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Giochi con la clessidra

3. Back to the Future

La canzone napoletana, come ho anticipato, è il tema della mia tesi di laurea e di qualche pubblicazione successiva. L’esposizione della domanda di ricerca dalla quale, in tempi ormai esistenzialmente remotissimi, ho pre- so il via, richiede tuttavia alcune considerazioni preliminari sulle caratteri- stiche del prodotto e del fenomeno.

La prima è che, per assistere a manifestazioni musicali paragonabili per profondità e persistenza nella memoria e nell’immaginario collettivi, dob- biamo attendere gli anni ‘40-50 del Novecento e spostarci geograficamente negli Stati Uniti dove, grazie alla convergenza fra tecnologie di riproduzio- ne e trasmissione del suono, e all’operato congiunto degli studios hollywo- odiani, delle major discografiche e delle radio, nascono i primi evergreen planetari paragonabili a ‘O sole mio.

Da ciò la seconda considerazione: posto che le canzoni napoletane sono globalmente conosciutissime, se anche la notorietà attuale può essere par-

zialmente attribuita a un massiccio e corretto uso dei media di riproduzione e trasmissione (ipotesi, tra l’altro, tutta da verificare), rimarrebbe il proble- ma che questo prodotto – e in particolare i suoi esemplari più famosi – na- sce e si diffonde molto prima dei mezzi tecnici di riproduzione e trasmis- sione del suono. Evidentemente, allora, le canzoni napoletane sono molto conosciute già “prima” di essere riprese e ulteriormente diffuse dai mezzi tecnici. Pur volendo sorvolare sul perché di tanta fama e diffusione (che è comunque una bella domanda), rimane il problema del come.

E qui sta il cuore del problema che a suo tempo mi sono posta: come mai, in poche parole, riscontriamo un fenomeno di grande diffusione e di penetrazione profonda e geograficamente estesa di prodotti musicali conce- piti per un largo pubblico, in assenza di mezzi tecnici di riproduzione e tra- smissione del suono e sostenuta da un unico medium, la stampa. Che è un medium selettivo (per accedervi bisogna essere alfabetizzati) e tipico di una industria, quella editoriale, che vende i suoi prodotti a prezzi più o meno accessibili. Mentre il tutto avviene in un territorio fortemente segnato dall’analfabetismo, dove l’economia domestica della maggior parte delle famiglie è al di sotto della pura sussistenza.

L’ipotesi di ricerca – posto che il verificarsi di un fenomeno di diffusio- ne e penetrazione di un prodotto culturale presuppone l’esistenza di appara- ti produttivi e distributivi – è che a Napoli, sul finire del XIX secolo vi sia- no delle imprese editoriali che producono e diffondono prodotti musicali dalle caratteristiche adatte ad incontrare un pubblico vasto, interclassista e multiculturale. E che tale “sistema” elabori e combini, in sinergia con la stampa di informazione e con le organizzazioni dello spettacolo dal vivo, modalità di diffusione straordinariamente efficaci. Quello che ipotizzo è, in breve, un sistema di industria culturale, con una “dotazione” mediale deci- samente scarna, in un territorio e in un’epoca lontani (almeno secondo la storiografia più accreditata) anche dall’industrializzazione tout court.

Oggi attribuisco la maggior parte degli esiti di questa ricerca alla fortuna del principiante. All’epoca avevo un’idea soltanto molto vaga di quello che andavo facendo. Ma questo è proprio uno dei casi in cui si può affermare che l’“ignoranza aiuta”: fossi stata un «tecnico troppo ben addestrato» (Wright Mills, 1957: 223) avrei avuto forse meno immaginazione sociolo-

gica ma, soprattutto, meno incoscienza nel maneggiare un concetto come industria culturale in relazione a un territorio e ad una economia le cui ca-

ratteristiche erano lontanissime dal capitalismo maturo descritto nel saggio di Horkheimer e Adorno.

