i numerosi sforzi associativi fra editori, autori, impresari e proprietari dei teatri, l’eva- sione dei diritti rimane un problema endemico.
Il problema del controllo della produzione sui modi e le forme del con- sumo è un problema sotteso a tutto il lavoro delle organizzazioni editoriali. Vi sono, ad esempio, tentativi di mantenere il controllo qualitativo delle e- secuzioni. Gli editori sono soliti stabilire accordi con determinati interpreti, ritenuti più idonei alle caratteristiche dei brani, o più in voga al momento, per situazioni e occasioni particolari e importanti: Piedigrotta, audizioni, mattinate, pubbliche manifestazioni. In alcuni casi, i direttori artistici delle case editrici indicono selezioni di interpreti, alle quali fanno seguito anche brevi corsi tenuti da maestri di canto. Ma, anche controllando quantità, qua- lità, tempi di uscita, pubblicazione, promozione delle canzoni e, quindi, in- direttamente scandendo e condizionando alcune attività degli interpreti, il controllo dell’editoria sulla diffusione e il consumo delle canzoni rimane estremamente imperfetto.
L’estrema segmentazione e la profusione dell’offerta, l’innesto profondo del sistema produttivo e distributivo nelle tradizionali economie e stratifi- cazioni cittadine (vale a dire il fatto che esso comprenda l’economia del vi- colo e i grandi agenti teatrali internazionali; il piccolo tipografo e la Poly-
phon di Lipsia), il carattere caotico del sistema di diffusione – ricco di scar-
ti, differenze, devianze, originalità individuali, influenze relative a diversi ambienti e strati sociali –, e le modalità esecutive differenziate per stratifi- cazione sociale, occasioni e luoghi di esecuzione, limitano le possibilità di “controllo” editoriale.
Fattori che non assicurano agli editori che producono canzoni profitti commisurati alla diffusione e alla notorietà dei prodotti. Questi sono, infat- ti, prevalentemente legati a un mercato, quello dei prodotti a stampa, circo- scritto agli operatori del settore musicale e dello spettacolo dal vivo ed a quei privati consumatori abbastanza colti e benestanti da comprare (ed usa-
re) spartiti, album, copielle, riviste. Ma che, d’altro canto, sicuramente con-
tribuiscono a conferire alla canzone napoletana i caratteri che ne fanno un
unicum nella produzione musicale industriale.