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Secondo Smythe, il lavoro degli individui aggregati nelle audience con- siste nel creare una domanda di beni imparando a consumare (1981: 39- 40). C’è, in questa affermazione, un uso del termine lavoro come di attività che produce valore. Imparare a comprare beni è, in definitiva, un’attività

produttiva poiché – in senso analogo a quello della definizione di Adam

Smith – aggiunge valore alla merce audience.

Possiamo collocare anche la distinzione che John Fiske propone per le industrie culturali e, nello specifico, per la televisione, fra economia finan-

ziaria ed economia culturale nella bipartizione operata da Smith (1776) fra

attività che aggiungono valore all’oggetto sul quale si esercitano e quelle che, al contrario, sono improduttive.

In Television Culture, per chiarire la distinzione fra le due “economie”, Fiske indica come “esempio classico” quello di Hill Street Blues, serie tele- visiva prodotta dalla MTM Enterprises. Nell’ambito dell’economia finan-

ziaria televisiva possiamo distinguere due “sub-economie”: MTM produce

la serie e la vende per la distribuzione alla CBS. In questa fase, Hill Street

Blues rappresenta una merce. Nel momento in cui, però, la CBS vende la

sua audience alla Mercedes Benz, che sponsorizza la serie, Hill Street Blues non è più una merce ma un fattore di produzione, perché serve a produrre merce audience. Nella terza economia individuata da Fiske – l’economia

culturale – è l’audience a mutare il suo ruolo da quello di merce a quello di produttore: di significati e di pleasure. Fra le economie finanziaria e cultu-

rale non esiste una distanza tale da separarle definitivamente; la seconda ha, tuttavia, una considerevole autonomia (Fiske, 1987: 255-256).

Per una singolare inversione, l’aggettivo produttivo, nell’accezione che gli attribuisce Fiske, si applica agli individui che compongono le audience proprio quando gli investitori pubblicitari li definirebbero wasted watching: “guardare sprecato”. Quando, cioè, mettono in atto pratiche come la resi-

stenza o l’evasione (con le quali – secondo Fiske – emerge e si difende la cultura popolare; 1989: 26) ed esercitano un potere che è per larga parte di

tipo semiotico – vale a dire il potere di costruire «meanings, pleasures, and social identities» – ed in misura minore sociale, in qualche modo connesso al primo ma anche relativamente indipendente, di costruire sistemi socioe- conomici. Una delle maggiori articolazioni del potere semiotico è, come è noto, nella lotta fra «homogeneization and difference, or between consen-

sus and conflict» (Fiske, 1987: 259).

La «semiotic democracy» di Fiske (1987: 236) – definita (in)famous nella successiva critica di Ien Ang (1994) – appare come l’immagine rove- sciata della posizione espressa in Kulturindustrie, dove Horkheimer e A- dorno riducono il profitto a banale pretesto per i “reali” intenti ideologici e “consensuali” dell’industria culturale. Fiske, all’inverso, svincola l’econo-

mia culturale da quella finanziaria – e, quindi, dalla logica comunicativa ed

economico-sociale dei mezzi e degli apparati di comunicazione – per nega-

re il potere dei media di produrre consenso.

La posizione di Fiske può legittimamente essere ricondotta alla terza

tradizione di ricerca sul pubblico indicata da McQuail, vale a dire, la tradi- zione socioculturale e l’analisi della ricezione (1997: 33).