Nel definire la canzone napoletana classica come un fenomeno di indu-

stria culturale, utilizzo una nozione sicuramente eterodossa rispetto a qual-

materiali derivanti dall’impostazione e dalle fonti digiacomiane, altrettanto non sono in linea con una nozione di “industria culturale” centrata sulla “potenza” dei media di riproduzione e trasmissione, sulla loro capacità di superare le barriere (linguistiche, culturali, economiche) che tradizional- mente scrittura e stampa frappongono alla fruizione, raggiungendo (e in- fluenzando, quando non manipolando) la “massa”.

Uso, tuttavia, una nozione piuttosto prossima a quella “neutra” dell’U- nesco del 1982, dove le industrie culturali sono descritte come apparati di produzione, riproduzione e distribuzione di beni e servizi culturali, in cui vige una divisione razionale del lavoro che inizia al momento della fabbri- cazione dei prodotti, prosegue nei piani di produzione e di distribuzione, e termina negli studi del mercato culturale. Un processo produttivo impostato «con criteri industriali e commerciali, su larga scala e in conformità a stra- tegie basate su considerazioni economiche piuttosto che strategie concer- nenti lo sviluppo culturale».

Ma l’industria culturale napoletana fin de siècle, anche osservata attra- verso il “modello Unesco”, rappresenta comunque una anomalia.

In assenza di mezzi tecnici di riproduzione e di trasmissione del suono, vengono infatti in primissimo piano le alleanze strategiche fra diversi settori economici e, in particolare, delle sinergie fra diversi settori di produzione culturale e fra produzione culturale e segmenti economico-produttivi come il commercio e il turismo (a loro volta strettamente legati al territorio e alle sue peculiarità). Ma, ancor più, la capacità dei comparti di produzione culturale di innervarsi nelle culture, nelle reti e nei rituali mondani e sociali, di entrare nel quotidiano e di sfruttare i miliardi di ordinarie interazioni comunicative che vi avvengono. Viene alla luce, in breve, il suo carattere sistemico.

Ritorniamo, così, alla nozione fondata da Horkheimer e Adorno nel 1947, ritenendone però quasi esclusivamente l’enfatizzazione delle sinergie fra diversi segmenti produttivi. Ma, mentre per i francofortesi l’interdi- pendenza dei diversi settori dell’industria culturale e la loro coesione siste- mica sono, a loro volta, subordinatamente connesse al sistema di interdi- pendenze e alla coesione del sistema industriale del capitalismo maturo, nella mia analisi della canzone napoletana a fare da collante è il territorio, nella sua dimensione economica e produttiva ma – anche e soprattutto – nell’insieme dei rapporti sociali e di vita, nelle culture e tradizioni, nei flus- si comunicativi, nella comunicazione sociale.

Attraverso il caso canzone ho scoperto, sin dalla “prima volta”, una cer- ta insufficienza della modellistica. E specialmente di quella che enfatizza la centralità dei media ed affida la possibilità di penetrazione sociale dei pro- dotti culturali alla “potenza” o alle caratteristiche dei mezzi tecnici.

ta, proprio quella del media power: come mai constatiamo “effetti” profon- di in assenza di un “media potente”?

Per qualche tempo ho dubitato che le anomalie napoletane derivassero da semplice immaturità del sistema economico e industriale e che la capil- larità dell’uso innovativo di strumenti tradizionali dipendesse dalla necessi- tà di vicariare le debolezze e le carenze della strumentazione mediale.

I successivi anni di ricerca mi portano oggi ad affermare che non è così. E penso di poter dire che quello che cominciava ad apparire ai miei occhi, in quella prima “esplorazione” del sistema napoletano fine ottocentesco (e che da quel momento sto cercando di chiarire innanzi tutto a me stessa), è la necessità di trovare una nuova definizione di “industria culturale”: non mediacentrica, e nemmeno centrata esclusivamente sul processo produttivo. Quest’ultimo, pur fondamentale, appare soltanto uno degli elementi del processo di produzione culturale, accanto ad altri e altrettanto cardinali pro- cessi: quelli del consumo, a loro volta storicamente e geograficamente si- tuati in un insieme di rapporti sociali e di vita, e all’interno di culture, tradi- zioni, flussi comunicativi. Nei quali gli attori del consumo sono, a pieno titolo, produttori.