Anche di questo paradigma è difficile rintracciare un’origine unitaria e un’unica “genealogia”. Verso la fine degli anni Settanta vi confluiscono, infat- ti, un certo numero di tendenze che hanno in comune la visione del destinata- rio e dell’audience come soggetti “attivi” dello scambio comunicativo. Vi so- no compresi – ovviamente – i Cultural Studies, ma anche studiosi appartenen- ti a un campo tradizionalmente opposto come quello degli Uses and Gratifica-

tions, che dedicano una nuova attenzione alle attività di interpretazione e, a-

prendosi a una visione più ampia di ciò che i pubblici “possono fare” con i te- sti, cercano di «to build the bridge we have been hoping might arise between gratifications studies and cultural studies» (Katz, 1979: 75). Molte delle più ardite (e contestate) affermazioni sull’“autonomia” dell’active audience na- scono, però, dal rigetto delle teorie che ruotano intorno all’egemonia culturale dei media e dal rifiuto dell’approccio post-strutturalista all’analisi testuale (quella che è stata chiamata Screen Theory). Reazioni che passano attraverso il Centro di Birmingham, ma sono arricchite dalle influenze della estetica del-

la ricezione (Iser, Jauss) e dalla semiotica ad uso televisivo di Eco.

Una fra le “genealogie” del semiotic power può essere fatta, infatti, senz’altro risalire a Umberto Eco, alla sua relazione al Congresso Interna- zionale di Filosofia del 1958, a Opera aperta (1962), in cui il testo è consi- derato una forma vuota aperta ai vari possibili sensi del lettore, e ad Apoca-

littici e Integrati (1964), che estende il carattere “aperto” dei testi ai prodot-

ti delle industrie culturali. Gli strumenti teorici sono soprattutto nel conve- gno di Perugia del 1965, dove nasce la Prima proposta per un modello in-

terdisciplinare sul rapporto televisione/pubblico. In quella occasione un

gruppo di semiotici – fra cui oltre a Umberto Eco, troviamo Paolo Fabbri, Gilberto Tinacci Mannelli, Pier Paolo Giglioli, Franco Lumachi – comin- ciano ad applicare nozioni jakobsoniane ai problemi della ricezione televi- siva, ipotizzando una diversità o, quanto meno, una non piena corrispon- denza, fra i codici dei riceventi e quelli degli emittenti.

In questo convegno Eco presenta “Per una indagine semiologica del messaggio televisivo”, dove compare una nuova interpretazione e conte- stualizzazione del derailment of understanding (Jahoda, Cooper, 1947). Il brano è troppo noto per aver bisogno di essere riassunto qui. Basta ricorda- re, per gli effetti che il concetto avrà, il rifiuto del messaggio per delegitti-

mazione dell’emittente, poi ripreso in quella che Eco (1967) definirà guer- riglia semiologica, ovvero il processo per cui la decodifica dei messaggi

mediali è intenzionalmente divergente: «una tattica della decodifica» – scrive Eco – «in cui il messaggio in quanto espressione non muta, ma il de- stinatario riscopre la sua libertà di risposta».

Nella stessa relazione, Eco abbozza anche quello che in seguito sarà de- finito modello comunicativo semiotico-informazionale (Eco, Fabbri, 1978), elaborato sulla base della teoria matematica dell’informazione di Shannon, con alcune significative variazioni – prima fra tutte l’evidenziazione di un problema semantico, in Shannon completamente assente.

Tutto ruota, invero, intorno alla nozione di codice. Nel modello di Shan- non, concepito per risolvere il problema ingegneristico di sfruttare al me- glio la capacità di canale, il codice artificiale ha la funzione di ridurre la ri- dondanza ed introdurre ridondanza artificiale, onde garantire la trasmissio- ne facile e corretta del messaggio. La lingua naturale non funziona, però, come un codice secondo l’accezione di Shannon: i suoi termini hanno un uso variabile tra coloro che comunicano, a seconda dei contesti, delle circo- stanze, delle culture. A partire da questa considerazione, la comunicazione viene descritta da Eco come un processo di trasformazione da un sistema all’altro, che deve tener conto di variabili quali l’articolazione e la pluralità dei codici e il contesto comunicativo, cioè il luogo, le circostanze e le con- dizioni (anche sociali) in cui il processo avviene.

Nel 1973, Paolo Fabbri in “Le comunicazioni di massa in Italia: sguardo semiotico e malocchio della sociologia” riassume così la posizione: «Le co- municazioni di massa presentano, come tratto specifico del loro funzionamen- to, lo scarto ed il “rumore semantico”; e precisamente l’ambiguità dei testi ri- cevuti secondo codici culturali diversi nel tempo e nello spazio, in correlazio- ne stretta e mal determinata con la stratificazione economica e sociale», e nel- la nota correlata al paragrafo aggiunge: «Le comunicazioni di massa, per la loro diffusione sono il luogo dove il minimo di impredicibilità del messaggio si accompagna al massimo dell’imprevisione sulla ricezione di questo».

Grazie agli studi di Greimas da un lato e di Eco dall’altro, intorno agli anni Settanta, molti studiosi notano la sostanziale inadeguatezza della no- zione di messaggio ad esaurire l’arco delle possibilità della comunicazione. Viene introdotto il concetto di testo, che nell’elaborazione della semiotica, è un meccanismo complesso, centrato su diverse sostanze espressive e mol-

teplici codici. Se il messaggio esaurisce la significazione in rapporto al co- dice, nel testo la significazione ingloba anche le presupposizioni e le argo- mentazioni implicite. In altri termini, nel testo viene ricapitolato tutto il processo di produzione e ricezione della comunicazione. Esso si pone, inol- tre, al centro di una serie di relazioni significanti: è un apparato aperto che si fonda, a sua volta, sui testi che l’hanno preceduto. Le attività di decodifi- ca, quindi – oltre a differenziarsi storicamente, geograficamente, social- mente, culturalmente – mutano durante le attività negoziatrici e sono inoltre disomogenee per uno stesso individuo, nei diversi momenti e circostanze della sua vita sociale. La competenza interpretativa dei destinatari, più che su codici esplicitamente appresi e riconosciuti in quanto tali, si fonda e si articola soprattutto su aggregati di testi già fruiti.

In “Progetto di ricerca sull’utilizzazione dell’informazione ambientale”, Eco e Fabbri (1978) spostano l’oggetto dell’analisi sulle attività negoziatri- ci che si compiono nell’affrontare insiemi testuali commisurati a insiemi di pratiche testuali depositate, all’interno di un flusso comunicativo da consi- derare sincronicamente e dia cronicamente. Come scrive Eco (1984): «la cosiddetta catena significante produce testi che si trascinano dietro la me- moria dell’intertestualità che li nutre»; il testo, dunque, «è un apparato che mette in questione i sistemi di significazione che gli preesistono, spesso li rinnova, a volte li distrugge».

Il semiotic power – nelle sue versioni radicali – si rifà anche a posizioni che preludono al decostruzionismo. In “La morte dell’autore” (1968), Bar- thes aveva già annunciato la nascita del lettore come luogo di concentrazione della molteplicità di scritture e di culture di cui il testo è composto, sottoline- ando che il senso ultimo del testo è il suo essere libero per il lettore. L’autore è ridotto a mero luogo di incontro di linguaggi, citazioni, ripetizioni, echi e referenze, e il lettore è libero di aprire e chiudere processi di significato del testo. Ne Il piacere del testo (1973), poi, il lettore mette in opera un’inter- testualità libera e slegata da imperativi testuali, seguendo percorsi del tutto individuali. Come fa lo stesso Barthes, “obbligato” a ricordare e a ritornare a Proust, sia che legga Sthendal sia che legga Flaubert – assaporando «il regno delle formule, il rovesciamento delle origini, la disinvoltura che fa venire il testo anteriore dal testo ulteriore» – perché per lui Proust rappresenta il man- dala di tutta la cosmogonia letteraria, come i romanzi di cavalleria per don Chisciotte: «Ed è questo l’intertesto, l’impossibilità di vivere al di fuori del testo infinito – sia questo testo Proust, o il giornale quotidiano, o lo schermo televisivo: il libro fa il senso, il senso fa la vita».

E a questo punto, le fondamenta semiotiche del “potere” del consumato- re di costruire «meanings, pleasures, and social identities» (Fiske, 1987) ci sono tutte.